venerdì 13 novembre 2015

A Napoli omaggio al cinema di Salvatore Piscicelli

Nell'ambito della sua XV edizione, che si svolgerà a Napoli dal 18 al 21 novembre prossimi, il Festival del Cortometraggio 'O Curt rende omaggio a Salvatore Piscicelli con la proiezione di quattro film.
Un incontro con il regista, moderato da Alberto Castellano, è previsto il 18 novembre alle 20.30 presso l'Istituto Francese di Napoli in Via Crispi, cui farà seguito la proiezione del film Il corpo dell'anima.
Ulteriori notizie sul programma sono reperibili nel sito del festival.

Dal programma del festival:

Il corpo del cinema
di Francesco Napolitano

L'omaggio del nostro festival a Salvatore Piscicelli, tra gli autori più originali e innovativi che il cinema italiano abbia espresso dalla fine degli anni '70, racchiude quattro film che sembrano scandirne al meglio il percorso artistico-espressivo. Si tratta dell'esordio folgorante di Immacolata e Concetta – L'altra gelosia (1979), del successivo Le occasioni di Rosa (1981), di Regina (1987) e de Il corpo dell'anima (1999), questi ultimi due raramente transitati nei circuiti cinetelevisivi e mai pubblicati in home video.

Sono bastati i primi due film, Immacolata e Concetta e Le occasioni di Rosa – ne sono seguiti   altri  due che completano la cosiddetta tetralogia su Napoli, e cioè Blues Metropolitano (1985) e Baby Gang (1992) -, perché un nuovo sguardo critico su Napoli si spalancasse e un'immagine della città diversa da quella tradizionale, oleografica e stereotipata di tanto cinema precedente, andasse prendendo forma. Da quel momento non sarebbe stato più possibile filmare Napoli, le sue trasformazioni e le sue contraddizioni derivanti dal processo di modernizzazione che negli anni '80 si andava sviluppando, se non con nuove modalità espressive che le avrebbero sapute cogliere nella loro essenza.
Una scelta estetica che si fa etica. Dove la solida cultura cinematografica dell'autore e i suoi gusti cinéphile (il cinema classico americano, il melodramma di Douglas Sirk reinventato da Fassbinder, il cinema di Rosi, la fascinazione per il cinema giapponese e le nouvelles vagues degli anni '70) insieme alla formazione e ai forti interessi di natura filosofica, letteraria e antropologica, gli consentono di praticare  “un cinema-sonda dei cambiamenti sociali, conoscendone direttamente il contesto e  avendo vissuto da ragazzo il radicale cambiamento della fine della cultura contadina e il processo veloce e distruttivo di urbanizzazione...in cui la criminalità trovò terreno fertile per fare affari...E io volevo raccontare storie sia con empatia sia con giusta distanza, per evidenziare le contraddizioni di quelle frettolose e ambigue modernizzazioni” (si legge in un'intervista del 2012), e lo portano a cercare “una terza via fra stereotipi come film su sceneggiate o teatro, e cinema borghese d'impegno civile; volevo mescolare senza manicheismi alto e basso, popolare commerciale e critica colta”.

Immacolata e Concetta – L'altra gelosia (1979) - lungometraggio d'esordio di Piscicelli (aveva però già realizzato dal '76 al '78 cinque lavori, perlopiù documentari per la televisione), scritto con Carla Apuzzo, che sarà la sceneggiatrice di tutti i suoi film -, e Le Occasioni di Rosa (1981) -  successivo a Bestiario Napoletano, serie di ritratti di persone accomunate dalla loro appartenenza alla città partenopea, girati per la neonata terza rete della Rai -, sembrano essere il manifesto di questa poetica.
Nel primo si racconta l'amore tra Immacolata e Concetta che, nato in carcere, continua, non celato, anche al di fuori, a casa della prima, sullo sfondo di una Pomigliano D'Arco ancora immersa nella civiltà contadina, che però comincia a scricchiolare sotto il peso del processo in corso di urbanizzazione. Tra la sfida all'oppressione delle convenzioni sociali e familiari, e l'oscillazione tra il contrasto e il cedimento al potere maschile da parte di Immacolata, si va preparando il dramma che, grazie a un'attenta, originale e talvolta trasgressiva messinscena, si staglierà in tutte le sue implicazioni sociali e politiche, al di là di ogni coinvolgimento emotivo dello spettatore.
Lo scenario invece del secondo film, Le occasioni di Rosa, è la periferia urbana di Napoli (la 167 di Secondigliano), filmata per la prima volta come “un deserto di macerie emotive e culturali” (quelle che dimorano nell'anima dei suoi abitanti), e come elemento centrale della narrazione cinematografica.
Rosa è una giovanissima operaia che vuole abbandonare la fabbrica in cui lavora. Allora si prostituisce , con la complicità del suo fidanzato, a cui a sua volta è legato un agiato omosessuale che spera di ottenere dalla coppia la nascita di un figlio che potrà far suo. Un dramma familiare (e una famiglia di natura particolare) anche qui, e ancora una figura femminile indimenticabile, sebbene, come Piscicelli stesso ebbe ad affermare: “Immacolata era a modo suo un'eroina tragica. Rosa arriva dopo la fine della tragedia.”

Con Regina e Il corpo dell'anima il cinema di Piscicelli si arricchisce di nuovi temi e suggestioni espressive, senza abbandonare quelli già disseminati nei precedenti film (il sesso, il denaro, il rapporto di potere nella coppia). La centralità della figura femminile rimane, sia pure in contesti ambientali e temporali differenti. Nel primo, Regina è un'attrice teatrale di mezza età colta nel momento di crisi professionale a cui si aggiunge il tormentato rapporto sentimentale con un giovane che posa per fotoromanzi porno. Nel secondo, quasi interamente girato in interni, Luana è la giovane cameriera di un anziano sceneggiatore al quale dona, con semplicità e generosità, momenti di acceso, insperato amore, predisponendolo così di nuovo alla vita.
Echi autobiografici e riflessioni sulla produzione artistica, rimandi a temi eterni come lo scorrere del tempo, il confronto vecchio/nuovo, o la lotta tra natura e cultura si intravedono qui più da vicino. E tuttavia, anche in questi film, e negli ultimi lungometraggi di Piscicelli, Quartetto (2001) e Alla fine della notte (2002) - interni per così dire (per i temi e gli spazi disegnati) - , la coerenza con l'idea forte di cinema che aveva segnato i suoi inizi, con l'autenticità del suo sguardo cinematografico originario, permane intatta, così come la sua voglia di sperimentare sempre nuove soluzioni linguistiche. Impreziosite da mille sfumature dei personaggi che rendono le sue storie ancora  più appassionate, talvolta venate di malinconia, ma sempre vere.

domenica 21 giugno 2015

Il sorriso di Setsuko Hara

In questo mese di giugno, precisamente il 17, Setsuko Hara ha compiuto 95 anni. Fiorisce ancora sul suo volto segnato dall'età l'incantevole sorriso che sedusse milioni di ammiratori, in Giappone e fuori dal Giappone? Immagino di sì, spero di sì, sono sicuro di sì, ma non ne abbiamo testimonianza. Da quando, nel 1963, decise di abbandonare il cinema, Setsuko è letteralmente scomparsa, nessuna immagine di lei è più circolata, nessuna intervista.

Per una curiosa coincidenza, in questo stesso mese esce nelle sale italiane una versione restaurata di Tokyo monogatari (Storia di Tokyo, noto in Italia come Viaggio a Tokyo, 1953) di Yasujiro Ozu. Capolavoro assoluto, il film racconta il viaggio a Tokyo di un'anziana coppia in visita ai due figli sposati, che però li accolgono con freddezza e indifferenza. L'unica a circondarli di affetto e attenzioni è la nuora, Noriko, giovane vedova di guerra.

