La canzone di Marcello, un documentario con Marcello Colasurdo, è visibile su youtube a questo indirizzo.
Ho girato questo film tra il 2004 e il 2006, filmando buona parte del materiale io stesso con la camera a mano. E’ un ritratto, per così dire, schizzato a matita dell’artista e del personaggio, un omaggio affettuoso e molto personale a Marcello, cui mi lega un’amicizia ormai più che trentennale.
Di seguito una scheda completa del film.
Regia, riprese, montaggio: Salvatore Piscicelli
Riprese aggiunte: Timoty Aliprandi, Saverio Guarna, Huub Nijhuis
Assistente al montaggio: Cristiana Cerrini
Musiche: Marcello Colasurdo e Paranza
Genere: documentario
Durata: 51’
Formato: DV, 4:3 – colore e b/n
Produzione: Carla Apuzzo per Falco Film – Italia, 2006
Con la simpatia umana e la carica comunicativa che lo hanno reso così popolare presso il pubblico di Napoli e della Campania, Marcello ci racconta la sua storia e le sue esperienze, gli incontri con Fellini e Peter Gabriel. Ci parla della politica, della fabbrica, della camorra, della dro
ga, della globalizzazione, della pace e della guerra. Ci conduce, quasi da sacerdote laico, in alcuni luoghi di pellegrinaggio dove si esprime quella religiosità popolare che ha ancora radici pagane. Lo vediamo mentre anima una discussione politica o una festa o quando trasmette l’arte della tammorra e la tradizione orale ai ragazzi del quartiere popolare dove vive. Lo seguiamo con la sua Paranza mentre canta e suona nelle piazze e sui palchi.
Arricchito da materiale degli anni Settanta, il film offre un ritratto a molte facce, denso di musica e di calore umano, di un artista autenticamente popolare.
Chi è Marcello Colasurdo
Di umili origini, Marcello trascorre l’infanzia in diversi collegi, prima a Napoli e poi nelle Marche. Verso i 12 anni, la madre lo riprende con sé. La famiglia è molto povera. Vivono in un “basso” in fondo a un cortile della vecchia Pomigliano: un’unica stanza in cui si cucina, si mangia, si dorme; il servizio igienico è fuori, in comune con gli altri bassi.
In collegio, Marcello ha conseguito la quinta elementare. Ora si arrangia, come tanti ragazzi po
veri della sua età, facendo i lavori più svariati: garzone di barbiere o di bar, raccoglitore di patate e d’altro in campagna, cantante di matrimoni… Sono questi gli anni della formazione musicale da autodidatta, a contatto col ricco tessuto culturale, contadino essenzialmente, che ancora sopravvive a Pomigliano d’Arco, che in quegli anni si è trasformato nel più grande polo industriale del meridione.
Nel 1975 è tra i fondatori del Gruppo Operaio “’E Zezi”. Animato da Angelo De Falco, il Gruppo è tra i primi a operare un recupero della tradizione musicale contadina in una chiave di forte consapevolezza politica e sociale.
Intanto Marcello partecipa alle dure lotte sociali di quel periodo, in particolare con i disoccupati organizzati. Consegue la licenza media, indispensabile per trovare un lavoro decente, e infine, nel 1980, a 25 anni, entra in fabbrica, all’Alenia, come operaio addetto alle pulizie. Vi resterà fino alla metà degli anni Novanta, pur continuando a lavorare e a tenere concerti con i Zezi.
Nel 1996, fonda il suo gruppo, “Marcello Colasurdo e Paranza”, con il quale produce un disco e tiene moltissimi concerti. Nel 2000, incide per l’etichetta inglese Real World Records di Peter Gabriel un CD, “Lost Souls” (“Aneme perze”), con il gruppo Spaccanapoli, con il quale continua a tenere concerti, soprattutto all’estero. Ha collaborato con tanti musicisti (Almamegretta, 99 Posse, Daniele Sepe, Nuova Compagnia di Canto Popolare, Maurizio Capone…), ha recitato in teatro (con Martone, Pressburger…) e al cinema (oltre che con Piscicelli, con Fellini – “Intervista” del 1987 - e poi con Capuano, De Bernardi, De Lillo). La ricchezza di questa esperienza fa sì che Marcello si trovi a suo agio in qualsiasi contesto: dai teatri tradizionali alle piazze di mezzo mondo, dalle feste popolari ai centri sociali, con artisti tradizionali e artisti d’avanguardia.
