FILMOGRAFIA
Film
di finzione
Immacolata
e Concetta, l'altra gelosia (1980)
Regia:
Salvatore Piscicelli; soggetto: Salvatore Piscicelli;
sceneggiatura: Carla Apuzzo e Salvatore Piscicelli; fotografia:
Emilio Bestetti; scenografia: Giovanni Dionisi; costumi: Franz
Prestieri; suono presa diretta: Remo Ugolinelli; musica: canti
popolari napoletani e brani tratti da "Raices 1" e "Raices
3" di Gustavo Beytelmann; montaggio: Roberto Schiavone. Super
16mm colore gonfiato a 35 mm. Durata:
92’.
Interpreti
e personaggi: Ida Di Benedetto (Immacolata), Marcella
Michelangeli (Concetta), Tommaso Bianco (Ciro Pappalardo), Lucio
Allocca (Pasquale), Lucia Ragni (Antonietta), Biancamaria
Mastronimico (Lucia), Nina De Padova (zia Carmela), Linda Moretti
(Sisina), Cetty Sommella (Marittella).
Produzione:
Enzo Porcelli per Antea Cinematografica.
Leopardo
d'argento al festival di Locarno 1979, Premio
France Culture al festival di Cannes 1980, Premio Ubu e Premio
Bolaffi come miglior film italiano 1980.
«Un
esordio da tutti i punti di vista ragguardevole è quello di
Salvatore Piscicelli con Immacolata e Concetta. Il film, e per
il turgore dei sentimenti e per la radicalità dei conflitti, sembra
rifarsi alla tradizione della "sceneggiata"; ma in realtà
il suo rapporto con l'entroterra culturale, che pure gli è sotteso,
è di continuo straniamento, di programmatico raffreddamento dei toni
e delle tinte, senza nessun compiacimento etnologico ed anzi con la
trasformazione dei "topoi" della cultura contadina
napoletana (restituiti qui, per altro, tramite l'impervia vicenda di
un rapporto omosessuale tra due donne e dalla sua tragica
conclusione) in discorso, "freddo" quanto a mezzi
espressivi ma intenso quanto a risultati, sulla solitudine e sulla
morte, sulla impossibilità della trasgressione e sulla invivibilità
di una "norma", dove l' "economico" e l'
"esistenziale", l' "istituzionale" e il
"naturale" convivono conflittualmente e producono il
dramma.
Calibrato
in ogni sua cadenza, ottimamente interpretato, scritto con una
finezza intellettuale che ha il pregio di non esibirsi che come
coscienza del mezzo espressivo e capacità ordinatrice di un narrare
che ha andamenti classicheggianti, il film è forse destinato a
destare qualche furore moralistico in chi non sappia leggerne che la
scorza, ma rivela - nonostante talune sue zone irrisolte - un autore
straordinariamente maturo che non fa cinema ispirandosi al cinema ma
al sangue, all'umore e alla pena delle cose e degli uomini».
Lino
Miccichè («Avanti!», 11 ottobre 1979)
Le
occasioni di Rosa (1981)
Regia:
Salvatore Piscicelli; soggetto e sceneggiatura: Carla Apuzzo e
Salvatore Piscicelli; fotografia: Renato Tafuri; costumi: Franz
Prestieri; suono in presa diretta: Hubrecht Nijhuis; musica: Helmut
Laberer; montaggio: Franco Letti. 35mm colore. Durata: 86'.
Interpreti
e personaggi: Marina Suma (Rosa), Angelo Cannavacciuolo
(Tonino), Sergio Boccalatte (Gino), Gianni Prestieri (Angelo), Martin
Sorrentino (Pasquale), Antonella Patti (Anna), Enzo Salomone (uomo
del biliardo), Vittorio Baratti (cliente), Pina Ferrara (Marisa),
Angelo De Falco (Peppino).
Produzione:
Carla Apuzzo e Salvatore Piscicelli, con la collaborazione di
Enea Ferrario, per Falco Film.
«Quest'opera
seconda di Salvatore Piscicelli si può considerare come un referto
sociologico su una società in trasformazione; una precisa,
distaccata glaciale analisi sulla realtà metropolitana; un caso
clinico disperato su una ragazza di nome Rosa. Il discorso,
"sgradevole" quanto può esserlo quello di un medico o di
uno scienziato, mette sotto il microscopio i giovani e il loro
quotidiano: senza ideologie, senza passioni, senza moralità. Ci si
lascia vivere come i tre personaggi principali, senza gelosia, senza
rivalità sessuali, adattandosi a un'esistenza sempre uguale, a una
società che non vuole cambiare, che non vuole cambiarti.
Un'esistenza biologica che si sviluppa e si consuma in notti e giorni
inerti, senza riflessioni storiche, senza inganni e senza ambizioni.
Piscicelli, evitando volutamente ogni chiarimento psicologico,
negandosi giudizi e commenti, appiattisce senza schematizzare fatti e
figure, misurando attentamente il rapporto fra l'ambiente e i
personaggi, fra spazio e sentimenti, senza tuttavia mortificare
l'elemento cinema che serve a parlare di queste realtà, esaltandone
anzi le capacità affabulatorie, la forza di finzione».
Vittorio
Spiga («Il Resto del Carlino», 17 ottobre 1981)
Blues
metropolitano (1985)
Regia:
Salvatore Piscicelli; soggetto e sceneggiatura: Carla Apuzzo e
Salvatore Piscicelli; fotografia: Giuseppe Lanci; scenografia:
Massimo Perna, Antonio Bosco; costumi: Franz Prestieri; musica: Joe
Amoruso, Pino Daniele, Tony Esposito, Little Italy, Anthra; suono in
presa diretta: Mario Dallimonti; montaggio: Raimondo Crociani,
Antonio Di Lorenzo. 35 mm colore. Durata: 111'.
Interpreti
e personaggi: Stefano Sabelli (Tonino Tarallo), Sergio
Boccalatte (Ciro Cerasuolo, ricco napoletano), Paolo Bonetti (Gigino
Giordano, l'organizzatore), Ida Di Benedetto (Elena, la signora),
Tony Esposito (Tony), Barbara D'Urso (Francesca, moglie di Tony),
Diego Pesaola (Riccardo), Peppe Lanzetta (Mimmo, musicista), Marina
Suma (Stella), Marina Viro (Susy), Maria Basile (Rosetta), Stefania
Bifano (Dada), Maurizio Capone (Tex, percussionista), Nino Bellomo
(Mario-Patrizia), Marta Bifano (Marta), Angelo Cannavacciuolo
(Pasqualino), Lino Mattera (Don Vittorio), Luigi Petrucci (Arch.
Ruoppolo), iola Prestieri (Viola), James Edward Sampson (Solomon),
Anna Walter (Ines), Patrizia Spinosi (Ida), Carlotta Ercolino
(Luisa), Gianni Prestieri (Joe), Isabella Salvati (Adelina), Bianca
Sollazzo (zia Regina), Cetti Sommella (la segretaria), Francesca
Thermes (la cantante), Giorgio Verdelli (presentatore), Pino Daniele,
Tullio De Piscopo (se stessi) .
Produzione:
Claudio Bonivento per Numero Uno Cinematografica.
«Afa,
snodi autostradali, pensioni equivoche, un Vesuvio più lugubre che
minaccioso. Da una notte a una notte, su e giù per i tragitti più
sorprendenti ed insieme più atrocemente anonimi della Napoli anni
'80: dove la periferia divora il "colore", la schizofrenia
dei paesaggi allarga e restringe il cuore e giovani zombies saldano
l'anello antropologico tra lo Specifico e l'Eccezionale. Un gruppo di
personaggi - meglio di "segnali viventi" - brulicano su
questo sfondo, impegnati in un disinvolto girotondo che produce a
getto continuo flash, schizzi e siparietti: così Salvatore
Piscicelli, indigeno dell'entroterra, imposta il suo viaggio "nei
comportamenti" di un popolo giovanile troppe volte blandito,
misconosciuto o turlupinato in nome di esigenze sociologiche o
filosofiche.