C'è qualcosa di sublime, di indimenticabile nel modo in cui Setsuko Hara interpreta il ruolo di Noriko. "Il suo sorriso disperatamente cortese, la sua dignità e quel fremito di strazio nella voce sono assolutamente affascinanti. Sfido chiunque a vedere il film e a non sentirsi travolti da una qualche forma d'amore per Hara - per quanto assurdo ciò possa suonare." Così scrisse sul Guardian il critico Peter Bredshaw in occasione del novantesimo compleanno dell'attrice, e io sottoscrivo; insieme a molti altri ne sono la prova, mi sono innamorato di Setsuko/Noriko fin dalla prima volta che ho visto il film, nei primi anni Settanta, nella sala dell'Istituto giapponese di cultura a Roma.

Tra la fine degli anni Trenta e i primi anni Sessanta, Setsuko Hara è stata una delle grandi star del cinema giapponese, forse la più grande e la più amata. Si accosta al cinema fin dal 1935, introdotta nell'ambiente dal cognato, il regista Hisatora Kumagai, e già due anni dopo si impone all'attenzione recitando in una coproduzione nippo-tedesca, La nuova terra. Lavora con i registi più importanti del periodo, da Kinoshita a Kurosawa, da Naruse a Ozu, dimostrando una grande duttilità nell'interpretare ruoli anche molto diversi tra loro. Penso a L'idiota (1951) di Akira Kurosawa, tratto dal romanzo di Dostoevskij, dove si cala nei panni ambigui di Taeko (la Nastas'ja del romanzo) o per converso alla moglie infelice di Meshi (Il pasto, sempre del 1951) di Mikio Naruse.


Ma è a Ozu che più spesso si associa il nome di Setsuko Hara. Girano il primo film insieme nel 1949. Si tratta di Banshun (Tarda primavera, 1969), un altro capolavoro. Questo è il film dove il linguaggio dell'Ozu maturo si cristallizza nella sua limpidezza. E Setsuko Hara dà un'altra prova straordinaria del suo talento. Il sodalizio tra i due durerà fino al 1961.

Si può dire che Setsuko attraversa il cinema di Ozu come un elemento naturale, incarnando una figura femminile (con più o meno marcate variazioni) che vive al centro del conflitto tra le attese, o le pretese, della società e le aspirazioni individuali, tra le convenzioni e la spinta a vivere più liberamente i propri sentimenti e i propri bisogni; una figura di donna apparentemente sottomessa ma in realtà forte, decisa a trovare la sua strada pur attraverso i dubbi. Setsuko la fa vivere sullo schermo con un gioco attoriale dove all'economia dei mezzi corrisponde una grande forza espressiva. Sul suo volto le emozioni trascorrono come un sottile gioco d'ombre, dove i sentimenti si esprimono e si nascondono al tempo stesso nel loro sfuggente mutare.

E poi c'è il sorriso di Setsuko. A volte raggiante, a volte trattenuto, a volte appena accennato, sboccia sul suo viso come un fiore, un sorriso dolce e malinconico insieme, eppure enigmatico. Vi si può leggere quel sentimento dell'impermanenza delle cose (il mono no aware), tipico della visione del mondo giapponese legata al buddismo, ma anche qualcosa di più. Quel sorriso apre e chiude a un tempo, dice la grande dolcezza della donna, la sua capacità d'amore, ma sancisce al tempo stesso che la sua interiorità è inaccessibile. E' un sorriso che suggella l'enigma del femminile, da cui deriva il suo fascino

Setsuko Hara gira l'ultimo film con Ozu nel 1961, Kohayagawa-ke no aki (L'autunno della famiglia Kohayagawa). Per il regista è il penultimo della sua carriera perché poi, dopo un altro lavoro, si ammala e muore il 12 dicembre 1963, il giorno del suo sessantesimo anniversario. Poco dopo Setsuko Hara annuncia in una conferenza stampa che si ritira a vita privata. Dice che non ha mai veramente amato recitare, che lo ha fatto solo per sostenere la sua famiglia. Tornerà ad essere soltanto Masae Aida (il suo vero nome).

La reazione - dello studio presso il quale era sotto contratto, dei giornalisti, del pubblico - fu estremamente negativa. Non era per nulla chiaro il vero motivo per cui a 43 anni, nel pieno del successo, la star abbandonasse il cinema. Si accennò a un problema alla vista, si parlò della sua supposta relazione sentimentale con Ozu. Setsuko Hara non s'è mai sposata, la chiamavano l'eterna vergine. Anche Ozu era scapolo, visse tutta la vita con la madre, fino alla morte di lei, nel '61. Ma nulla è certo a proposito di questo legame amoroso. Fatto sta che, malgrado le proteste, le blandizie e le accuse, Setsuko si ritirò in una piccola casa a Kamakura e da allora nessuno  l'ha più vista. Kamakura era stato il set di vari film girati con Ozu e sempre a Kamakura, nel recinto dell'Engaku-ji, un tempio zen, c'è la tomba del regista sulla quale è inciso non il suo nome ma l'ideogramma del mu, il concetto buddista di nulla/vuoto.

venerdì 17 aprile 2015

Omaggio a Teresa d'Avila

Quest'anno cade il quinto centenario della nascita di Teresa d'Avila o Teresa de Jesus, al secolo Teresa Sánchez de Cepeda Dávila y Ahumada (Avila 1515, Alba de Tormes 1582), santa e prima donna  proclamata dottore della chiesa. Ignoro se i cattolici stiano celebrando adeguatamente l'evento; da non credente (grazie a dio sono ateo, come disse una volta, col suo spirito caustico, Luis Buñuel), nutro da molto tempo un amore speciale per questa donna straordinaria e perciò approfitto della circostanza per renderle omaggio.

Teresa mi piace innanzitutto come scrittrice. Consiglio la lettura della Vita (Libro de su vida) e delle Fondazioni (Las fundaciones), testi di carattere più narrativo, il primo autobiografico, il secondo dedicato alla riforma del Carmelo e alla fondazione dei monasteri. Ma non meno straordinari sono i testi di carattere teologico e ascetico, il particolare Las moradas (Le stanze) detto anche El castillo interior (Il castello interiore), dove traccia il percorso dell'anima verso l'unione mistica con Dio. La scrittura di Teresa è spontanea, istintiva, veloce, vicina al parlato, tanto da ignorare spesso le regole dell'ortografia e della sintassi, dunque lontana dalla lingua dei letterati; una scrittura che esprime una voce, e direi quasi un respiro, forte e vivo, e tuttavia una scrittura di grande eleganza e di esattezza espressiva, a dispetto dell'andamento movimentato del flusso espositivo. Nella prosa Teresa rappresenta uno dei vertici della letteratura spagnola del Cinquecento, così come nella poesia occupa un ruolo centrale il suo amico e confratello, e sodale nella riforma carmelitana e nella ricerca mistica, Giovanni della Croce. Una coppia formidabile.  

