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sabato 7 febbraio 2015

Boyhood, la vita che scorre

Boyhood è certamente uno dei migliori film della stagione, pur non essendo un capolavoro assoluto, come pretende buona parte della critica americana (100% di score su Metacritic, 98% su Rotten Tomatoes). Intanto c'è da segnalare la singolarità della genesi. Richard Linklater lo ha girato in Texas nell'arco di dodici anni, dal 2002 al 2013, per qualche giorno ogni anno, filmando la crescita e le trasformazioni di un ragazzo, Mason Jr. (Ellar Coltrane), dai sei ai diciott'anni, fino all'ingresso al college, nel contesto di una famiglia come tante, con la sorella Samantha (Lorelei Linklater, figlia del regista) e i genitori separati (Patricia Arquette e Ethan Hawke). Il tempo, o meglio lo scorrere del tempo, è il tema centrale del film.

Dal punto di vista stilistico, l'approccio di Linklater è decisamente minimalista: nessuna stranezza, nessuna ricercatezza, nessuna voglia di originalità. La scrittura filmica scorre pacata, tutta al servizio dei personaggi e delle situazioni, privilegiando i campi medi e larghi. Altrettanto minimalista è l'approccio alla narrazione. Il film non ha un vero plot, si limita a inanellare episodi qualsiasi della vita di una ragazzo e della sua famiglia, senza punte drammatiche, se si eccettua l'episodio del secondo marito della madre diventato ubriacone e violento. Da questo punto di vista Boyhood è un film curiosamente anti-hollywoodiano, malgrado le numerose nomination all'Oscar. Ma dietro questo minimalismo si nasconde una grande ambizione: quella di rappresentare la vita così com'è.

Sappiamo che nessun film rappresenta davvero la realtà (il reale del cinema è il set). La realtà del film è di natura immaginaria. Tuttavia è proprio attraverso quel complesso meccanismo che si chiama effetto o impressione di realtà che lo spettatore aderisce e si immedesima in questa sostanza immaginaria, che allude al reale ma non lo è. Nel caso di Boyhood l'effetto di realtà è reso più potente proprio grazie al fatto che il tempo scorre realmente sui corpi degli attori: non ci sono trucchi. Da una sequenza all'altra, senza soluzione di continuità, percepiamo i cambiamenti, che tuttavia, essendo lenti, non ci appaiono clamorosi ma naturali. Come non credere che questa è la vita vera, tanto più che somiglia a milioni di altre vite? E all'obiezione (legittima, la sottoscrivo) che qua e là ci sono nel film zone noiose e anche banali, la risposta è: non è così, noiosa e banale, fin troppo spesso, anche la vita vera?

C'è nel film, ed è questa la sottile emozione che ci trasmette, la malinconia del tempo che passa, della vita che ci scorre tra le dita quasi senza che ce accorgiamo. Tutti dicono che bisogna cogliere l'attimo, io credo che è l'attimo a cogliere noi, dice una ragazza nell'inquadratura finale. Malinconia che può diventare angoscia, come quando la madre (una bravissima Patricia Arquette), di fronte al figlio che lascia la casa definitivamente, scoppia in lacrime e confessa il suo disagio: dopo tutta una vita fatta di figli matrimoni divorzi, cosa resta? Il mio funerale, cazzo! Credevo ci fosse qualcos'altro. - Ma c'è nel film anche la consapevolezza che vale comunque la pena di viverla, la vita, e il modo migliore è stare nel presente, mentre si fa. Così, prima della dissolvenza finale, Mason Jr. risponde alla ragazza: hai ragione, il momento è come se fosse sempre adesso, no? E intanto, negli sguardi e nei sorrisi appena un po' imbarazzati dei due ragazzi, leggiamo che qualcosa sta per nascere, forse un nuovo amore: è la vita che si impone nel tempo presente.