Boyhood
è certamente uno dei migliori film della stagione, pur non essendo
un capolavoro assoluto, come pretende buona parte della critica
americana (100% di score su Metacritic, 98% su Rotten Tomatoes).
Intanto c'è da segnalare la singolarità della genesi. Richard
Linklater lo ha girato in Texas nell'arco di dodici anni, dal 2002 al
2013, per qualche giorno ogni anno, filmando la crescita e le
trasformazioni di un ragazzo, Mason Jr. (Ellar Coltrane), dai sei ai
diciott'anni, fino all'ingresso al college, nel contesto di una
famiglia come tante, con la sorella Samantha (Lorelei Linklater,
figlia del regista) e i genitori separati (Patricia Arquette e Ethan
Hawke). Il tempo, o meglio lo scorrere del tempo, è il tema centrale
del film.
Dal
punto di vista stilistico, l'approccio di Linklater è decisamente
minimalista: nessuna stranezza, nessuna ricercatezza, nessuna voglia
di originalità. La scrittura filmica scorre pacata, tutta al
servizio dei personaggi e delle situazioni, privilegiando i campi
medi e larghi. Altrettanto minimalista è l'approccio alla
narrazione. Il film non ha un vero plot, si limita a inanellare
episodi qualsiasi della vita di una ragazzo e della sua famiglia,
senza punte drammatiche, se si eccettua l'episodio del secondo marito
della madre diventato ubriacone e violento. Da questo punto di vista
Boyhood è un film curiosamente anti-hollywoodiano, malgrado
le numerose nomination all'Oscar. Ma dietro questo minimalismo si
nasconde una grande ambizione: quella di rappresentare la vita così
com'è.
Sappiamo
che nessun film
rappresenta davvero la realtà (il reale del
cinema è il set). La
realtà del film
è di natura immaginaria.
Tuttavia è proprio
attraverso quel complesso meccanismo che si chiama effetto o
impressione di realtà che lo spettatore aderisce e si immedesima in
questa sostanza immaginaria, che allude al reale ma non lo è. Nel
caso di Boyhood
l'effetto di realtà è reso più potente proprio grazie al fatto che
il tempo scorre realmente
sui corpi degli attori: non ci sono trucchi. Da una sequenza
all'altra, senza soluzione di continuità, percepiamo i cambiamenti,
che tuttavia, essendo lenti, non ci appaiono clamorosi ma naturali.
Come non credere che questa è la vita vera, tanto più che somiglia
a milioni di altre vite? E all'obiezione (legittima,
la sottoscrivo) che qua
e là ci sono nel film zone noiose e anche banali, la risposta è:
non è così, noiosa e
banale, fin troppo
spesso, anche la vita vera?
C'è
nel film, ed è questa
la sottile emozione che ci trasmette,
la malinconia del tempo che passa, della vita che ci scorre tra le
dita quasi senza che ce accorgiamo. Tutti
dicono che bisogna cogliere l'attimo, io credo che è l'attimo a
cogliere noi, dice una
ragazza nell'inquadratura finale. Malinconia che può diventare
angoscia, come quando la madre (una bravissima Patricia Arquette), di
fronte al figlio che lascia la casa definitivamente, scoppia in
lacrime e confessa il
suo disagio: dopo
tutta una vita fatta di
figli matrimoni divorzi, cosa resta? Il mio funerale, cazzo! Credevo
ci fosse qualcos'altro. - Ma c'è nel film anche
la consapevolezza che vale comunque la pena di viverla, la vita, e il
modo migliore è stare nel presente, mentre si fa. Così,
prima della dissolvenza finale, Mason
Jr. risponde alla ragazza: hai
ragione, il momento è come se fosse sempre adesso, no? E
intanto, negli sguardi e nei sorrisi appena un po' imbarazzati dei
due ragazzi, leggiamo che qualcosa sta per nascere, forse un nuovo
amore: è la vita che si impone nel tempo
presente.
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