Nel 1999 ho diretto un film intitolato Il corpo dell'anima (tratto da un romanzo omonimo allora inedito e che solo recentemente ho pubblicato in ebook). Narra la storia d'amore, a forti tinte erotiche, tra un anziano scrittore, Ernesto, e la sua giovane, ignorante ma sensualissima cameriera Luana. Ernesto (interpretato da Roberto Herlitzka) sta scrivendo una sceneggiatura sulla vita di Teresa d'Avila e così quest'ultima finisce per diventare un vero personaggio, sebbene assente, l'altro polo femminile per lo scrittore: insomma, qualcuno direbbe, la santa e la puttana. Ma chi ha visto il film sa che le cose sono molto più complicate... Per dare allo spettatore una sorta di correlativo oggettivo di questo personaggio assente, ho filmato l'Estasi di Santa Teresa di Bernini, forse la scultura più famosa del Barocco, quella che per Lacan rappresentava l'emblema stesso del godimento femminile (ma del godimento Altro, sottratto al dominio del Fallo e dunque indicibile, come lo è ogni esperienza mistica). Cito dal romanzo. E' Ernesto che parla, rievocando una visita alla Cappella Cornaro, nella chiesa di Santa Maria della Vittoria, dove è collocata la scultura:

Non c'è dubbio che Bernini riesce a cogliere con assoluta precisione quel momento dell'abbandono estatico, in cui i sensi vengono meno e l'anima fa il vuoto dentro di sé, vi stabilisce un sovrumano silenzio, una quiete perfettissima e così svuotandosi consente a Dio, l'altro da sé, di permearla fin nel profondo. 
Questa tecnica del fare il vuoto dentro di sé Teresa l'apprende assai presto, intorno ai ventitré anni, leggendo un libro del francescano Osuna, il Tercer Abecedario (anche se dovrà passare molto tempo prima che divenga rigorosa pratica quotidiana). E' un terreno sul quale si spingerà molto avanti Giovanni della Croce, in un delirio che sfiora il nichilismo. Questo elemento avvicina il misticismo cristiano a quello indù e buddista. Sembrerebbe il tratto universale di ogni forma di misticismo.
Ma in Teresa c'è di più. Questo di più è una forte sensualità, che investe anche l'esperienza mistica. Si potrebbe perfino dire che di quest'ultima l'innata sensualità di Teresa è una delle più prepotenti motivazioni.
Quando, verso i quarant'anni, Teresa si converte, come dice lei, al cammino della perfezione, non è difficile immaginare che dietro questa scelta ci sia anche il primo assaporamento dei piaceri dell'esperienza mistica. Mi riferisco concretamente alle delizie anche fisiche del deliquio, del venir meno dei sensi, dell'abbandono totale; condizione che ben conoscono e apprezzano anche i cultori di un certo tipo di droghe.
In quegli anni Teresa scopre che, nel confronto inevitabile tra lo sposalizio mistico e quello terreno (parallelo quanto mai abusato nella letteratura mistica), anche sul piano del piacere il primo è di gran lunga più allettante del secondo. Immagino che di quest'ultimo abbia avuto davanti agli occhi il modello più vicino a lei, quello della madre Beatriz: dieci figli in diciotto anni di matrimonio, morte prematura a trentatré, e come unici passatempi la lettura dei romanzi cavallereschi, malvista dal marito, e forse qualche chiacchiera con le amiche sedute sull'estrado. Niente a che vedere con la traboccante ricchezza dell'esperienza di vita di Teresa, in termini di piacere e in termini psicologici, per non parlare di quelli sentimentali (si pensi al rapporto, negli ultimi anni, col giovane Jerónimo Gracián, quello che alla sua esumazione le tagliò la mano per tenerla sempre con sé). 
Questa capacità tutta positiva e femminile di tendere al piacere e di saperlo apprezzare, è pervadente, investe tutti gli aspetti della sua vita, anche nei dettagli. Confesserà a Giovanni della Croce di provare "molto piacere", nel comunicarsi, quando le ostie sono grandi. Più grande è l'ostia, più lungo e soddisfacente sarà il contatto fisico, orale, col corpo di Cristo. E Giovanni un giorno la mortificò: al momento della distribuzione delle ostie spezzò quella che avrebbe dovuto dare a lei e ne diede una parte a un'altra monaca.
E' il tratto caratteriale che la distingue nettamente dal pur amatissimo Giovanni, al quale rimprovererà in una lettera di essere incapace di accettare le gioie dell'amore di Dio, lui che pure aveva scritto le più belle poesie d'amore spirituale di tutta la letteratura spagnola. Per Teresa, come per Osuna, la felicità e il paradiso vanno cercati in questa vita e non solo in quella futura. Così scompare, o si attenua, la paura dell'inferno, viene meno quell'immaginario di orrori che accompagna il credente. In questo, Teresa è assai poco ortodossa rispetto alla Spagna dell'Inquisizione.
Non vi è dubbio che nella sensualità di Teresa vi sia una componente masochistica, come del resto in ogni forma di sensualità. In un capitolo della Vita dove racconta proprio la visione presa a modello da Bernini per la sua opera, con l'angelo che la trafigge con una lunga freccia d'oro, così scrive: "Il dolore era tale, che mi faceva emettere quei gemiti che dicevo, ma la dolcezza, al tempo stesso, era così sovrabbondante, che l'anima non poteva desiderarne la fine... Non è un dolore fisico ma spirituale: eppure il corpo vi partecipa alquanto, anzi parecchio." Tutta la sua opera è piena di annotazioni simili. 
Per anni dovette abbandonarsi al piacere masochistico provocato dalle continue, reiterate mortificazioni corporali. In età più avanzata si correggerà e metterà spesso in guardia le sue monache dai rischi connessi con l'eccesso di queste pratiche, che genera una forma di godimento perverso.
Guardavo il marmo berniniano e mi dicevo che lì la sensualità non sta tanto nell'atteggiamento di Teresa quanto nello stile dell'artista: quelle mani e quei piedi così carnali, quelle labbra così turgide, quei panneggi così vaporosi.
Sono uscito e senza farci troppo caso ho proseguito per via del Quirinale, così mi sono trovato davanti a quell'altro capolavoro del barocco romano, il San Carlino alle Quattro Fontane, progettato da Borromini. Sono entrato e vi ho sostato qualche minuto. Anche in questa chiesa non mettevo piede da anni. Qui lo stile è più spirituale, si verticalizza drammatizzandosi. In effetti, si potrebbe istituire un curioso parallelo tra mistica e stile barocco: a Bernini corrisponderebbe Teresa, a Borromini Giovanni della Croce.

Teresa vive ed opera nella Spagna di Carlo V e di Filippo II, nel paese dove giungono galeoni carichi d'oro dal Nuovo Mondo, la Spagna dell'Inquisizione, dove le lotte per il potere politico si sovrappongono a quelle per il potere religioso, un'epoca di grande splendore e di grandi chiusure. E' su questo sfondo che si svolge la sua vicenda umana, nella quale si intrecciano due dimensioni apparentemente inconciliabili. Da un lato c'è la Teresa che persegue nel silenzio del chiostro il suo dialogo con Dio e lo fa con una tale dedizione da giungere a definire nuove mappe per la ricerca mistica. Dall'altro lato, e contemporaneamente, c'è la Teresa, indomabile e attivissima, che riforma un ordine religioso, tra mille difficoltà e resistenze di ogni tipo, viaggia per tutto il paese e vi fonda numerosi monasteri, dialoga con sovrani, nobildonne e prelati per dare un futuro alle sue comunità. La cosa straordinaria è che questi due aspetti si conciliano perfettamente nella figura storica di Teresa, si fondono in una sola immagine.

Grazie alla sua personalità, Teresa esercitò un enorme fascino sui contemporanei. Sul piano fisico, stando alle testimonianze, era dotata di una certa bellezza. Una sola volta, per ubbidire a un invito di padre Gracián, si fece ritrarre da un pittore, un frate di origine napoletana, Giovanni della Miseria. Aveva allora sessantun anni. Il quadro (vedi l'immagine all'inizio del post) non le piacque. Si racconta che rimproverò amabilmente fra Giovanni perché l'aveva dipinta "brutta e cisposa". Dopo la morte la sua fama continuò a crescere. Il suo stesso corpo fu smembrato per farne reliquie da distribuire in vari luoghi. Cito ancora dal romanzo, dove Ernesto racconta l'esumazione del corpo di Teresa come fosse la scena di un film:

La sequenza è ambientata nel convento del Carmelo di Alba de Tormes, tra Salamanca e Avila. Siamo ai primi di luglio del 1593, nove mesi dopo la morte di Teresa. Nel giardino del chiostro, sotto il sole cocente della Castiglia, due uomini a torso nudo, sudati, hanno appena finito di scavare la gran massa di terra, calce e pietre che ricopre la bara della santa. Sono il padre Gracián, provinciale dell'ordine, e un suo compagno, padre Ribera. Vi hanno lavorato per quattro giorni. Intorno alla fossa sono raccolte una dozzina di monache, tra le quali vi è Juana del Espiritu Santo, priora del convento. E' dietro sua richiesta che il provinciale ha acconsentito all'esumazione, con lo scopo di dare una più degna sepoltura a Teresa. Per evitare interferenze, nessuna persona esterna al convento è stata informata dell'operazione. Dunque, per mezzo di grosse corde, la bara viene tirata su. Sul volto degli astanti si legge la preoccupazione di trovarsi, di lì a poco, davanti a un cadavere putrefatto. Solo Juana sembra fiduciosa nel miracolo. Il padre Gracián apre la bara, tutti allungano il collo per guardare, ma non si scorge granché. La terra ricopre quasi per intero il drappo dorato nel quale era stato avvolto il corpo di Teresa. Juana si inginocchia e, senza mostrare alcun disgusto, infila una mano nel sarcofago ma la ritira quasi subito. Un'ombra di inquietudine le attraversa il volto. 
"Il drappo e gli abiti sono completamente ammuffiti," dice. 
La bara viene portata via.
E' notte. Siamo nella cella della priora. Juana e altre tre o quattro monache sono inginocchiate intorno al letto, dove è stato deposto il corpo di Teresa, ricoperto da un lenzuolo di tela grezza. Preceduti da un'altra monaca, il padre Gracián e il padre Ribera entrano nella cella. Juana si volta, si alza. Sorride. I suoi occhi sono raggianti di felicità. 
"Il corpo è intatto," dice in un soffio. "Come se fosse appena morta." 
Il provinciale dei carmelitani si avvicina al letto. 
"E quel profumo," aggiunge Juana estasiata, "quell'effluvio di gelsomino e di cannella, che ci accompagna da mesi, da quando la Madre è morta, non lo sentite anche voi, così forte, così soave?" 
Padre Gracián tace per un attimo, poi ordina: "Sollevate il lenzuolo." 
Dalle maniche del saio viene fuori un coltello. La lama brilla alla luce delle candele. Juana ha un soprassalto. 
"Cosa volete fare, padre, con quel coltello?" 
"Le reliquie dei santi sono un bene prezioso per i fedeli. Prima di riconsegnare alla terra il corpo della nostra santa Madre, voglio prelevare una mano. Sollevate il lenzuolo." 
Juana esita. Il provinciale ripete per la terza volta il suo ordine. E finalmente la priora lo esegue. Il telo viene sollevato. Il padre Gracián guarda quel corpo e il suo volto esprime un solo sentimento: amore. 
"Che bei seni!" mormora tra sé. "Sembrano quelli di una fanciulla." 
Poi si inginocchia e, come in trance, affonda il coltello nel polso di Teresa. La carne e le ossa, sorprendentemente, non oppongono resistenza. La mano si stacca dal resto del corpo... 
Su questa immagine, una voce fuori campo ci informa che il padre Gracián porterà con sé quella mano, chiusa in un sacchetto di cuoio appeso al collo, per tutto il resto della sua vita.

Una scena dal sapore buñueliano, non c'è che dire.

P.S. Se a qualcuno saltasse il ghiribizzo di andare a visitare la Cappella Cornaro, in Santa Maria della Vittoria a Roma, per ammirare la scultura teresiana di Bernini, è bene che, per un po', vi rinunci. Il MIBACT (Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo) ha deciso di procedere alla ripulitura dell'opera e di tutta la cappella proprio in coincidenza col quinto anniversario della nascita di Teresa d'Avila. I lavori sono stati avviati nel dicembre 2014 e proseguiranno fino a luglio 2015 (per chi ci crede). L'hanno fatto apposta? Quale logica sta dietro a certe scelte? Misteri della burocrazia italiana.



mercoledì 18 marzo 2015

La canzone di Marcello

La canzone di Marcello, un documentario con Marcello Colasurdo, è visibile su youtube a questo indirizzo.

Ho girato questo film tra il 2004 e il 2006, filmando buona parte del materiale io stesso con la camera a mano. E’ un ritratto, per così dire, schizzato a matita dell’artista e del personaggio, un omaggio affettuoso e molto personale a Marcello, cui mi lega un’amicizia ormai più che trentennale.


Di seguito una scheda completa del film.

Regia, riprese, montaggio: Salvatore Piscicelli
Riprese aggiunte: Timoty Aliprandi, Saverio Guarna, Huub Nijhuis
Assistente al montaggio: Cristiana Cerrini
Musiche: Marcello Colasurdo e Paranza
Genere: documentario
Durata: 51’
Formato: DV, 4:3 – colore e b/n
Produzione: Carla Apuzzo per Falco Film – Italia, 2006

Con la simpatia umana e la carica comunicativa che lo hanno reso così popolare presso il pubblico di Napoli e della Campania, Marcello ci racconta la sua storia e le sue esperienze, gli incontri con Fellini e Peter Gabriel. Ci parla della politica, della fabbrica, della camorra, della dro
ga, della globalizzazione, della pace e della guerra. Ci conduce, quasi da sacerdote laico, in alcuni luoghi di pellegrinaggio dove si esprime quella religiosità popolare che ha ancora radici pagane. Lo vediamo mentre anima una discussione politica o una festa o quando trasmette l’arte della tammorra e la tradizione orale ai ragazzi del quartiere popolare dove vive. Lo seguiamo con la sua Paranza mentre canta e suona nelle piazze e sui palchi.
Arricchito da materiale degli anni Settanta, il film offre un ritratto a molte facce, denso di musica e di calore umano, di un artista autenticamente popolare.


Chi è Marcello Colasurdo

Di umili origini, Marcello trascorre l’infanzia in diversi collegi, prima a Napoli e poi nelle Marche. Verso i 12 anni, la madre lo riprende con sé.  La famiglia è molto povera. Vivono in un “basso” in fondo a un cortile della vecchia Pomigliano: un’unica stanza in cui si cucina, si mangia, si dorme; il servizio igienico è fuori, in comune con gli altri bassi.
In collegio, Marcello ha conseguito la quinta elementare. Ora si arrangia, come tanti ragazzi po
veri della sua età, facendo i lavori più svariati: garzone di barbiere o di bar, raccoglitore di patate e d’altro in campagna, cantante di matrimoni… Sono questi gli anni della formazione musicale da autodidatta, a contatto col ricco tessuto culturale, contadino essenzialmente, che ancora sopravvive a Pomigliano d’Arco, che in quegli anni si è trasformato nel più grande polo industriale del meridione.
Nel 1975 è tra i fondatori del Gruppo Operaio “’E Zezi”. Animato da Angelo De Falco, il Gruppo è tra i primi a operare un recupero della tradizione musicale contadina in una chiave di forte consapevolezza politica e sociale.
Intanto Marcello partecipa alle dure lotte sociali di quel periodo, in particolare con i disoccupati organizzati. Consegue la licenza media, indispensabile per trovare un lavoro decente, e infine, nel 1980, a 25 anni, entra in fabbrica, all’Alenia, come operaio addetto alle pulizie. Vi resterà fino alla metà degli anni Novanta, pur continuando a lavorare e a tenere concerti con i Zezi.
Nel 1996, fonda il suo gruppo, “Marcello Colasurdo e Paranza”, con il quale produce un disco e tiene moltissimi concerti. Nel 2000, incide per l’etichetta inglese Real World Records di Peter Gabriel un CD, “Lost Souls” (“Aneme perze”), con il gruppo Spaccanapoli, con il quale continua a tenere concerti, soprattutto all’estero. Ha collaborato con tanti musicisti (Almamegretta, 99 Posse, Daniele Sepe, Nuova Compagnia di Canto Popolare, Maurizio Capone…), ha recitato in teatro (con Martone, Pressburger…) e al cinema (oltre che con Piscicelli, con Fellini – “Intervista” del 1987 - e poi con Capuano, De Bernardi, De Lillo). La ricchezza di questa esperienza fa sì che Marcello si trovi a suo agio in qualsiasi contesto: dai teatri tradizionali alle piazze di mezzo mondo, dalle feste popolari ai centri sociali, con artisti tradizionali e artisti d’avanguardia.