Il
filtro dell'esperimento è offerto, per così dire naturaliter,
dal post-rock napoletano che riesce ad innestare sul vecchio ceppo
della tradizione locale tutti i moduli più aggiornati della new wave
musicale.
Ci
vuol poco ad inquadrare il film come l' "anti-Bellavista"
per antonomasia: il cinema di, su e per Napoli appar ormai tanto
rigoglioso da procurarsi da sé domande, risposte e polemiche. Tra le
folle ipnotizzate dei concerti suburbani e le adunate esaltate dal
neapolitan power, da una parte, e i duetti accattivanti del
borghese decrescenziano, dall'altra, esiste un varco incolmabile: che
non è risultato di verismi paralleli o di arzigogolate prospettive
ideali bensì di corpi, linguaggi, immaginari fisiologicamente
incompatibili, oltreché di due credi cinematografici dissonanti.
Piscicelli, pur nel suo stile particolare - urticante, sincopato,
umorale, persino naif - insegue modelli fuori-standard, le imprese
solitarie alla Easy Rider, le performances tedesche più furtive
(...) ».
Valerio
Caprara («Il Mattino», 23 febbraio 1985)
Regina
(1987)
Regia:
Salvatore Piscicelli; soggetto e sceneggiatura: Carla Apuzzo e
Salvatore Piscicelli; fotografia: Tonino Nardi; scenografia: Luciana
Vedovelli; costumi: Franz Prestieri; musica: Helmut Laberer, pianista: Maria Elisa Tozzi;
montaggio: Salvatore Piscicelli, Domenico Varone. 35mm bianco e nero.
Durata: 87'.
Interpreti
e personaggi: Ida Di Benedetto (Regina), Fabrizio Bentivoglio
(Lorenzo), Giuliana Calandra (Lalla), Mariano Rigillo (Paolo), Marika
Ferri (Diana), Claudia Giannotti (Sofia), Anita Laurenzi (la madre),
Paolo Hermanin (Andreas).
Produzione:
Carla Apuzzo per Falco Film.
«Il
cosiddetto Postmoderno è speculare. Voglio dire che tende a
raddoppiare la rappresentazione rispecchiandola in una
rappresentazione precedente e analoga ma diversa. Nella narrativa, da
ultimo, invece di nascondere il modello lo si addita in maniera
appunto speculare cioè critico-parodistica. Ma la parodia mette in
luce le differenze, appunto, tra moderno e postmoderno.
Salvatore
Piscicelli ha voluto con questa sua Regina darci una versione
postmoderna del tema della Fedra di Racine. Come in certe strade di
New York, nelle quali razionalissimi grattacieli dalle facciate
concave e specchianti riflettono con effetti strani e affascinanti
vecchi palazzoni liberty, egli ha voluto o meglio avrebbe voluto che
la sua Fedra 1987 si rispecchiasse in quella 1677 di Racine. Ma è
avvenuto che la Fedra di Piscicelli non si è rispecchiata
criticamente in quella di Racine per la buona ragione che era la
stessissima Fedra, sia pure rivisitata tre secoli dopo.
Spieghiamoci.
Regina racconta la la vicenda d'amore tra Regina, un'attrice
ormai matura, e Lorenzo, ragazzo, più o meno, "di vita".
Regina è una donna colta e ambiziosa; Lorenzo è un fusto che non si
perita di apparire nei fumetti porno. Lorenzo è attirato da Regina
come ogni adolescente è attirato da una donna che potrebbe essere
sua madre; a sua volta Regina è attirata da Lorenzo come ogni donna
matura può essere attirata da un uomo che potrebbe essere suo
figlio. Di solito, l'adolescente è grato alla donna come ad una
seconda madre; la donna, dal canto suo, è grata all'adolescente
perché recupera attraverso il suo amore il dispendio della
maternità. In parole povere e in barba a tutti i tabù, i due
commettono un vero e proprio incesto.
Tutto
ciò Racine non lo sapeva anche se, ovviamente, lo sospettava, perché
il suo mondo non era quello di Freud bensì quello di Euripide e di
Seneca. Eh già, come ci fa notare Foucault nel suo saggio "La
volontà di sapere", noi contemporanei di Freud abbiamo
"creato", per sete di conoscenza, il discorso sessuale che
ai tempi di Racine era confinato, ancora embrionale, nell'ombra dei
confessionali. Ma Piscicelli ha certamente letto Freud; così si
resta meravigliati che, nonostante questa lettura, la sua Fedra sia
in fondo raciniana, con tutte le sforzature e le violenze "esterne"
e appunto perché esterne non drammatiche, di una interpretazione
tutto sommato tradizionale di un tema tradizionale.
Insomma
il rispecchiamento postmoderno è venuto a mancare. Regina che si
vede nello schermo della televisione in atto di interpretare la parte
di Fedra in fondo si dispera perché ci vede la Fedra di Racine e non
quella di Piscicelli.
Ma
Piscicelli è un regista dotato, sofisticato e, sopratutto,
ambizioso. Si è parlato di Fassbinder. Sì, ma a patto di stabilire
delle differenze significative: il tedesco è torbido ed emotivo; il
napoletano, freddo e razionale».
Alberto
Moravia ( «L'Espresso», 17 maggio 1987)
Baby
Gang (1992)
Regia:
Salvatore Piscicelli; soggetto e sceneggiatura: Carla Apuzzo e
Salvatore Piscicelli; fotografia: Franco Di Giacomo; scene e costumi:
Franz Prestieri; suono presa diretta: Roberto Petrozzi; musica:
Rosario Del Duca; montaggio: Franco Letti. 35mm colore. Durata: 82'.
Interpreti
e personaggi: Marco Testa (Luca), Daniele Marchitelli (Mastino),
Rino De Maso (Bucaneve), Claudio Boccalatte, Andrea Mandolini,
Gennaro Cannavacciuolo, Iaia Forte, Liliana Del basso, Pina Cipriani.
Produzione:
Carla Apuzzo per Falco Film
«Baby
Gang è un piccolo, perfido film che scioglie le storie di
malavita infantile in un ritmo da ballata favolistica: fragile e
rapsodico ma, in realtà, terribilmente drammatico nella sua
apparente assenza di tensione. Il biondino di nome Luca, che va a far
visita al fratello maggiore ed alla sua parimenti disperata compagna
in uno squallido casermone dell'hinterland, non è un personaggio
metaforico, un simbolo che cammina. E' proprio un bambino di nove
anni di condizione sociale neanche catastrofica, che gioca
incosciente al videogame dell'autodistruzione, della violenza e della
morte. Il suo è un apprendistato persino allegro, un po' nella linea
dei ragazzi di vita pasoliniani, un po' in quella dei giovanissimi
gangster ebrei di C'era un volta in America: Piscicelli lo
segue con la sua macchina da presa agile ed indecifrabile, incollata
con nonchalance alle camminate inutili, alle coazioni a ripetere
della sopravvivenza, alle apparizioni ectoplasmatiche dei militanti
dell'emarginazione.
Un
film strano, a volte imbarazzante nella sua tragicità accettata e
normalizzata, che racconta come in ipnosi fatti assurdi o scandalosi
senza garantire allo spettatore la solita uscita di sicurezza
pedagogica».
