sabato 8 aprile 2023

Fassbinder e il melodramma

 

L’anno scorso la Ripley’s Home Video mi ha chiesto di scrivere un breve testo di presentazione per un cofanetto di dvd contenente cinque film di Rainer Werner Fassbinder: Il mercante delle quattro stagioni, Le lacrime amare di Petra von Kant, La paura mangia l’anima, Effi Briest, Il diritto del più forte. Si tratta di film realizzati tra il 1972 e il 1975, tra i migliori del regista tedesco. Naturalmente ho accettato volentieri l’invito. Ripropongo qui il testo della presentazione per i quattro lettori del mio blog.


Fassbinder e il melodramma

Per capire la forza e la novità del cinema di Fassbinder occorre partire, come è d’obbligo, dalle forme, cioè dal linguaggio. In una prima fase della sua produzione cinematografica – all’insegna di una vocazione sperimentale dai modi quasi compulsivi (una dozzina di film in due o tre anni) – Fassbinder rende omaggio ad alcuni autori del nuovo cinema europeo (come Godard, Rohmer, Melville, Straub), si confronta con generi diversi, contamina forme espressive di varia provenienza, anche in un dialogo diretto con la coeva esperienza teatrale. Successivamente è l’incontro col cinema di Douglas Sirk a determinare una svolta, in un processo di maturazione che tuttavia non risulta incoerente con il lavoro precedente.

Nei film del grande cineasta tedesco emigrato a Hollywood Fassbinder ritrova consonanze stilistiche e tematiche ma soprattutto individua nel melodramma come genere, di cui Sirk è maestro, lo strumento espressivo ideale per quella indagine che ostinatamente persegue sul presente della Germania e sulla sua storia – dall’epoca di Weimar al nazismo, dal dopoguerra di Adenauer agli anni sessanta e settanta, segnati dalla rivolta del Sessantotto e poi dalla lotta armata, senza dimenticare l’Ottocento con lo splendido adattamento di Effi Briest di Fontane. Uno strumento espressivo, il melodramma, che si rivela formidabile anche per quell’analisi impietosa che Fassbinder conduce dei rapporti interpersonali, d’amore e di sesso, marcati dal dominio e dalla sottomissione e inesorabilmente intrecciati ai rapporti di classe.

Il melodramma, al cinema e non solo, non ha mai goduto dei favori della critica tradizionale. Si pensi al disprezzo di cui è stato fatto oggetto un regista pur notevole come Raffaello Matarazzo. Lo stesso Douglas Sirk è stato a lungo sottovalutato e frainteso, almeno in Italia. E’ solo con l’avvento, tra gli anni sessanta e settanta, di una nuova generazione di cineasti e di critici che il melodramma cinematografico, e i registi che lo praticano, trovano finalmente il giusto apprezzamento e il genere come tale viene ripensato e rivalutato in termini teorici.

Fin dall’inizio Fassbinder ha le idee chiare su come riscrivere il mélo. Il modo in cui gli americani abbordano il genere, egli sostiene, si limita a trasmettere allo spettatore soltanto i sentimenti e nulla più. Dal suo punto di vista si tratta invece di offrire allo spettatore anche la possibilità di analizzare questi stessi sentimenti e di riflettere sul modo in cui li percepisce. E’ una strategia solo apparentemente semplice, in realtà implica una forte consapevolezza teorica.

Sono due gli autori ai quali Fassbinder fa riferimento in questa riscrittura del mélo; gli stessi, del resto, che hanno inciso nella sua pratica teatrale. Il primo è Brecht con il suo teatro epico e le relative tecniche di straniamento (l’interesse per Brecht è condiviso da altri cineasti del nuovo cinema tedesco, a cominciare da Alexander Kluge e Straub-Huillet). E’ noto che il teatro epico rifiuta il realismo e lo psicologismo mimetico del teatro borghese e gli oppone il discernimento razionale della dinamica dell’azione e delle sue implicazioni ideologiche e politiche, attraverso una destrutturazione della messa in scena e delle stesse tecniche tradizionali di recitazione.

L’altro autore è Artaud con il suo teatro della crudeltà, dove l’accento è posto sul corpo, sulla spontaneità, sulla visceralità, sull’eccesso, sulla violenza. (Occorre ricordare che in quegli stessi anni la lezione artaudiana viene ripresa splendidamente dal Living Theatre di Julian Beck e Judith Malina, con una forte eco anche in Europa.)

Sembrerebbero, quelli di Brecht e di Artaud, due punti di riferimento in aperta contraddizione, e forse lo sono, eppure Fassbinder li contamina e riesce brillantemente a dissolvere il dilemma tra passione e ragione, tra empatia e distanziamento, costruendo una forma di mélo caldo e freddo al tempo stesso, dove l’analisi lucida e razionale dei rapporti di potere e delle contraddizioni storiche si concilia perfettamente con l’espressione viscerale e violenta della corporeità e dei sentimenti. I cinque film di questo cofanetto, realizzati tra il 1972 e il 1975, ne sono la perfetta dimostrazione. Dall’uno all’altro Fassbinder adegua lo stile alla diversa materia narrativa restando tuttavia fedele al modello sirkiano di melodramma, rivisitato nella fervida temperie culturale europea degli anni settanta.

Vi resterà fedele anche negli anni successivi quando continuerà a esplorare il genere con alcuni film ad alto costo, riuscendo finalmente a raggiungere, com’era nei suoi auspici, un pubblico più vasto. Del resto, alla domanda di un intervistatore: “Lei intende realizzare il film hollywoodiano tedesco?”, la risposta lapidaria fu: “Sì, assolutamente”. La morte prematura, nel 1982, a soli 37 anni, ha interrotto questo itinerario creativo ma il lascito di Fassbinder, sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo, è imponente e ancora vivo.