La tradizione musicale
La musica popolare, di cui Marcello è interprete principe, ha poco a che vedere con la pur straordinaria tradizione canzonettistica partenopea (anche se ne ingloba la parte più “paesana”). Essa è espressione diretta, e principale, della tradizionale cultura contadina dell’entroterra napoletano, legata al ciclo stagionale dei lavori e al calendario religioso, in particolar modo alle feste in onore delle varie Madonne Nere, eredi cristiane delle antiche divinità femminili della prosperità e dell’abbondanza. E’ una tradizione ricca di forme – canto libero (voce a fronne), canzone propriamente detta, rituali, tammurriate, fiabe cantate, vari tipi di danze, vere e proprie azioni teatrali (come la celebre “Canzone di Zeza”, che si recita a Carnevale con interpreti “en travesti”). Gli strumenti fondamentali sono la voce e la tammorra - il tradizionale tamburo che viene ancora costruito secondo le vecchie regole, spesso dagli stessi esecutori – cui si affiancano altri ingegnosi elementi percussivi (putipù, scetavajasse, ecc.) nonché, di volta in volta, chitarra, mandolino, fisarmonica, pifferi, ecc. E’ una musica dalla forte carica sensuale e partecipativa, che stimola immediatamente il movimento e la danza sfrenata; il che spiega il successo che sta ottenendo in questi anni presso il pubblico giovanile, che pure è così lontano dalle sue radici. In essa non è difficile avvertire echi arcaici, ma anche mediorientali e nordafricani. Negli ultimi decenni, questa musica, pur conservando il suo assetto tradizionale, è stata capace di contaminarsi con contenuti nuovi, legati alle lotte sociali e politiche, e di dialogare con altre forme musicali, come il jazz, il rock e il pop, in un movimento che riflette il processo sociale e culturale che sta alla base del suo recupero.
mercoledì 18 marzo 2015
venerdì 13 marzo 2015
Dai curdi una lezione di democrazia dal basso
La vittoria delle Forze di autodifesa curde (YPG) sulle bande dell'ISIS a Kobane ha portato all'attenzione dei media occidentali la guerra di resistenza del popolo curdo nella regione di Rojava, nel nord della Siria, di fatto autonoma dal regime siriano da diversi anni. Stretta tra l'ISIS al sud e la Turchia al nord (che ha chiuso la frontiera determinando una situazione di embargo), la regione è governata da una coalizione di partiti tra i quali spicca come forza maggiore il Partito d'Unione Democratica (PYD), ala siriana del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK).
Ma in cosa consista questo governo è assai meno noto. Pur nel difficile contesto di una guerra, i curdi stanno provando a costruire un modello di democrazia dal basso fondato su assemblee autonome, in una strutturazione a piramide, dove conta il voto individuale indipendentemente dall'etnia, dalla religione o dal genere. Le decisioni relative all'economia, alla sicurezza, alla giustizia ecc. passano attraverso queste assemblee. Un modello politico-organizzativo dove, peraltro, le donne, che si sono distinte anche sul terreno militare, hanno un ruolo centrale.
Tutto comincia dalla svolta ideologica impressa dal leader indiscusso del PKK Abdullah Ocalan. Catturato nel 1999 a Nairobi, proveniente da Roma, fu condannato a morte; successivamente la pena fu commutata in ergastolo quando la Turchia, sotto la spinta dell'Europa, abolì la pena di morte. Il caso fece scalpore anche in Italia. Il governo D'Alema infatti si rifiutò di concedergli l'asilo politico, costringendolo a partire. Attualmente il leader del PKK è detenuto nell'isola-prigione di Imrali, nel Mar di Marmara.
Nell'isolamento carcerario, Ocalan ha messo in discussione le radici marxiste-leniniste della propria ideologia, sotto l'influsso in particolare delle teorie dell'anarchico americano Murray Bookchin, proponendo quello che definisce un "confederalismo democratico", dove la soluzione del problema curdo all'interno della Turchia si prospetta attraverso una democratizzazione dal basso della società, aperta a tutte le etnie con, in prospettiva, una rottura degli stessi confini statali in Medio Oriente, in gran parte artificiali.
Murray Bookchin è un anarchico americano, anche lui con giovanili radici marxiste. A partire dagli anni Cinquanta egli sviluppa una riflessione molto originale lungo due direttrici: l'ecologia sociale, per la quale i problemi ambientali hanno radice nella mancata soluzione dei problemi sociali all'interno del capitalismo; e il municipalismo libertario, con un tentativo di elaborare una teoria e una prassi di democrazia assembleare.
Una strana coppia quella di Ocalan e di Murray, l'ex guerrigliero marxista-leninista e l'anarchico ecologista e strenuamente libertario. Nel 2004 Ocalan fece contattare Murray dai suoi avvocati ma lui, già malato, non riuscì a incontrarlo. Morì due anni dopo. In diverse assemblee generali il PKK ha reso omaggio a Murray e al suo pensiero.
Insomma, sembrerebbe che i curdi abbiano intrapreso una strada volta a superare al tempo stesso il vecchio modello del socialismo statalista e autoritario e quello altrettanto vecchio della ormai corrotta democrazia rappresentativa. Una grande lezione per tutti.
Ma in cosa consista questo governo è assai meno noto. Pur nel difficile contesto di una guerra, i curdi stanno provando a costruire un modello di democrazia dal basso fondato su assemblee autonome, in una strutturazione a piramide, dove conta il voto individuale indipendentemente dall'etnia, dalla religione o dal genere. Le decisioni relative all'economia, alla sicurezza, alla giustizia ecc. passano attraverso queste assemblee. Un modello politico-organizzativo dove, peraltro, le donne, che si sono distinte anche sul terreno militare, hanno un ruolo centrale.