Valerio
Caprara («Il Mattino», 5 dicembre 1992)
Il
corpo dell'anima (1999)
Regia:
Salvatore Piscicelli; soggetto: Salvatore Piscicelli;
sceneggiatura: Carla Apuzzo e Salvatore Piscicelli; fotografia:
Saverio Guarna; scenografia e costumi: Franz Prestieri; suono in
presa diretta: Roberto Petrozzi; musica: brani di musica classica
scelti da S. Piscicelli; montaggio: Salvatore Piscicelli. 35mm
colore. Durata: 105'.
Interpreti
e personaggi: Roberto Herlitzka (Ernesto), Raffaella Ponzo
(Luana), Ennio Fantastichini (Mauro), Sabina Vannucchi (Gemma),
Gianluigi Pizzetti (Sandro).
Produzione:
Enzo Gallo per Metropolis Film.
Premio
della rivista “Duel” come miglior film italiano dell'anno.
«Sarebbe
bello se si trovasse un pubblico per un film azzardato e rigoroso
come Il corpo dell'anima: magari la gente che va a teatro, che
legge libri. A questi ultimi in particolare dovrebbe ricordare
qualcosa la trama della pellicola inserita in un filone che, partendo
da "Senilità" di Svevo arriva a "Un amore" di
Buzzati. E' l'antica storia dell'uomo in volgere di età che
l'apparizione casuale di una ragazza giovane fa vivere un'estate di
San Martino, intesa tutt'altro che come l' "età della pace"
di cui parla ironicamente Freud. Qui è di scena lo scrittore
Ernesto, vedovo, autosegregatosi in una villetta romana del quartiere
Coppedé, schiavo di abitudini e manie. Lo scuote dalla sua
indifferenza una prosperosa cameriera borgatara, Luana, che gli si
infila in casa e quasi gli impone le sue grazie con spregiudicata
naturalità, risvegliandolo alla vita; e non senza illuderlo e
deluderlo, ingelosirlo, imbarazzarlo, imbrogliarlo e cornificarlo.
Scandito sulla lettura dello stoico e notarile diario del
protagonista, Il corpo dell'anima, pur avendo molti punti di
contatto con i menzionati precedenti letterari, approda a un finale
che sancisce con un gesto tangibile la valenza positiva del rapporto
tra i due. Insomma, quello che da una parte poteva sembrare follia
senile, dall'altra ordinario puttanesimo, era in realtà l'incontro
di due esseri umani. Non manca un risvolto professionale, con le
chiacchiere fra Ernesto svogliato sceneggiatore e un amico regista:
anche qui Piscicelli riesce a trovare un accento di verità quasi mai
presente nel cinema sul cinema».
Tullio
Kezich («Corriere della Sera», 22 maggio 1999)
«
(...) L'eros ingenuo e sfrontato di Luana, domestica e poi amante
ovvero "educatrice" di Ernesto, saranno per il maturo
intellettuale, a lungo diviso fra attrazione e ripugnanza, un vero
cammino verso la conoscenza. Di sé, dell'altro da sé, della gioia
che questo incontro può dare. Purché se ne sia degni. Che non
significa essere alla sua altezza, anzi. Per Ernesto si tratta,
semmai, di abbassarsi, di degradarsi. Di rinunciare alla sua corazza
di cultura e buon gusto. Di scendere dal piedistallo delle differenze
di classe per accettare quanto Luana può offrirgli. E cioè
ebbrezza, abbandono, fisicità. Il prezzo è alto, bisogna patire
privazioni e umiliazioni. Ma dietro la scorza triviale di Luana, il
suo accento strascicato, i filmetti zozzi, le provocazioni con cui
esalta o esaspera il povero Ernesto, brilla la promessa di una
felicità ignota, quell'estasi, quella rinuncia a se stessi che è
l'obiettivo supremo dei mistici. E che consentirà al protagonista,
ormai pacificato, di architettare il più inatteso degli happy end.
Piccolo prodigio laico per un film terso, controllato, molto
personale, estraneo a qualsiasi moda».
Fabio
Ferzetti(«Il Messaggero», 4 giugno 1999)
Quartetto
(2001)
Regia:
Salvatore Piscicelli; soggetto e sceneggiatura: Salvatore
Piscicelli; fotografia: Saverio Guarna; scenografia e costumi:
Nicoletta Taranta; suono in presa diretta: Roberto Petrozzi;
montaggio: Salvatore Piscicelli. Digitale in fomato DV-CAM trasferito
in 35mm colore. Durata: 100'.
Interpreti
e personaggi: Anna Ammirati (Eva), Beatrice Fazi (Angelica),
Maddalena Maggi (Francesca), Raffaella Ponzo (Irma), Valeria Cavalli
(Sofia), Francesco Venditti (Guido), Leonardo De Carmine (Roberto),
Ida Di Benedetto (Elena), Armando De Razza (Aldo), Roberto Herlitzka
(Paolo), Susanna Marcomeni (Adele).
Produzione:
Paola Ermini per Làntia Cinema & Audiovisivi.
"L'ultimo
film di Salvatore Piscicelli, Il corpo dell'anima, raccontava
una delle storie più belle ed estreme di questi anni, l'incontro
improbabile e poi travolgente fra un anziano sceneggiatore molto
colto e solitario e una giovane dai modi spicci che attraverso il
sesso gli riportava in casa il rumore e l'odore del mondo; fino a
condurlo alle soglie dell'esperienza mistica.
L'attrice
che prestava il suo corpo da Venere primitiva e il suo romanesco di
periferia, a quel personaggio memorabile, Raffaella Ponzo, torna ora
in Quartetto, ma come dice il titolo non è più sola.
Intorno a lei ci sono altre tre giovani interpreti che nel film
portano forse qualcosa di più del loro mestiere. E anche il rapporto
fra generazioni e culture, caro da sempre a Piscicelli, è al centro
di Quartetto. Solo che stavolta i "vecchi" sono
fuori scena.
Sono
i padri assenti, in varie forme, di queste quattro giovani attrici
dalle vite ipertecnologiche e confuse. Sono il patrigno –
agente - amante di Francesca (Maddalena Maggi). Sono il Famoso
Attore scomparso che pesa sulla vita e sulla carriera di
Angelica (Beatrice Fazi), senza nemmeno essere il suo vero
padre. Sono il genitore mai conosciuto di Irma (Raffaella
Ponzo), che la figlia rintraccia grazie alle foto sexy sul suo sito
Internet (ed è bellissimo il loro paradossale colloquio, con Roberto
Herlitzka che non sa, non è sicuro, non ricorda quella donna amata
fugacemente tanti anni prima…). Mentre Eva (Anna Ammirati) si vede
invadere casa, e non solo, dalla madre in fuga (Valeria Cavalli, mai
così toccante).
E
intanto, fra Internet e sushi bar, amori tossici e tentati
suicidi, film che non si faranno mai e film fatti in casa
(Angelica riprende tutto in video), Piscicelli, che gira
anche lui in digitale secondo le regole convulse del "Dogma"
di Lars Von Trier, supera il senso di spaesamento iniziale per
dar forma a un acre e forte sentimento del presente. Cogliendo,
complice la bella ambientazione di Nicoletta Taranta, tutto
il nomadismo, la confusione, il dolore di un mondo che nessuno,
specie in Italia, aveva ancora guardato così da vicino. "Generazione
chat", potremmo dire. Per stringere in uno slogan
l'accelerazione tecnologica che scandisce e deforma le vite
delle protagoniste.”
Fabio
Ferzetti (“Il Messaggero”, 4 dicembre 2001)
The rules and discipline demanded by the Dogma 95 credo have never been Italian directors’ cup of tea, making “Quartet” a rara avis
attempt to explore the Danish back-to-basics philosophy in an Italo
setting. The result is paradoxically Mediterranean: sexual, voyeuristic
and dramatic. Story of four actress friends in their 20s that showcases
four new acting talents, this small, aggressively unpretty film by
Neapolitan-born veteran Salvatore Piscicelli (“Immacolata and Concetta,”
“Body of the Soul”) should make an attractive fest item.
