“Almost
too dumb to criticize”, ha
scritto Matt Taibbi su
RollingStone a
proposito di American Sniper di Clint Eastwood. Io, che
non faccio più il critico da un pezzo, mi limiterò a dire che si
tratta di un film mediocre, come purtroppo tutti i suoi ultimi. Le
scene di guerra sono ripetitive e sanno di già visto; c'è di meglio
nel genere, a cominciare da The Hurt Locker di Kathryn
Bigelow. Quanto all'altro versante, quello privato, dei rapporti del
cecchino con la moglie e il contesto familiare, siamo nella pura
superficialità (malgrado la buona prestazione di Sienna Miller). Sul
tema dei veterani di guerra e delle difficoltà del loro
reinserimento il cinema americano ha prodotto opere di ben altro
spessore, troppo numerose per citarle qui.
Per il resto il
film dipinge una specie di santino del cecchino Chris Kyle,
edulcorandone la biografia e facendone l'eroe di un'America dura e
pura in lotta eterna contro il male, identificato con tutto ciò che
appunto non è americano, e in particolare con gli odiati islamici.
Un'operazione di uno sciovinismo bruto ed elementare, che manipola i
dati storici, esaltatrice di un machismo diventato ormai stucchevole.
Tutto questo non
sorprende. Eastwood è un uomo di destra e non l'ha mai nascosto,
anzi l'ha spesso esibito con un certo gusto della provocazione, come
quando disse pubblicamente a Michael Moore, tra il serio e il
faceto, che lo avrebbe ammazzato se mai si fosse presentato alla sua
porta con una telecamera o come quando, alla convention del partito
repubblicano nel 2012, si esibì nel famoso monologo accanto alla
poltrona vuota in rappresentanza di Obama. Che ci propini un film di
rozza propaganda non è strano. (Del resto una parte consistente del
cinema che viene dagli Stati Uniti è sempre stato e continua ad
essere, in senso lato, una gigantesca macchina di propaganda
dell'ideologia americana. Il che non ci ha impedito di amarne la
parte migliore, compresi diversi film di Eastwood.)
Resta da capire il
perché dell'enorme successo ottenuto dal film. Amy Nicholson sul
Village Voice ne dà
una spiegazione interessante. Tanti americani sono stati coinvolti,
direttamente o indirettamente, nelle guerre recenti e sono alla
ricerca di una risposta a una domanda alla quale è difficile
rispondere: ne è valsa la pena? La risposta che il pubblico vuole –
ha bisogno – di sentire è sì, perché questo allevia l'angoscia
di fronte alla perdita o al turbamento causato alle ferite fisiche e
psicologiche che il reduce si porta dietro.
Da quando, dopo
l'11 settembre, l'America ha scatenato la cosiddetta guerra al
terrore, la propaganda ci ha convinto che siamo nel mezzo di uno
scontro di civiltà, con l'occidente cristiano, libero e democratico
attaccato da coloro che odiano i nostri valori, islamici e non solo.
Questa visione (che serve a nascondere la guerra vera, quella tra
ricchi e poveri) va imposta con la paura (il che accade con
regolarità, vedi il recente sfruttamento propagandistico dell'orrido
attentato a Charlie Ebdo), e di fronte alla paura l'eroe porta
sollievo, ci conferma in un'identità che, per quanto illusoria, dà
conforto. Forse si spiega così il grande successo che il film ha
avuto anche in Europa e in particolare in Italia (al momento in cui
scrivo è il primo incasso con oltre 18 milioni di euro). Le colonie
sono in sintonia con la capitale dell'impero.