La tradizione musicale

La musica popolare, di cui Marcello è interprete principe, ha poco a che vedere con la pur straordinaria tradizione canzonettistica partenopea (anche se ne ingloba la parte più “paesana”). Essa è espressione diretta, e principale, della tradizionale cultura contadina dell’entroterra napoletano, legata al ciclo stagionale dei lavori e al calendario religioso, in particolar modo alle feste in onore delle varie Madonne Nere, eredi cristiane delle antiche divinità femminili della prosperità e dell’abbondanza. E’ una tradizione ricca di forme – canto libero (voce a fronne), canzone propriamente detta, rituali, tammurriate, fiabe cantate, vari tipi di danze, vere e proprie azioni teatrali (come la celebre “Canzone di Zeza”, che si recita a Carnevale con interpreti “en travesti”). Gli strumenti fondamentali sono la voce e la tammorra - il tradizionale tamburo che viene ancora costruito secondo le vecchie regole, spesso dagli stessi esecutori – cui si affiancano altri ingegnosi elementi percussivi (putipù, scetavajasse, ecc.) nonché, di volta in volta, chitarra, mandolino, fisarmonica, pifferi, ecc. E’ una musica dalla forte carica sensuale e partecipativa, che stimola immediatamente il movimento e la danza sfrenata; il che spiega il successo che sta ottenendo in questi anni presso il pubblico giovanile, che pure è così lontano dalle sue radici. In essa non è difficile avvertire echi arcaici, ma anche mediorientali e nordafricani. Negli ultimi decenni, questa musica, pur conservando il suo assetto tradizionale, è stata capace di contaminarsi con contenuti nuovi, legati alle lotte sociali e politiche, e di dialogare con altre forme musicali, come il jazz, il rock e il pop, in un movimento che riflette il processo sociale e culturale che sta alla base del suo recupero.

venerdì 13 marzo 2015

Dai curdi una lezione di democrazia dal basso

La vittoria delle Forze di autodifesa curde (YPG) sulle bande dell'ISIS a Kobane ha portato all'attenzione dei media occidentali la guerra di resistenza del popolo curdo nella regione di Rojava, nel nord della Siria, di fatto autonoma dal regime siriano da diversi anni. Stretta tra l'ISIS al sud e la Turchia al nord (che ha chiuso la frontiera determinando una situazione di embargo), la regione è governata da una coalizione di partiti tra i quali spicca come forza maggiore il Partito d'Unione Democratica (PYD), ala siriana del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK).

Ma in cosa consista questo governo è assai meno noto. Pur nel difficile contesto di una guerra, i curdi stanno provando a costruire un modello di democrazia dal basso fondato su assemblee autonome, in una strutturazione a piramide, dove conta il voto individuale indipendentemente dall'etnia, dalla religione o dal genere. Le decisioni relative all'economia, alla sicurezza, alla giustizia ecc. passano attraverso queste assemblee. Un modello politico-organizzativo dove, peraltro, le donne, che si sono distinte anche sul terreno militare, hanno un ruolo centrale.

Tutto comincia dalla svolta ideologica impressa dal leader indiscusso del PKK Abdullah Ocalan. Catturato nel 1999 a Nairobi, proveniente da Roma, fu condannato a morte; successivamente la pena fu commutata in ergastolo quando la Turchia, sotto la spinta dell'Europa, abolì la pena di morte. Il caso fece scalpore anche in Italia. Il governo D'Alema infatti si rifiutò di concedergli l'asilo politico, costringendolo a partire. Attualmente il leader del PKK è detenuto nell'isola-prigione di Imrali, nel Mar di Marmara.

Nell'isolamento carcerario, Ocalan ha messo in discussione le radici marxiste-leniniste della propria ideologia, sotto l'influsso in particolare delle teorie dell'anarchico americano Murray Bookchin, proponendo quello che definisce un "confederalismo democratico", dove la soluzione del problema curdo all'interno della Turchia si prospetta attraverso una democratizzazione dal basso della società, aperta a tutte le etnie con, in prospettiva, una rottura degli stessi confini statali in Medio Oriente, in gran parte artificiali.

Murray Bookchin è un anarchico americano, anche lui con giovanili radici marxiste. A partire dagli anni Cinquanta egli sviluppa una riflessione molto originale lungo due direttrici: l'ecologia sociale, per la quale i problemi ambientali hanno radice nella mancata soluzione dei problemi sociali all'interno del capitalismo; e il municipalismo libertario, con un tentativo di elaborare una teoria e una prassi di democrazia assembleare.

Una strana coppia quella di Ocalan e di Murray, l'ex guerrigliero marxista-leninista e l'anarchico ecologista e strenuamente libertario. Nel 2004 Ocalan fece contattare Murray dai suoi avvocati ma lui, già malato, non riuscì a incontrarlo. Morì due anni dopo. In diverse assemblee generali il PKK ha reso omaggio a Murray e al suo pensiero.

Insomma, sembrerebbe che i curdi abbiano intrapreso una strada volta a superare al tempo stesso il vecchio modello del socialismo statalista e autoritario e quello altrettanto vecchio della ormai corrotta democrazia rappresentativa. Una grande lezione per tutti.

mercoledì 4 marzo 2015

Inherent Vice

Era da molto tempo che non mi divertivo così tanto al cinema. Inherent Vice di Paul Thomas Anderson (Vizio di Forma in Italia) è pieno zeppo di trovate e di battute formidabili, puro piacere, come farsi un joint di buona erba e ridersela del mondo. Questa è la prima cosa da dire.

Come il romanzo di Thomas Pynchon da cui è tratto, il film è un omaggio ai noir di Hammet e Chandler. In quelle trame intricate e confuse (viene in mente il groviglio o garbuglio di Gadda) si rifletteva l'immagine di un'America complicata, contraddittoria, indecifrabile. Anderson espande ulteriormente questo modello e lo fa esplodere, sfruttando l'immaginazione dissacratoria di Pynchon. Ma dentro questo vortice prende forma una riflessione tagliente sulla politica e sulla storia, oltre che sul linguaggio.

Inherent Vice rievoca con sommo divertimento e gusto dei dettagli la controcultura hippy (e non solo) americana, californiana in specie, degli anni sessanta. Lo fa con una certa sacrosanta nostalgia ma anche interrogandosi, appunto, su quel vizio intrinseco che ne ha decretato lo stravolgimento becero prima, e il fallimento poi, di fronte alla controparte rappresentata dai potenti, dagli speculatori, dai razzisti, dai poliziotti eccetera.

Il fatto è che tra cultura dominante e controcultura viene a crearsi, da un certo momento in poi, più di un legame, più di una consonanza, le due parti cominciano a confondersi. Doc Sportello e il poliziotto "Bigfoot" si somigliano più di quanto siamo disposti ad ammettere, anche se noi, è ovvio, continuiamo a preferire Doc. Così la fricchettona Shasta si innamora di un palazzinaro, il cazzuto Bigfoot è messo in riga dalla moglie, lo strafatto Doc rinuncia a un bel gruzzolo per far sì che si ricomponga una famigliola felice e disintossicata; e così via. Le parti si rovesciano in continuazione, nulla è quel che sembra. E' la paranoia, paradigma dell'America. Ieri come oggi.

Questo ci racconta Il film, e il romanzo prima del film. Si credeva che il mondo potesse cambiare in meglio e invece succede il contrario. E' accaduto in America, è accaduto da noi. Il perché è difficile da spiegare, e comunque la risposta non può essere univoca.

Ma né Anderson né Pynchon ci invitano al catastrofismo. Le belle stagioni possono ritornare, ritornano, e in ogni caso occorre sempre provarci.

mercoledì 25 febbraio 2015

"Le ragazze del Settantacinque" di Carla Apuzzo

Sono lieto di annunciare che è uscito in ebook il primo romanzo di Carla Apuzzo, Le ragazze del Settantacinque. Ecco un breve scheda del libro.