Pic opens on a failed suicide attempt by Angelica (Beatrice Fazi)
during a New Year’s Eve party. Her mother (Ida Di Benedetto), who is
being operated on for cancer, has revealed Angelica is not her own
daughter, and Angelica is still crazy about the boyfriend who dumped
her. She decides to use her small digital camera to shoot a vengeful
film about him, herself and her friends.
Her best pal, Eva (Anna Ammirati), from Naples, balances on a razor’s
edge with her perverse b.f., Guido, who’s into group sex until he meets
Eva’s mom, Sofia (Valeria Cavalli), who turns him on even more. The
other two leads are Francesca (Maddalena Maggi), the most successful
actress of the lot, who lives with her father
substitute/agent/occasional lover, Aldo; and Irma (Raffaella Ponzo), an
uncomplicated sex kitten who feels uncertain about accepting Francesca’s
bedroom overtures.
Piscicelli interweaves these four soapy threads beautifully, playing
the boundary between comedy and melodrama with laid-back confidence. The
constantly moving camera eye, whipping this way and that, is tiresome
and tiring at first, but eventually becomes part of the story. (It could
often be Angelica shooting.) Compared with Scandi Dogma efforts, the
film takes a light-hearted approach to its own narcissism, winking at
the audience while waving its iconoclasm like a bullfighter’s cape.
Four attractive main thesps slip into their roles like a tight
evening dress — not surprisingly, as the characters were written
specifically for three of them. The women are unusually individualized
and, in general, are convincingly motivated in pursuing their
convoluted, taboo love affairs. The chummy ensemble work is a big plus.
Saverio Guarna’s camera shamelessly explores the DV medium’s freedom
in extreme closeups and invasive zooms. On the bigscreen, the grainy
blowup to 35mm is a bit hard on the eyes.
By Deborah Young, Variety, 21 dicembre 2001
Alla
fine della notte (2003)
Regia:
Salvatore Piscicelli; soggetto e sceneggiatura: Salvatore
Piscicelli; fotografia: Saverio Guarna; scenografia: Rossella Guarna;
costumi: Nicoletta Taranta; suono in presa diretta: Fulgenzio Ceccon;
musica: Eugenio Colombo; montaggio: Salvatore Piscicelli. 35mm
colore. Durata: 95'.
Interpreti
e personaggi: Ennio Fantastichini (Bruno), Elena Sofia Ricci
(Viola), Stefania Orsola Garello (Fiamma), Ricky Tognazzi (Filippo),
Ida Di Benedetto (Celeste), Toni Bertorello (Carlo), Roberto
Herlitzka (analista), Anna Ammirati (Gloria).
Produzione:
Enzo Gallo per Centrale d’Essai.
“Salvatore
Piscicelli, il miglior cineasta della nuova Napoli, continua il suo
itinerario sofferto e appartato, tanto lucido e rigoroso quanto
impermeabile ai diktat dei «fratelli del clan». Giovane, più che
giovanile, nell'animo e quindi nel rapporto con la scrittura delle
proprie emozioni, Piscicelli non indica la strada neppure ai più
strenui dei suoi adepti: come dimostra ampiamente Alla fine della
notte, un film che sembra un'opera prima nello stesso momento in
cui decide di tirare le fila di un'intera vita artistica.
Il
cinema non serve per rimirarsi in uno specchio stilistico; diventa,
piuttosto, la chiave per dare un senso alle visioni che tormentano la
purezza originaria di una vocazione e di un talento. Così
l'eccellente Ennio Fantastichini (al suo fianco ci sono Roberto
Herlitzka, Ida Di Benedetto, Toni Bertorelli, Elena Sofia Ricci),
attore-regista di mezz'età in crisi, intraprende un viaggio
iniziatico che lo riporta a Napoli senza tuttavia risolvere alcun
quiz esistenziale.
Da una parte ci sono gli incontri umani, con
l'ingombrante corredo di ricordi, traumi, flash subliminali e
rimpianti: amici che ne hanno condiviso le passioni, donne che
l'hanno tradito o l'hanno amato, una zia leopardiana sui generis, la
moglie da cui sta per divorziare che gli annuncia di essere incinta,
uno psicoanalista che insegna a convivere con la depressione, un
filosofo omosessuale, il padre indegno che gli funestò l'infanzia
provocando il suicidio della sorellina. Dall'altra, il pellegrinaggio
si sfalda nel vortice sin troppo prezioso dei dialoghi, che poi si
posano - come una polvere pietosa e terapeutica - sui canyon
desertici e inariditi del tempo perduto.
È chiaro che la
linea di direzione geografica dal nord al sud offre una chiave di
lettura peculiare, ma il tono si mantiene sempre dissonante,
eccentrico, destrutturato come in una composizione schonberghiana:
Piscicelli non vuole aderire del tutto alla metafora, né sovrapporsi
all'autonoma logica della narrazione che -come succede ai veri
autori- deve restare tale. La sua coraggiosa «impudicizia», nel
senso basico del termine, risalta tutta nel confronto conclusivo, un
pezzo di bravura che sembra trasportarci nell'acme fiammeggiante di
un melodramma all'antica.”
Valerio
Caprara (“Il Mattino”, 2 luglio 2003)
After a brief flirtation with DV
and Dogma, helmer Salvatore Piscicelli is on a more fluid track with his
exploration of an actor’s midlife crisis in “At the End of the Night.”
Plot uses the well-worn formula of a physical journey as a portal to
inner discovery, but things stay fresh thanks to first-rate script and
spot-on casting. With its well-told story and satisfyingly ambiguous
ending, pic should nestle nicely into fest slots as well as Italophile
screens at home.
Bruno Spada (Ennio Fantastichini) is a successful actor and director
whose depression makes him question his choices, past and present. He
revisits the people who made him happy, but finds he has to dig deeper
to understand his behavior. First stop is Tuscany and ex-g.f. Viola
(Elena Sofia Ricci), who a decade earlier put the kibosh on their
relationship and settled down with nice, stable Filippo (Ricky
Tognazzi). Now she’s being cheated on, and Bruno’s return leads her to
probe her own past.
Back in Rome, Bruno’s wife Fiamma (Stefania Orsola Garello) suggests
they speed up their separation; she loves him but recognizes the
marriage has been a disaster, not least thanks to his incapacity for
fidelity. Always running away from emotional skirmishes, Bruno leaves
for Naples and the aunt (Piscicelli regular Ida Di Benedetto) who took
care of him when he was young. More inner ghosts are examined as he
explores his childhood stomping grounds.
Auds familiar with Piscicelli’s previous efforts (“Immacolata and
Concetta,” “Body of the Soul,” “Quartet”) will be surprised at how
little flesh is exposed, but the psychological acuity he’s demonstrated
before doesn’t fail him here. The superb cast members embody their
characters to perfection, with Garello a marvel in an extended
confrontation with her faithless husband. Scene is given space to
breathe, and she conveys love, exhaustion and pain, without melodrama.
Opening shots are a technical standout, with graceful camerawork that
elegantly describes space as it glides inquisitively through Bruno’s
therapist’s room. Lensing throughout is accomplished, but the grace of
those few minutes sticks in the memory.
Jay Weissberg, Variety 18 giugno 2003
Vita segreta di Maria Capasso (2019)
Regia: Salvatore Piscicelli; soggetto e sceneggiatura: Carla Apuzzo e Salvatore Piscicelli, dal romanzo omonimo di Salvatore Piscicelli; fotografia: Saverio Guarna; scenografia: Franz Prestieri, Antonella Di Martino; costumi: Alessandra Torella; suono presa diretta: Luca Ranieri; montaggio: Salvatore Piscicelli, Marco Guelfi; musica: Manù Bandettini.
