mercoledì 7 febbraio 2024

"S/Z" di Roland Barthes (1970)

Questa breve recensione risale al 1970 e fu scritta poco dopo l’uscita in Francia del libro (l’edizione italiana vedrà la luce solo nel 1973, presso Einaudi). Essa fa parte di un piccolo gruppo di testi da me redatti tra il 1969 e il 1970, quando ero ancora all’università. Non avendo come oggetto il cinema, sono stati esclusi dalla raccolta di scritti pubblicata dall’editore Meltemi nel 2018 (Salvatore Piscicelli, L’imitazione della vita. Scritti di cinema 1970-2016). La pubblico qui per due motivi. Il primo: rendere un omaggio indiretto a Roland Barthes, uno dei più importanti studiosi della seconda metà del Novecento, la cui lezione, oggi purtroppo un po’ dimenticata, considero ancora valida. Negli ultimi mesi ho ripreso in mano alcuni suoi libri e mi si è rinnovato il piacere per l’acutezza delle sue analisi e per la scrittura, tersa e brillante, che conferisce ai suoi saggi, al di là del valore scientifico, una straordinaria qualità letteraria. Il secondo motivo è strettamente personale: perché testimonia la mia attenzione, fin da quei lontani anni, a un certo tipo di impostazione teorica che attraversa tutto il mio lavoro come un fil rouge. Per verificare questa continuità basterà leggere, su questo blog, il mio ultimo scritto di critica, dedicato a Viaggio in Italia di Rossellini.



Roland Barthes, S / Z, Parigi 1970, Editions du Seuil

Colpisce, innanzitutto, in quest’ultimo libro di Barthes, una paradossale sproporzione: duecento e più pagine di analisi su un testo che ne conta appena trenta (la novella di Balzac Sarrasine): sproporzione significativa, che definisce la durata di un'impresa che è analitica e teorica insieme, e che si inscrive nel più ampio spazio dei tentativi volti all’edificazione (collettiva) di quella che lo stesso Barthes chiama "una teoria liberatrice del Significante".

Per due caratteristiche l’approccio di Barthes al testo balzachiano differisce da quello solito degli analisti del racconto: da un lato, il rifiuto di sottomettere il testo, nella sua specificità, nella sua differenza, a una struttura narrativa generale e astratta (la Copia di tutti i racconti del mondo); dall’altro, il rifiuto di arrestare il gioco della catena significante del testo per chiuderlo in una struttura ultima, per fondare una verità.

Soffermiamoci sul primo punto. La decisione di sottomettere il testo al "paradigma infinito della differenza" pone il problema del suo valore. La valutazione fondatrice che allora si impone, valutazione legata necessariamente alla pratica della scrittura, distinguerà tra un testo scrittibile (scriptible) e un testo leggibile (lisible). In che senso lo scrittibile (ciò che oggi può essere scritto, ri-scritto) è un valore? Risponde Barthes: "Perché la posta in gioco del lavoro letterario (della letteratura come lavoro), è di fare del lettore, non più un consumatore, ma un produttore del testo".

Il testo scrittibile è il testo integralmente moderno; il testo classico è il testo leggibile. Semplici prodotti, e non produzioni, i testi leggibili formano la gran massa della letteratura. Come distinguerli? Una seconda operazione si impone: l’interpretazione. "Interpretare un testo, non vuol dire dargli un senso (più o meno fondato, più o meno libero), ma al contrario apprezzare di quale plurale esso è fatto".

La nozione di plurale definisce un testo che non soggiace al modello rappresentativo: testo reversibile, dalle reti significanti multiple e aperte, "galassia di significanti, non struttura di significati". Per un tale testo, ideale, non valgono la grammatica o la logica del racconto. Ma, ordinariamente, ci si trova di fronte a testi moderatamente plurali.

E' in quest'area che si situa la novella balzachiana oggetto dell'analisi. Barthes spezza l'intero testo in 561 frammenti o lessie (unità di lettura), analizzate in un puntuale commentario: il testo parla e viene parlato nel gioco multiplo dei codici che ha messo in moto (al lettore il piacere di apprezzare le straordinarie capacità analitiche dell'Autore). Il risultato non è la fissazione di un senso ultimo (è la seconda caratteristica dell'approccio barthesiano di cui si parlava più sopra), ma il dispiegamento di una fitta rete di notazioni, collegate tra loro da una serie di riflessioni teoriche. E’ su questo piano del discorso che Barthes riesce a disegnare, al di là dell’analisi specifica, i contorni del testo antico o classico e, di riflesso, di quello moderno (da questo punto di vista il testo barthesiano assume spesso la forma della preterizione: forse perché il testo moderno può solo sopportare l'allusione?). In questo doppio movimento, con questo spessore, S / Z s'inserisce magistralmente in quel settore della critica francese che ha per protagoniste riviste come Tel Quel, e che persegue con accanimento la trasformazione radicale del sapere critico sui testi.

Soffermiamoci sui modi di questo inserimento, su questo rapporto testo-contesto. La distanza tra il testo e il linguaggio che lo parla è una distanza ambigua: misurarla vuol dire dare uno statuto alla critica e al suo oggetto; vuol dire, eventualmente, cancellarla. In Italia circola un luogo comune intorno alla posizione barthesiana quanto a questo problema: si fa sostenere, cioè, a Barthes l'identificazione completa tra critica e testo. Appare invece chiaro, e questo libro ne è la conferma, che l'ambiguità del rapporto tra metalinguaggio critico e linguaggio-oggetto (il testo), è, per Barthes, altra cosa che la loro identificazione. Il problema è innanzitutto storico. Il dibattito sulla nozione di scrittura, e sulle sue implicazioni storiche e teoriche, ha permesso di stabilire che nell'epoca borghese-occidentale (la nostra), segnata dalla preminenza del segno che veicola un senso precostituito, fissato, chiuso (non insisteremo su questo teleologismo linguistico: rimandiamo il lettore interessato agli scritti di Jacques Derrida) l'esplorazione dell’infinità del linguaggio (il dispiegamento, o la messa in scena, dello spazio scritturale) è un'esperienza del limite. La concretizzazione di quest'esperienza (il testo scrittibile), difficilmente, come dice Barthes, la si troverà in libreria. Ma solo questa concretizzazione, questo testo (il cui modello è produttivo e non rappresentativo) sopporta l'identificazione con la critica che lo parla. Si parlerà, allora, di opera-limite: la critica che le parla si dirigerà anch’essa, necessariamente, verso questo limite.

Contro lo scientismo di chi sostiene la scissione statutaria tra il linguaggio della critica e il linguaggio del testo, operando una rimozione della radicale problematicità del loro rapporto (da questo scientismo patologico gran parte della critica italiana che si richiama allo strutturalismo non riesce a guarire); contro l'idealismo facilone di chi crede di saltare i termini dell'esperienza del linguaggio imposti da un'epoca storica; Barthes ha chiara la traiettoria dell’accostamento critico al testo: la critica pone la distanza tra sé e il testo, e ponendola la cancella. Il suo statuto sta in questo movimento doppio e incessante.