Nell'estate del 1975 quattro giovani amiche che frequentano l'università e lavorano a Roma, entrate contemporaneamente in crisi con i rispettivi compagni, decidono di partire con una vecchia 500 per fare una vacanza in campeggio, da sole, decise ad affermare la propria autonomia. Dal racconto in prima persona di una di loro, che inizia con gli antefatti del viaggio, emergono le storie e gli intrecci sentimentali, le piccole avventure, i numerosi incontri che faranno durante la vacanza, gli scontri e le discussioni che ne derivano: un affresco ricco di dettagli che vuole restituire il clima di quegli anni di libertà sessuale, entusiasmi e ribellioni, lotta politica e presa di coscienza delle donne, in una chiave divertente e ironica, tutta al femminile.

Carla Apuzzo. Sceneggiatrice di film quali Immacolata e Concetta, Le occasioni di Rosa, Blues metropolitano, Il corpo dell'anima, fotografa, documentarista, autrice di testi teatrali, produttrice cinematografica, nonché regista di Rose e pistole, una commedia nera presentata al Festival di Berlino e in moltre altre rassegne cinematografiche internazionali. Vive e lavora a Roma.

A proposito del suo libro ha scritto Carla su Facebook:

Le ragazze del settantacinque è un romanzo che nasce da una riflessione maturata nel tempo sugli anni '70 e su come sono stati raccontati alle generazioni successive da parte della maggior parte dei mass media. Dopo l'uscita del film “Anni di piombo” di Margarethe Von Trotta, nel 1981, tutto quel periodo storico di lotte e di grandi conquiste è stato identificato sempre più frequentemente con quella definizione cupa e opprimente.

Bene, io non la penso affatto così.

Questo romanzo vuole cercare di raccontare, attraverso la storia di un gruppo di ragazze che vivevano e partecipavano in prima persona alle grandi battaglie politiche di quei tempi e a quelle, non meno dure, con l'altra età del cielo, tutto l'entusiasmo, la vitalità e l'allegria che hanno caratterizzato un periodo irripetibile della storia del nostro paese. Un periodo in cui le donne, partendo da uno stato di soggezione e di inferiorità, oltre che di grande conformismo, sono state le protagoniste assolute di cambiamenti epocali che hanno contribuito a trasformare profondamente un paese cattolico e bigotto come l'Italia.

Da parte mia dirò che Carla è riuscita a trovare il tono giusto, ironico e spavaldo, per la voce femminile che parla nel libro, come se emergesse da quel tempo viva e presente. Chi era giovane in quegli anni non potrà non riconoscerne l'autenticità. Per chi invece quegli anni non li ha vissuti il romanzo costituirà una vera scoperta: gli anni '70 come non ve li hanno mai raccontati.

Aggiungo che Le ragazze del Settantacinque è un romanzo molto divertente; non per caso Carla è l'autrice del film Rose e pistole, una delle più belle commedie nere del cinema italiano (critica dixit).

Il libro è acquistabile, al prezzo (politico, dice Carla) di 1,99 euro, in tutti gli store on line, ad esempio qui e qui.

venerdì 20 febbraio 2015

Roma da (ri)scoprire Un capolavoro della scultura barocca

In Largo Magnanapoli, all'angolo della Salita del Grillo, si può ammirare la facciata classicheggiante, di gusto maderniano, della chiesa di Santa Caterina da Siena, con alle spalle l'imponente Torre delle Milizie. Vi si accede da una doppia scalinata aggiunta poco dopo l'unità d'Italia poiché l'apertura di Via Nazionale comportò l'abbassamento del livello stradale. Costruita tra il 1628 e il 1641 dall'architetto Giovanni Battista Soria per le terziarie domenicane, attualmente è la chiesa madre dell'Ordinariato Militare (l'organismo cui fanno capo i cappellani militari), la cui sede è poco oltre sulla Salita del Grillo.

Superato il portico, che ospita due grandi statue di San Domenico e Santa Caterina, opere di Francesco De Rossi, si entra nell'interno barocco, a navata unica con tre cappelle per lato, di belle linee e ricca decorazione. Ma il vero gioiello che custodisce la chiesa si trova sulla parete centrale del presbiterio ed è un altorilievo dell'artista maltese Melchiorre Cafà, l'Estasi di Santa Caterina da Siena.

La bianca figura della santa spicca quasi a tutto tondo in mezzo alle nuvole abitate da angeli e putti, con lo sguardo rivolto misticamente al cielo, creando un bell'effetto pittorico grazie al contrasto col fondo di marmo policromo incorniciato da quattro colonne in marmo bianco e nero. L'esecuzione è di grande finezza e non si può non pensare, osservando certi dettagli (le mani, le vesti), all'Estasi di Santa Teresa di Bernini (del resto l'opera fu attribuita per un certo tempo proprio a quest'ultimo). Ma pur lavorando in quella scia, Cafà stempera l'irrequieta lezione berniniana con un più pacato classicismo, forse sotto l'influenza dello stile di Alessandro Algardi.

Melchiorre Cafà nasce a Malta nel 1636. Si trasferisce a Roma nel 1658 e comincia a lavorare nella bottega di Ercole Ferrata, allievo e collaboratore dell'Algardi. Lavora a diverse commesse ma riesce a terminare soltanto due opere importanti, l'altorilievo di Santa Caterina e una statua di Santa Rosa da Lima, poi trasferita in Perù. Muore infatti prematuramente nel 1667 a causa di un incidente di lavoro nelle fonderie di San Pietro.

martedì 17 febbraio 2015

La pietosa pazienza degli oppressi

Da un rapporto Oxfam diffuso nel gennaio 2015 si ricava che:

- L’1% della popolazione mondiale detiene il 48% della ricchezza mondiale, il 99% si divide il restante 52%. Buona parte di questo 52% è detenuto dal 20% più ricco, sicché all'80% della popolazione mondiale non resta che il 5,5%.

- Il reddito dell’1% dei più ricchi del mondo ammonta a 110.000 miliardi di dollari, 65 volte il totale della ricchezza della metà della popolazione più povera del mondo.

- Il reddito di 85 super ricchi equivale a quello di metà della popolazione mondiale ed è aumentato negli ultimi quattro anni del 50%

- 7 persone su 10 vivono in paesi dove la disuguaglianza economica è aumentata negli ultimi 30 anni.

- L’1% dei più ricchi ha aumentato la propria quota di reddito in 24 su 26 dei paesi con dati analizzabili tra il 1980 e il 2012.

- Negli USA, l’1% dei più ricchi ha intercettato il 95% delle risorse a disposizione dopo la crisi finanziaria del 2009, mentre il 90% della popolazione si è impoverito.

- Si stima in 21.000 miliardi di dollari la ricchezza nascosta nei paradisi fiscali e sottratta al fisco.

Una mostruosa disuguaglianza che genera fame, malattie, morte. "Questa economia uccide," ha detto papa Bergoglio recentemente. Come dargli torto?

Ma la domanda è: perché i poveri non si ribellano?

Ha scritto Aldous Huxley in un saggio del 1930: "La pietosa pazienza degli oppressi rappresenta forse il fenomeno più inesplicabile e nel contempo più rilevante di tutta la storia."

lunedì 16 febbraio 2015

"La religione del capitale" di Paul Lafargue

La casa editrice Mimesis ha recentemente pubblicato la traduzione italiana di un'opera di Paul Lafargue, La religione del capitale (La religion du Capital, 1887). Operazione doppiamente meritoria: perché offre al pubblico italiano un testo premonitore dell'attuale fase globalizzata e totalitaria del capitalismo e perché riporta l'attenzione su un grande rivoluzionario dell'Ottocento.