Formato: 2.35:1 DCP; durata: 96'.
Interpreti principali: Luisa Ranieri, Daniele Russo, Luca Saccoia, Marcella Spina, Roberta Spagnuolo, Nello Mascia.
Produzione: Palomar, Zocotoco con Vision Distribution.
Qual è la guerra di Maria? Maria è una donna, del sud, è una
lavoratrice precaria, è madre di tre figli e moglie di un uomo
ammalato di cancro. La sua guerra è con la vita. Qual è la scelta
inusuale di Maria? Maria sceglie di non essere vittima di una
condizione sociale che la pone, spalle al muro, di fronte alla sua
povertà di mezzi, sceglie di essere una donna fuori dal comune e di
prendersi, con forza prepotenza e spregiudicatezza, ciò che, di
norma, non è concesso così facilmente a molti né, tanto più, a
troppe donne: Maria si prende tutti insieme in una volta sola soldi,
sesso, libertà, successo e vita sicura. Certo dovrà per questo
rinunciare a qualcosa, forse proprio a quell’amore da lei stessa
declamato nella didascalia iniziale del film “Mi chiamo Maria
Capasso, ve lo dico papale papale, non me ne frega un cazzo di quello
che la gente potrebbe pensare di me: ho agito per amore e tanto
basta”, ma la verità è che Maria è un personaggio vincente,
anche se la sua storia è un percorso ad ostacoli tra l’impossibilità
di conservare un’ etica da donna perbene e la volontà di
riscuotere dalla vita il giusto premio dei propri sacrifici.
Abbiamo ormai imparato a conoscere e ad amare le inusuali donne di
Salvatore Piscicelli: come già Immacolata (Ida Di Benedetto) e
Concetta (Marcella Michelangeli) 40 anni fa (1979) sfidavano una
precostituita ostilità maschile, le inossidabili convenienze
familiari e i secolari tabù sociali, come già Rosa (una Marina Suma
esordiente premiata col David di Donatello per questa sua prima
interpretazione nel 1981) accettava di prostituirsi come alternativa
estrema all’impossibilità di migliorare le sue chance, ora anche
Maria (una perfetta Luisa Ranieri), sola contro tutti, sale sul ring
della vita decisa a fare a botte con chiunque provi a frapporsi come
ostacolo tra lei e ciò che vuole. Donne che da strumenti passivi
nelle mani degli uomini (amanti, mariti o padri) si fanno capaci di
reinterpretare soggettivamente la loro esistenza, affermando la
propria vera identità, ancorché sgradevole o negativa.
La cosa più avvincente di
La vita segreta di Maria Capasso
è infatti l’evoluzione drammatica e narrativa della sua
protagonista. Presentataci dapprima nei panni innocui di una
qualunque (una tra tante) mamma di casa, moglie devota ed affettuosa
(pensa al pigiama nuovo da comprare per il ricovero del marito, si
occupa dei figli), lavoratrice indefessa e anche un po’ sfruttata
di un centro estetico della periferia napoletana, poco alla volta si
accende di una luce del tutto nuova. Maria dà luogo ad una radicale
trasformazione, sottolineata, inoltre, dal suo trasferimento
topografico dalla periferia di Napoli al Vomero, simbolo per
eccellenza dell’exploit sociale ed economico della donna.
Questa metamorfosi è perfettamente espressa dal linguaggio
cinematografico, a partire dal ritmo del racconto che da tenue si fa
via via più aggressivo, dai colori di scenografie e costumi che
cambiano (si passa dalle tinte chiare e luminose, nei vestiti
fiorati, negli arredi, in esterni, a colori sempre più cupi e vicini
al nero), da uno stile per così dire chiassoso, partenopeo,
dell’immagine nel suo complesso, ad uno più moderno e lineare,
sobrio. Il miracolo della trasformazione è senz’altro merito di
una fortissima sceneggiatura, accompagnata dal talento innegabile di
Luisa Ranieri. A inizio e fine film, pare di aver conosciuto due
diverse protagoniste, appunto quella consueta, civile, accettabile,
lodevole, in panne... e poi il suo doppio segreto, nascosto, la parte
più cupa di ognuno di noi, la Maria volitiva, decisionista,
risolutiva.
Maria agisce per salvarsi, per migliorare la sua posizione. Lo fa
per sé e per i suoi familiari, ma considerando il modo in cui si
comporta con “l’innamorato” della figlia maggiore, non vediamo
l’amore per il prossimo come movente principale della sua azione,
piuttosto quello per sé stessa. Quello di Maria è un amore
spropositato per sé stessa, un desiderio forte di auto-rivendicarsi,
di riconoscersi, affermarsi, in questo sì, molto vicina all’essenza
di Filumena Marturano. Siamo naturalmente portati ad apprezzare
parecchio questo tipo di egoismo femminile, di autostima esasperata,
in un contesto che dimostra quotidianamente quanto ancora ci sia da
fare per liberare le donne dall’egemonia maschile, dallo
schiacciamento della loro emancipazione tra cura e lavoro subìto,
più che agito. Siamo convinti che il messaggio del film, se ha
ancora un senso parlare di
message, ancorché travestito da
una patina di maledettismo noir, sia molto forte e positivo. Proprio
perché, una volta tanto, è una donna a prendere in mano la sua vita
e a rifiutare ciò che altri, o un destino infame e sfortunato, hanno
previsto per lei. La vita segreta di Maria, insomma, non ci indigna e
ci piace assai.
(Recensione di Francesca Divella, dal blog Cinefilia Ritrovata della Cineteca di Bologna, 18 luglio 2019)
Non trascurate il nome del regista: Salvatore Piscicelli, 71 anni,
da Pomigliano d’Arco, esponente di punta con Immacolata e Concetta,
Le occasioni di Rosa e Blues metropolitano del verismo napoletano
degli anni Ottanta, da qualche tempo anche acuto romanziere. Vita
segreta di Maria Capasso nasce da un libro dello stesso Piscicelli,
pubblicato nel 2012, che segue i tormenti dell’estetista part time
Maria, andata in sposa giovanissima all’operaio Antonio. Il quale
l’ha aiutata ad emanciparsi da una condizione di sottomissione
familiare e a cui ha dato, per amore e gratitudine, tre figli e una
dignitosa normalità.
Le convenzioni sociali l’hanno
costretta a stringersi in una dimensione domestica, ma la bella
signora ha saputo adattarsi. Eppure il terremoto è vicino: Antonio
si ammala e Maria perde le sue certezze. Ha il terrore di non farcela
da sola e cede alle lusinghe di un ex spasimante, il faccendiere da
autosalone Gennaro che approfitta della sua debolezza e la trascina
nei suoi loschi giri. L’agnello, a questo punto, si trasforma in
una tigre: la delusione spinge Maria a diventare una terribile
vendicatrice, sagomando la sua reazione sul degradato contesto.
Piscicelli gioca in casa nell’illustrare la devastazione dei
sentimenti e la perdita dell’innocenza, quando il lato oscuro
dell’esistenza sfiora l’orizzonte di Maria, lasciando affiorare
figure storiche della letteratura e del teatro napoletano, lanciando
lo sguardo sul cambiamento di una città che vuole tornare a sognare,
mescolando linguaggi, stili, volti in un melting pot meridionalista
che vale un’indagine antropologica. Il racconto è asciutto e per
molti versi anche convincente, nonostante una vena di amoralità che
attenua il pathos e fa perdere di vista la linea psicologica dei
personaggi. Se Napoli è soprattutto uno stato emozionale, Luisa
Ranieri si conferma l’attrice in questo momento più adatta a
intercettarne l’anima e la voglia di rinascere.
(Recensione di Paolo Baldini da Corriere della Sera, 21 luglio 2019)
Immacolata, Concetta, Rosa, Regina, Maria Capasso.
Le donne, si sa, nel mondo cinematografico e letterario di Salvatore
Piscicelli hanno un peso fondamentale, una valenza significante
imprescindibile e non è un caso che quando sono protagoniste
assolute i loro nomi sono presenti nel titolo dei film, quasi ad
enunciare l’inequivocabile centralità narrativa del ruolo
femminile e a sottolineare il tutt’uno con il contesto, la storia e
i personaggi. Non si tratta infatti di attrici (di volta in volta Ida
Di Benedetto, Marina Suma, e ora Luisa Ranieri), muse ispiratrici
transitorie o di icone seducenti buone per l’uso. Ma di corpi e
volti dall’incisiva funzione scultorea, perché Piscicelli,
se non è l’unico, è uno dei pochi autori napoletani che quando
parla della sua città scolpisce,
gli altri in genere dipingono, descrivono, non affondano, lui incide
a fuoco queste figure femminili caricando sulle loro “spalle” le
stratificazioni culturali, le contraddizioni storiche
irrisolte, gli equivoci della necessaria rappresentazione oleografica
(di destra o di sinistra) della città per raccontare storie spesso
universali.
Ecco perché si può permettere di lasciare spesso
la città “fuori campo”, di limitarsi allo stretto necessario di
panorami, zone periferiche, frammenti di quartieri, come fa anche in
Vita segreta di Maria Capasso, il nuovo film scritto come
sempre con Carla Apuzzo sulla base del suo omonimo romanzo uscito nel
2012. Lui sa che Napoli è una città “femmina” e come
tale – anche in termini di messa in scena e costruzione visiva –
è seducente e insidiosa, affascinante e pericolosa, esuberante e
sovraesposta.
Anche questa come e più delle altre
precedenti, è una storia di dolore, di riscatto, di orgoglio, di
rancore, di volontà di affermare con qualsiasi mezzo un’identità
e un ruolo. E Luisa Ranieri è perfetta per dare alla sua
escalation sociale il segno di una crudeltà per accompagnarla
con un riscatto morale. Il regista ha sfruttato come meglio non si
poteva il vantaggio di essere anche l’autore del romanzo al quale
ha attinto, asciugando, rivedendo e correggendo il rapporto della
protagonista con il contesto criminale e con la città per stare
sempre su di lei, farne il veicolo/detonatore/termometro icastico,
coinvolgente ed empatico di umori e allusioni.
La storia di Maria estetista
part time, sposata giovanissima con un onesto lavoratore da cui ha
avuto tre figli è quella di una vita come tante della periferia
popolare di Napoli, fatta di sacrifici e fatica quotidiana per
arrivare a fine mese. Quando al marito viene diagnosticata
una malattia in fase terminale, lei accetta l’aiuto
di Gennaro (ottima la performance di Daniele Russo), ricco
e ambiguo proprietario di un autosalone diventandone l’amante. Un
giorno lui le propone di diventare partner in affari: trasporterà un
carico di cocaina fino in Svizzera. Una volta divenuta vedova, il
legame con Gennaro la farà precipitare in un vortice criminale, che
le permetterà finalmente di vivere nuove possibilità e coronare
vecchi sogni. Ma la strada scelta da Maria per la sua personale
rivincita lascerà dietro di sé le sue inevitabili vittime, proprio
come in una guerra che non guarda in faccia nessuno.
Solo Piscicelli, ex critico militante e
raffinato, poteva raccontare una storia molto napoletana nel
contenuto e molto euroamericana nella forma (le citazioni
non pedanti di alcuni suoi amori come Sirk, Fassbinder, il cinema
giapponese, Hitchcock, Godard). E solo lui poteva scegliere
un’interprete ideale per le caratteristiche di un ritratto
letterario a tutto tondo di una donna fortemente ambigua,
affascinante nel suo vitalismo, nei suoi dubbi, nelle sue paure,
nelle sue speranze, nella sua determinazione e al tempo stesso
calibrare atmosfere, ritmo e pregnanza dell’eroina sulle
caratteristiche espressive e cinegeniche di Luisa Ranieri. E il
cambio di segno grafico dagli anonimi piedi con tacchi a spillo della
Capasso della bella copertina del romanzo edito da e/o al primo piano
dell’attrice con occhiali scuri del seducente manifesto del film è
abbastanza eloquente dell’accentuazione del versante dark lady.
Tra thriller e melodramma familiare, Maria
si trasforma gradualmente da dark lady per
costrizione a dark lady per
scelta, in sintonia con il passaggio da casalinga disperata a
imprenditrice cinica e ambiziosa. E l’apertura e la
chiusura parabrechtiane circoscrivono una vicenda femminile
impregnata dell’emergenza dell’oggi e della speranza del domani e
l’asse femminile si allunga dalla spietata madre alla vulnerabile e
indifesa figlia, da una donna che dopo aver costretto il losco
individuo ad intestarle un centro estetico e una casa a una ragazza
che diventerà mamma.
Piscicelli è un autore post(neo)realista,
non può fare a meno di raccontare la realtà che conosce meglio ma
sempre con la distanza e il distacco necessari per ricordarci che è
un problema di percezione della realtà, che si tratta di
un’Imitazione della vita come s’intitola il volume che
raccoglie i suoi scritti di cinema, in linea con quanto il grande
critico letterario tedesco Auerbach sosteneva negli anni quaranta in
Mimesis. E forse sono proprio la formazione critica e la
conoscenza del legame complesso e problematico tra cinema e
letteratura che hanno consentito all’autore di differenziare
soprattutto il suo rapporto con il romanzo di partenza e con il film
che ha girato.
Nell’eterna questione se in questi casi è
meglio che il regista affidi ad altri la sceneggiatura per conservare
il giusto distacco o è preferibile avere un controllo totale sulla
materia letteraria, disquisizione accademica che poi alla fine ha
solo partorito spesso ibridi o aborti o comunque risultati deludenti,
Piscicelli se l’è cavata egregiamente con la misura e la
lungimiranza giuste per rinvigorire cinematograficamente
il romanzo e al tempo stesso evitare le trappole letterarie e le
tentazioni di replicare scolasticamente le pagine sullo schermo.
Ed è proprio la Maria Capasso-Luisa Ranieri seducente e determinata
a spostare provvidenzialmente le aspettative del lettore verso quelle
dello spettatore.
(Recensione di Alberto Castellano da Fata Morgana, 21 luglio 2019)
Documentari
La
canzone di Zeza
Regia
e fotografia (16mm, colore) Salvatore Piscicelli e Giampiero
Tartagni; in collaborazione con: Adriana Bellone, Cristina
Ruiz, Nieves Zenteno; interpreti: Marcello Colasurdo (Zeza),
Luigi Cantone (Pulcinella), Ugo Basile (Vicenzella),
Matteo D'Onofrio (Don Nicola), Pasquale Terracciano
(Sarchiapone); produzione: L’Officina
cinematografica; origine: Italia; anno: 1976;
durata: 36’.
In
un cortile della vecchia Pomigliano, il Gruppo Operaio 'E Zezi mette
in scena La canzone di Zeza, uno spettacolo cantato e danzato,
interpretato da soli uomini (nei ruoli femminili en travesti),
che tradizionalmente si rappresentava per le strade e nei cortili
durante il carnevale. Lo spettacolo termina con il canto collettivo
di Bandiera rossa.
Carnevale
popolare a Pomigliano d’Arco
Regia:
Salvatore Piscicelli; fotografia
(16mm, colore): Giovanni
Mercuri, Luigi Verusio; fonico:
Claudio Gambini;
produzione:
Gruppo Cronaca; origine:
Italia; anno:
1977; durata:
66’; teletrasmesso in due puntate.