L'autore inizia col descrivere un immaginario congresso internazionale svoltosi a Londra con la partecipazione della élite del mondo politico, industriale, finanziario ed ecclesiastico. Scopo dell'incontro è fermare la diffusione delle idee socialiste. Per riuscirci, occorre che si riconosca nel capitalismo una legge naturale e universale, una vera e propria religione, che sostituisca tutte le altre, con al centro il nuovo Dio, il Capitale appunto, cui tutti devono sottomettersi. Nei capitoli successivi l'autore ci sottopone una parte del “corpo dottrinale” elaborato dal congresso:Il catechismo dei lavoratori, Il sermone della cortigiana, L’Ecclesiaste o Il libro dei capitalisti, Preghiere capitaliste e Lamentazioni di Job Rothschild il capitalista.


La chiave ironica e grottesca del pamphlet non deve ingannare. Lafargue spiega bene come il capitalismo ha bisogno, per sopravvivere, di proporsi come ideologia totalizzante ed esclusiva, pervasiva di ogni aspetto della vita sociale e individuale, una forma religiosa appunto, un meccanismo di sottomissione psicologica e materiale al tempo stesso, che rende impossibile anche solo immaginare una prospettiva diversa.

E' interessante notare come la critica di Lafargue trovi una eco straordinaria in un denso frammento teorico di Walter Benjamin del 1921, Capitalismo come religione, dove “il capitalismo è presentato come una religione puramente cultuale, che tende a reiterare all’infinito un meccanismo di indebitamento e di colpevolizzazione da cui non può esserci scampo” (vedi il volume, anch'esso di recente pubblicazione, edito da Quodlibet, Il culto del capitale. Walter Benjamin:capitalismo e religione).

Paul Lafargue è l'autore di un altro pamphlet fondamentale, scritto in carcere, Il diritto alla pigrizia (Le droit à la paresse, 1880), forse il testo marxista più tradotto e diffuso dopo Il Manifesto di Marx-Engels, una critica radicale di ogni forma di etica del lavoro, dove si ribadisce che qualsiasi prospettiva di emancipazione non può prescindere dalla necessità di liberare l'uomo dal fardello del lavoro.

Il libro si apre con una citazione di Lessing (“Oziamo in tutte le cose, tranne quando amiamo e beviamo, tranne quando oziamo”) e prosegue così: “Una strana follia possiede le classi operaie delle nazioni dove regna la civiltà capitalistica. Questa follia trascina al suo seguito miserie individuali e sociali che da due secoli torturano la triste umanità. Questa follia è l'amore del lavoro, la passione mortale del lavoro, spinta fino all'esaurimento delle forze vitali dell'individuo e della sua progenie.

Nella visione politica di Paul Lafargue c'è una vena anarchica che lo rende speciale: lo stesso Marx lo definiva l'ultimo dei bakuninisti. Nasce a Santiago de Cuba nel 1842 da una famiglia in parte creola e in parte ebraica. Esiliato a Londra, conosce Marx e nel 1868 ne sposa la seconda figlia, Laura. Insieme alla moglie, è un formidabile propagandista del comunismo in Francia e Spagna. Attivista della Prima Internazionale, prende parte alla Comune di Parigi ed è tra i fondatori del Partito operaio francese. Nel 1896 Laura riceve in eredità una parte della fortuna di Engels e i due coniugi si ritirano in campagna, nei pressi di Parigi, pur continuando la battaglia politica.


La sera del 26 novembre 1911, dopo essere stati in città a vedere un film, Laura e Paul Lafargue si suicidano con una iniezione di acido cianidrico. Nel testamento Lafargue lascia scritto: “Sano di corpo e di spirito, mi uccido prima che l'impietosa vecchiaia mi tolga uno a uno i piaceri e le gioie dell'esistenza e mi spogli delle forze fisiche e intellettuali. Affinché la vecchiaia non paralizzi la mia energia, non spezzi la mia volontà e non mi renda un peso per me e per gli altri.”

Laura e Paul sono sepolti al Père Lachaise, presso il cosiddetto Muro dei federati, dove il 28 maggio 1871, durante la repressione della Comune, centinaia di insorti
furono fucilati e sepolti in una fossa comune.


venerdì 13 febbraio 2015

"Il corpo dell'anima" alla sala Trevi, variazione di programma

Variazione di programma alla sala Trevi, vicolo del Puttarello, per il giorno 14 febbraio. La proiezione del film di Salvatore Piscicelli Il corpo dell'anima avrà luogo alle ore 18.45. Seguirà alle 20.45 un incontro con il regista sul tema della precarietà in amore con la partecipazione degli analisti Fabio Castriota e Carla Dugo Visco, secondo appuntamento quest'anno della rassegna "cinema e psicoanalisi" organizzata dalla Cineteca Nazionale e dalla Società Psicoanalitica Italiana. Alla fine dell'incontro seguirà la proiezione del film Ultimo Tango a Parigi di Bernardo Bertolucci. Nel pomeriggio, ore 17, proiezione del film Comizi d'amore di Pier Paolo Pasolini. L'ingresso è libero.

Roma da (ri)scoprire San Silvestro al Quirinale


Nei miei frequenti vagabondaggi di esplorazione del patrimonio artistico romano, mi capita di scovare cose che non conoscevo o di riscoprire cose che avevo visto magari decenni addietro. Con questo post inauguro una sorta di rubrica per condividere queste (ri)scoperte.


Scendendo da Piazza del Quirinale verso Largo Magnanapoli lungo via XXIV Maggio, si nota sulla destra la facciata di una chiesa di fattura ottocentesca ma di gusto tardo rinascimentale. Si tratta di un elemento puramente decorativo, il portale infatti è finto. Ma la chiesa c'è, si chiama San Silvestro al Quirinale ed è situata a circa nove metri sopra il livello della strada. Per accedervi occorre imboccare la porta a sinistra della facciata e salire una bella scala piuttosto ripida.

Negli anni Settanta dell'Ottocento, nel quadro della sistemazione urbanistica di tutta la zona con l'apertura di via Nazionale, il livello stradale fu abbassato e allo scopo di allargare via XXIV Maggio fu demolita la facciata originale della chiesa con le prime due cappelle. La facciata che vediamo ora, deturpata dalle polveri dello smog, è opera dell'architetto Andrea Busiri Vici.

La costruzione di San Silvestro, su un precedente manufatto medioevale, fu iniziata dai domenicani nel 1524. Una quarantina di anni dopo la chiesa passò ai padri teatini, che la ristrutturarono completamente. E' a croce latina a navata unica con un presbiterio molto profondo.

Dalla scala si entra nel transetto sinistro e la prima impressione è abbagliante per la ricchezza delle decorazioni. L'occhio vola subito al magnifico soffitto a cassettoni della navata con scene bibliche e ai begli affreschi della volta del presbiterio dove si notano due piccole cupole in trompe-l'oeil. Nell'insieme prevalgono l'oro e i colori pieni e scuri, in un'atmosfera di grande suggestione. La chiesa ospita opere di numerosi artisti quali il Cavalier d'Arpino, Polidoro da Caravaggio, Jacopo Zucchi. Le cappelle della navata sono tutte notevoli. Splendida la cappella Bandini nel transetto sinistro, con sculture di Alessandro Algardi e pitture del Domenichino.

Sempre dal transetto sinistro una porta (purtroppo sempre chiusa) darebbe accesso a una terrazza con vista su un oratorio cimiteriale. Qui pare si riunissero, intorno alla metà del Cinquecento, illustri personaggi del milieu intellettuale romano tra i quali Michelangelo e Vittoria Colonna.