Il racconto di un singolare
carnevale anni settanta dedicato alle lotte degli operai, degli
studenti e dei disoccupati.
Il
rifiuto del lavoro e Tonino
del Cavone
Regia:
Salvatore Piscicelli; fotografia
(video, b/n): Giannantonio Marcon; fonico:
Carla Apuzzo; produzione:
Cooperativa Cinema Democratico; origine:
Italia; anno:
1977.
Il movimento dei disoccupati
organizzati raccontato attraverso i ritratti di due militanti.
Entrambi questi lavori sono andati perduti.
Marcello
Regia:
Salvatore Piscicelli; fotografia
(16mm, b/n): Giannantonio Marcon;
fonico:
Carla Apuzzo;
montaggio:
Carlo Schellino; con:
Marcello Colasurdo; produzione:
Cooperativa Cinema Democratico Milano; origine:
Italia; anno:
1978; durata:
22’.
Un breve ritratto del cantante
popolare Marcello Colasurdo ai primordi della carriera.
Bestiario
metropolitano
Regia:
Salvatore Piscicelli; fotografia:
Giorgio Magliulo;
programma ideato
da: Salvatore Piscicelli
ed Enrico Zummo; produzione:
RaiTv-Rete
3 (regione Campania); 6 puntate di 30’ teletrasmesse dalla rete
regionale dal 18 settembre al 11 novembre 1980.
Sei puntate dedicate ad
altrettanti personaggi della scena urbana napoletana.
Tutti
del bosco
Regia:
Salvatore Piscicelli, Carla Apuzzo; montaggio:
Massimo Palumbo Cardella; ricerche: Rosina Balestrazzi Giudici;
produzione:Beppe
Attene per Lantia Cinema & Audiovisivi e Rai
per la serie “Alfabeto italiano”; origine:
Italia; anno:
1998; durata:
50’.
Documentario dedicato al tema
della magia nel meridione d'Italia, interamente realizzato con
materiali di repertorio degli archivi Rai.
La
comune di Bagnaia – Un frammento di utopia
Regia,
fotografia (video, minidv) e
montaggio: Carla Apuzzo, Huub Nijhuis, Salvatore Piscicelli;
produzione: Falco Film, Belart Film; origine:
Italia/Olanda; anno: 2005; durata: 95’.
Nel
1979, un piccolo gruppo di donne, uomini e bambini acquistano un
podere nella campagna vicino Siena – la Montagnola, uno dei luoghi
più belli e incontaminati della Toscana, oggi meta anche di un
turismo d’élite, britannico ed europeo in genere – e vi fondano
una comune ispirata ai principi del comunismo libertario. Rifiuto
della proprietà privata, abolizione dei ruoli maschio-femmina,
condivisione egualitaria delle risorse (“da ciascuno secondo le sue
possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”), messa in
discussione del modello di famiglia nucleare tradizionale, apertura
al gruppo dell’educazione dei figli, infine assunzione di una forma
radicale di democrazia interna che – attraverso il metodo del
consenso e rifiutando ogni genere di leadership e i concetti stessi
di maggioranza e minoranza – punta in modo diretto a decisioni
unanimemente condivise. Sulla base di queste idee-guida, ma con un
approccio più pragmatico che ideologico, quelli di Bagnaia sono
riusciti a costruire la loro piccola isola utopica e a farla durare
nel tempo.
Sullo
sfondo della festa per il venticinquennale della fondazione, il film
racconta, attraverso la voce dei protagonisti, la storia di questa
esperienza.
Una
dichiarazione degli autori
“Realizzare
questo film è stato innanzitutto una bella esperienza umana:
incontrare nuovi amici e ri-conoscersi, non tanto sul piano
ideologico o generazionale, quanto su un comune, per così dire,
sentimento del mondo. Questa empatia è stata parte del nostro
approccio di autori.
Fin
dall’inizio, volevamo fare un film che non fosse un generico
ritratto della Comune di Bagnaia. Volevamo piuttosto registrare il
racconto che gli stessi comunardi elaboravano sulla loro esperienza
in un preciso momento della loro storia, il venticinquennale della
fondazione. Un racconto corale, quasi un autoritratto della Comune,
ma con ampie modulazioni individuali. Questo approccio, tutto interno
al nostro soggetto, escludeva per principio, da parte nostra, ogni
forma di giudizio o pre-giudizio di carattere storico, ideologico o
sociologico; e implicava piuttosto, come nostro punto di vista, oltre
all’empatia di cui sopra, una volontà di ascolto, e quindi di
conoscenza, intorno a un’esperienza che riteniamo estremamente
significativa entro il nostro orizzonte storico-politico e umano.
Il
film ha quindi per noi una doppia valenza: quello di un documento
storico e politico su un’esperienza che, pur essendo minoritaria,
ben rappresenta le tensioni di un’intera generazione; e quello di
un contributo di analisi e di riflessione intorno alle possibili
alternative, al tempo stesso radicali e praticabili, su cui da
qualche tempo è aperta la discussione all’interno dei vari
movimenti di opposizione alla globalizzazione neoliberista.
La
canzone di Marcello
Regia, riprese, montaggio: Salvatore Piscicelli
Riprese aggiunte: Timoty Aliprandi, Saverio Guarna, Huub Nijhuis
Assistente al montaggio: Cristiana Cerrini
Musiche: Marcello Colasurdo e Paranza
Genere: documentario
Durata: 51’
Formato: DV, 4:3 – colore e b/n
Produzione: Carla Apuzzo per Falco Film – Italia, 2006
"Ho girato questo film tra il 2004 e il 2006, filmando buona parte del materiale io stesso con la camera a mano. E’ un ritratto, per così dire, schizzato a matita dell’artista e del personaggio, un omaggio affettuoso e molto personale a Marcello, cui mi lega un’amicizia ormai più che trentennale."
Salvatore Piscicelli
Con la simpatia umana e la carica comunicativa che lo hanno reso così popolare presso il pubblico di Napoli e della Campania, Marcello ci racconta la sua storia e le sue esperienze, gli incontri con Fellini e Peter Gabriel. Ci parla della politica, della fabbrica, della camorra, della droga, della globalizzazione, della pace e della guerra. Ci conduce, quasi da sacerdote laico, in alcuni luoghi di pellegrinaggio dove si esprime quella religiosità popolare che ha ancora radici pagane. Lo vediamo mentre anima una discussione politica o una festa o quando trasmette l’arte della tammorra e la tradizione orale ai ragazzi del quartiere popolare dove vive. Lo seguiamo con la sua Paranza mentre canta e suona nelle piazze e sui palchi.
Arricchito da materiale degli anni Settanta, il film offre un ritratto a molte facce, denso di musica e di calore umano, di un artista autenticamente popolare.
Chi è Marcello Colasurdo
Di umili origini, Marcello trascorre l’infanzia in diversi collegi, prima a Napoli e poi nelle Marche. Verso i 12 anni, la madre lo riprende con sé. La famiglia è molto povera. Vivono in un “basso” in fondo a un cortile della vecchia Pomigliano: un’unica stanza in cui si cucina, si mangia, si dorme; il servizio igienico è fuori, in comune con gli altri bassi.
In collegio, Marcello ha conseguito la quinta elementare. Ora si arrangia, come tanti ragazzi poveri della sua età, facendo i lavori più svariati: garzone di barbiere o di bar, raccoglitore di patate e d’altro in campagna, cantante di matrimoni… Sono questi gli anni della formazione musicale da autodidatta, a contatto col ricco tessuto culturale, contadino essenzialmente, che ancora sopravvive a Pomigliano d’Arco, che in quegli anni si è trasformato nel più grande polo industriale del meridione.