Se volete visitare questa chiesa sconosciuta ai più, e ne vale al pena, dovete trovarvi alle 10 e 45 in punto della domenica davanti alla porta a sinistra della facciata. A quell'ora un giovane prete apre i battenti e voi avete una quindicina di minuti per la visita perché alle 11 comincia la messa. Non mi risulta che la chiesa sia aperta in altri orari.

domenica 8 febbraio 2015

Il cecchino di Clint

Almost too dumb to criticize”, ha scritto Matt Taibbi su RollingStone a proposito di American Sniper di Clint Eastwood. Io, che non faccio più il critico da un pezzo, mi limiterò a dire che si tratta di un film mediocre, come purtroppo tutti i suoi ultimi. Le scene di guerra sono ripetitive e sanno di già visto; c'è di meglio nel genere, a cominciare da The Hurt Locker di Kathryn Bigelow. Quanto all'altro versante, quello privato, dei rapporti del cecchino con la moglie e il contesto familiare, siamo nella pura superficialità (malgrado la buona prestazione di Sienna Miller). Sul tema dei veterani di guerra e delle difficoltà del loro reinserimento il cinema americano ha prodotto opere di ben altro spessore, troppo numerose per citarle qui.

Per il resto il film dipinge una specie di santino del cecchino Chris Kyle, edulcorandone la biografia e facendone l'eroe di un'America dura e pura in lotta eterna contro il male, identificato con tutto ciò che appunto non è americano, e in particolare con gli odiati islamici. Un'operazione di uno sciovinismo bruto ed elementare, che manipola i dati storici, esaltatrice di un machismo diventato ormai stucchevole.

Tutto questo non sorprende. Eastwood è un uomo di destra e non l'ha mai nascosto, anzi l'ha spesso esibito con un certo gusto della provocazione, come quando disse pubblicamente a Michael Moore, tra il serio e il faceto, che lo avrebbe ammazzato se mai si fosse presentato alla sua porta con una telecamera o come quando, alla convention del partito repubblicano nel 2012, si esibì nel famoso monologo accanto alla poltrona vuota in rappresentanza di Obama. Che ci propini un film di rozza propaganda non è strano. (Del resto una parte consistente del cinema che viene dagli Stati Uniti è sempre stato e continua ad essere, in senso lato, una gigantesca macchina di propaganda dell'ideologia americana. Il che non ci ha impedito di amarne la parte migliore, compresi diversi film di Eastwood.)

Resta da capire il perché dell'enorme successo ottenuto dal film. Amy Nicholson sul Village Voice ne dà una spiegazione interessante. Tanti americani sono stati coinvolti, direttamente o indirettamente, nelle guerre recenti e sono alla ricerca di una risposta a una domanda alla quale è difficile rispondere: ne è valsa la pena? La risposta che il pubblico vuole – ha bisogno – di sentire è sì, perché questo allevia l'angoscia di fronte alla perdita o al turbamento causato alle ferite fisiche e psicologiche che il reduce si porta dietro.

Da quando, dopo l'11 settembre, l'America ha scatenato la cosiddetta guerra al terrore, la propaganda ci ha convinto che siamo nel mezzo di uno scontro di civiltà, con l'occidente cristiano, libero e democratico attaccato da coloro che odiano i nostri valori, islamici e non solo. Questa visione (che serve a nascondere la guerra vera, quella tra ricchi e poveri) va imposta con la paura (il che accade con regolarità, vedi il recente sfruttamento propagandistico dell'orrido attentato a Charlie Ebdo), e di fronte alla paura l'eroe porta sollievo, ci conferma in un'identità che, per quanto illusoria, dà conforto. Forse si spiega così il grande successo che il film ha avuto anche in Europa e in particolare in Italia (al momento in cui scrivo è il primo incasso con oltre 18 milioni di euro). Le colonie sono in sintonia con la capitale dell'impero.

sabato 7 febbraio 2015

Boyhood, la vita che scorre

Boyhood è certamente uno dei migliori film della stagione, pur non essendo un capolavoro assoluto, come pretende buona parte della critica americana (100% di score su Metacritic, 98% su Rotten Tomatoes). Intanto c'è da segnalare la singolarità della genesi. Richard Linklater lo ha girato in Texas nell'arco di dodici anni, dal 2002 al 2013, per qualche giorno ogni anno, filmando la crescita e le trasformazioni di un ragazzo, Mason Jr. (Ellar Coltrane), dai sei ai diciott'anni, fino all'ingresso al college, nel contesto di una famiglia come tante, con la sorella Samantha (Lorelei Linklater, figlia del regista) e i genitori separati (Patricia Arquette e Ethan Hawke). Il tempo, o meglio lo scorrere del tempo, è il tema centrale del film.

Dal punto di vista stilistico, l'approccio di Linklater è decisamente minimalista: nessuna stranezza, nessuna ricercatezza, nessuna voglia di originalità. La scrittura filmica scorre pacata, tutta al servizio dei personaggi e delle situazioni, privilegiando i campi medi e larghi. Altrettanto minimalista è l'approccio alla narrazione. Il film non ha un vero plot, si limita a inanellare episodi qualsiasi della vita di una ragazzo e della sua famiglia, senza punte drammatiche, se si eccettua l'episodio del secondo marito della madre diventato ubriacone e violento. Da questo punto di vista Boyhood è un film curiosamente anti-hollywoodiano, malgrado le numerose nomination all'Oscar. Ma dietro questo minimalismo si nasconde una grande ambizione: quella di rappresentare la vita così com'è.

Sappiamo che nessun film rappresenta davvero la realtà (il reale del cinema è il set). La realtà del film è di natura immaginaria. Tuttavia è proprio attraverso quel complesso meccanismo che si chiama effetto o impressione di realtà che lo spettatore aderisce e si immedesima in questa sostanza immaginaria, che allude al reale ma non lo è. Nel caso di Boyhood l'effetto di realtà è reso più potente proprio grazie al fatto che il tempo scorre realmente sui corpi degli attori: non ci sono trucchi. Da una sequenza all'altra, senza soluzione di continuità, percepiamo i cambiamenti, che tuttavia, essendo lenti, non ci appaiono clamorosi ma naturali. Come non credere che questa è la vita vera, tanto più che somiglia a milioni di altre vite? E all'obiezione (legittima, la sottoscrivo) che qua e là ci sono nel film zone noiose e anche banali, la risposta è: non è così, noiosa e banale, fin troppo spesso, anche la vita vera?

C'è nel film, ed è questa la sottile emozione che ci trasmette, la malinconia del tempo che passa, della vita che ci scorre tra le dita quasi senza che ce accorgiamo. Tutti dicono che bisogna cogliere l'attimo, io credo che è l'attimo a cogliere noi, dice una ragazza nell'inquadratura finale. Malinconia che può diventare angoscia, come quando la madre (una bravissima Patricia Arquette), di fronte al figlio che lascia la casa definitivamente, scoppia in lacrime e confessa il suo disagio: dopo tutta una vita fatta di figli matrimoni divorzi, cosa resta? Il mio funerale, cazzo! Credevo ci fosse qualcos'altro. - Ma c'è nel film anche la consapevolezza che vale comunque la pena di viverla, la vita, e il modo migliore è stare nel presente, mentre si fa. Così, prima della dissolvenza finale, Mason Jr. risponde alla ragazza: hai ragione, il momento è come se fosse sempre adesso, no? E intanto, negli sguardi e nei sorrisi appena un po' imbarazzati dei due ragazzi, leggiamo che qualcosa sta per nascere, forse un nuovo amore: è la vita che si impone nel tempo presente.


venerdì 6 febbraio 2015

"Il corpo dell'anima" alla sala Trevi



Il 14 febbraio, alle ore 21, alla sala Trevi, vicolo del Puttarello 25 (vicino alla fontana di Trevi), nel quadro dei tradizionali appuntamenti di "cinema e psicoanalisi" organizzati dalla Cineteca Nazionale e dalla Società Psicoanalitica Italiana, si terrà un incontro con Salvatore Piscicelli sul tema della precarietà in amore con la partecipazione degli analisti Fabio Castriota e Carla Dugo Visco. Seguirà la proiezione del film Il corpo dell'anima. L'incontro sarà preceduto dalla proiezione dei film Comizi d'amore di Pier Paolo Pasolini (ore 17) e Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci (ore 18.45). L'ingresso è gratuito per tutti gli eventi.