Nel 1975 è tra i fondatori del Gruppo Operaio “’E Zezi”. Animato da Angelo De Falco, il Gruppo è tra i primi a operare un recupero della tradizione musicale contadina in una chiave di forte consapevolezza politica e sociale.
Intanto Marcello partecipa alle dure lotte sociali di quel periodo, in particolare con i disoccupati organizzati. Consegue la licenza media, indispensabile per trovare un lavoro decente, e infine, nel 1980, a 25 anni, entra in fabbrica, all’Alenia, come operaio addetto alle pulizie. Vi resterà fino alla metà degli anni Novanta, pur continuando a lavorare e a tenere concerti con i Zezi.
Nel 1996, fonda il suo gruppo, “Marcello Colasurdo e Paranza”, con il quale produce un disco e tiene moltissimi concerti. Nel 2000, incide per l’etichetta inglese Real World Records di Peter Gabriel un CD, “Lost Souls” (“Aneme perze”), con il gruppo Spaccanapoli, con il quale continua a tenere concerti, soprattutto all’estero. Ha collaborato con tanti musicisti (Almamegretta, 99 Posse, Daniele Sepe, Nuova Compagnia di Canto Popolare, Maurizio Capone…), ha recitato in teatro (con Martone, Pressburger…) e al cinema (oltre che con Piscicelli, con Fellini – “Intervista” del 1987 - e poi con Capuano, De Bernardi, De Lillo). La ricchezza di questa esperienza fa sì che Marcello si trovi a suo agio in qualsiasi contesto: dai teatri tradizionali alle piazze di mezzo mondo, dalle feste popolari ai centri sociali, con artisti tradizionali e artisti d’avanguardia.
La tradizione musicale
La musica popolare, di cui Marcello è interprete principe, ha poco a che vedere con la pur straordinaria tradizione canzonettistica partenopea (anche se ne ingloba la parte più “paesana”). Essa è espressione diretta, e principale, della tradizionale cultura contadina dell’entroterra napoletano, legata al ciclo stagionale dei lavori e al calendario religioso, in particolar modo alle feste in onore delle varie Madonne Nere, eredi cristiane delle antiche divinità femminili della prosperità e dell’abbondanza. E’ una tradizione ricca di forme – canto libero (voce a fronne), canzone propriamente detta, rituali, tammurriate, fiabe cantate, vari tipi di danze, vere e proprie azioni teatrali (come la celebre “Canzone di Zeza”, che si recita a Carnevale con interpreti “en travesti”). Gli strumenti fondamentali sono la voce e la tammorra - il tradizionale tamburo che viene ancora costruito secondo le vecchie regole, spesso dagli stessi esecutori – cui si affiancano altri ingegnosi elementi percussivi (putipù, scetavajasse, ecc.) nonché, di volta in volta, chitarra, mandolino, fisarmonica, pifferi, ecc. E’ una musica dalla forte carica sensuale e partecipativa, che stimola immediatamente il movimento e la danza sfrenata; il che spiega il successo che sta ottenendo in questi anni presso il pubblico giovanile, che pure è così lontano dalle sue radici. In essa non è difficile avvertire echi arcaici, ma anche mediorientali e nordafricani. Negli ultimi decenni, questa musica, pur conservando il suo assetto tradizionale, è stata capace di contaminarsi con contenuti nuovi, legati alle lotte sociali e politiche, e di dialogare con altre forme musicali, come il jazz, il rock e il pop, in un movimento che riflette il processo sociale e culturale che sta alla base del suo recupero.
Altri
film
Rose e pistole (1998)
Regia: Carla Apuzzo;
soggetto e sceneggiatura: Carla Apuzzo, Salvatore Piscicelli, Marco
Vajani; fotografia: Paolo Ferrari; scenografia e costumi: Franz
Prestieri; suono in presa diretta: Andrea Moser; musica: Eugenio
Colombo; montaggio: Salvatore Piscicelli. 35mm colore. Durata: 81'.
Interpreti: Anna
Ammirati, Duccio Giordano, Luigi Petrucci, Cristina Donadio, Lello
Serao, Mauro Gioia, Gianni Dal Maso, Marcella Vitiello, Stefano
Sarcinelli, Enrico Caria, Stefania Pelella, Paolo Coletta, Giuseppe
Schisano, Sergio Di Paola, Lello Giulivo, Giuseppe Labbate, Emad
Ibrahim, Laura Sansone, Marina Sacchi, Valentino Cervini, Mario
Aterrano, Rosario Barone, Imma Villa, Carlo Cerciello.
Produzione: Salvatore
Piscicelli per Falco Film.
“Nel singolare debutto di
Carla Apuzzo, già sceneggiatrice di Piscicelli, il titolo Rose e
pistole allude a due donne di nome Rosa, una giovane l'altra meno
(Anna Ammirati e Cristina Donadio), una incinta dell'amante
spacciatore, l'altra sposata al laido gestoredi una “hot line”
che ricatta e corteggia la giovane. Ma anziché farsi la guerra le
due Rose si alleano, sparano, sfuggono ad agguati e pericoli,
neutralizzano compagni inetti o infidi, escono non illese ma vive da
un microcosmo grottesco e tutt'altro che irrealistico dove convivono
fianco a fianco droga e salutismo new age, “sex phone” e guru
orientali, vita criminale e aspirazioni piccolo borghesi. Un
bell'esempio di “noir” nostrano, allarmante e divertente insieme,
che mutua da Tarantino e Takeshi Kitano la cronologia a singhiozzo e
il gusto per quella fauna metropolitana che a Napoli e dintorni non è
sicuramente meno varia che a Tokyo o New York.”
Fabio Ferzetti (“Il
Messaggero”, 15 febbraio 1999)
“Rose e pistole è
una commedia nera tra l'archeologia industriale di Bagnoli e i Campi
Flegrei, intreccio senza sociologia e senza politica dei
microconflitti maniacali che hanno sostituito i grandi conflitti
ideologici... Il primo film di Carla Apuzzo, sceneggiatrice e
compagna di vita di Salvatore Piscicelli, è molto riuscito: sono
personalissimi i ritmi e i linguaggi della vita caotica, la scelta
degli attori, dei colori primari e degli ambienti degradati,
l'andamento serpentino della narrazione scandita da cartelli,
l'interpretazione forte di Anna Ammirati...”
Lietta Tornabuoni (“La
Stampa”, 11 febbraio 1999)
(La
filmografia è tratta dalla rivista Cinecritica
del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani, integrata
con quella messa a punto
da Francesco Crispino in
Alle origini di
Gomorra. Salvatore Piscicelli tra nuovo cinema e neotelevisione,
editore Liguori, 2011)
Reperibilità
dei film
Di
Immacolata e Concetta e Le occasioni di Rosa esistono
due ottime edizioni in dvd della Ripley's Film reperibili negli store
online, ad esempio qui e qui.
I
dvd di Quartetto e Alla fine della notte sono
reperibili occasionalmente su Amazon o Ebay.
La
comune di Bagnaia è visibile su YouTube qui.
Per
proiezioni pubbliche di carattere culturale ci si può rivolgere alla
Cineteca Nazionale, presso la Scuola Nazionale di Cinema di Roma, che
detiene copie in 35mm e dvd di tutti i film di finzione di Salvatore
Piscicelli.
In un articolo del 2005, sul Mattino, si accennava al progetto di un film ispirato a una storia scritta da Marguerite Duras, quarantenne innamorato di una bambina. Per favore, a quale storia si allude? Mi occupo del sito "Duras mon amour" e mi piacerebbe saperlo
RispondiEliminaTi consiglio di guardare film di buona qualità https://filmsenzalimiti.page Mi è piaciuto molto il sito in generale
RispondiElimina