Tutto comincia dalla svolta ideologica impressa dal leader indiscusso del PKK Abdullah Ocalan. Catturato nel 1999 a Nairobi, proveniente da Roma, fu condannato a morte; successivamente la pena fu commutata in ergastolo quando la Turchia, sotto la spinta dell'Europa, abolì la pena di morte. Il caso fece scalpore anche in Italia. Il governo D'Alema infatti si rifiutò di concedergli l'asilo politico, costringendolo a partire. Attualmente il leader del PKK è detenuto nell'isola-prigione di Imrali, nel Mar di Marmara.
Nell'isolamento carcerario, Ocalan ha messo in discussione le radici marxiste-leniniste della propria ideologia, sotto l'influsso in particolare delle teorie dell'anarchico americano Murray Bookchin, proponendo quello che definisce un "confederalismo democratico", dove la soluzione del problema curdo all'interno della Turchia si prospetta attraverso una democratizzazione dal basso della società, aperta a tutte le etnie con, in prospettiva, una rottura degli stessi confini statali in Medio Oriente, in gran parte artificiali.
Murray Bookchin è un anarchico americano, anche lui con giovanili radici marxiste. A partire dagli anni Cinquanta egli sviluppa una riflessione molto originale lungo due direttrici: l'ecologia sociale, per la quale i problemi ambientali hanno radice nella mancata soluzione dei problemi sociali all'interno del capitalismo; e il municipalismo libertario, con un tentativo di elaborare una teoria e una prassi di democrazia assembleare.
Una strana coppia quella di Ocalan e di Murray, l'ex guerrigliero marxista-leninista e l'anarchico ecologista e strenuamente libertario. Nel 2004 Ocalan fece contattare Murray dai suoi avvocati ma lui, già malato, non riuscì a incontrarlo. Morì due anni dopo. In diverse assemblee generali il PKK ha reso omaggio a Murray e al suo pensiero.
Insomma, sembrerebbe che i curdi abbiano intrapreso una strada volta a superare al tempo stesso il vecchio modello del socialismo statalista e autoritario e quello altrettanto vecchio della ormai corrotta democrazia rappresentativa. Una grande lezione per tutti.
mercoledì 4 marzo 2015
Inherent Vice
Era da molto tempo che non mi divertivo così tanto al cinema. Inherent Vice di Paul Thomas Anderson (Vizio di Forma in Italia) è pieno zeppo di trovate e di battute formidabili, puro piacere, come farsi un joint di buona erba e ridersela del mondo. Questa è la prima cosa da dire.
Come il romanzo di Thomas Pynchon da cui è tratto, il film è un omaggio ai noir di Hammet e Chandler. In quelle trame intricate e confuse (viene in mente il groviglio o garbuglio di Gadda) si rifletteva l'immagine di un'America complicata, contraddittoria, indecifrabile. Anderson espande ulteriormente questo modello e lo fa esplodere, sfruttando l'immaginazione dissacratoria di Pynchon. Ma dentro questo vortice prende forma una riflessione tagliente sulla politica e sulla storia, oltre che sul linguaggio.
Inherent Vice rievoca con sommo divertimento e gusto dei dettagli la controcultura hippy (e non solo) americana, californiana in specie, degli anni sessanta. Lo fa con una certa sacrosanta nostalgia ma anche interrogandosi, appunto, su quel vizio intrinseco che ne ha decretato lo stravolgimento becero prima, e il fallimento poi, di fronte alla controparte rappresentata dai potenti, dagli speculatori, dai razzisti, dai poliziotti eccetera.
Il fatto è che tra cultura dominante e controcultura viene a crearsi, da un certo momento in poi, più di un legame, più di una consonanza, le due parti cominciano a confondersi. Doc Sportello e il poliziotto "Bigfoot" si somigliano più di quanto siamo disposti ad ammettere, anche se noi, è ovvio, continuiamo a preferire Doc. Così la fricchettona Shasta si innamora di un palazzinaro, il cazzuto Bigfoot è messo in riga dalla moglie, lo strafatto Doc rinuncia a un bel gruzzolo per far sì che si ricomponga una famigliola felice e disintossicata; e così via. Le parti si rovesciano in continuazione, nulla è quel che sembra. E' la paranoia, paradigma dell'America. Ieri come oggi.
Questo ci racconta Il film, e il romanzo prima del film. Si credeva che il mondo potesse cambiare in meglio e invece succede il contrario. E' accaduto in America, è accaduto da noi. Il perché è difficile da spiegare, e comunque la risposta non può essere univoca.
Ma né Anderson né Pynchon ci invitano al catastrofismo. Le belle stagioni possono ritornare, ritornano, e in ogni caso occorre sempre provarci.
Come il romanzo di Thomas Pynchon da cui è tratto, il film è un omaggio ai noir di Hammet e Chandler. In quelle trame intricate e confuse (viene in mente il groviglio o garbuglio di Gadda) si rifletteva l'immagine di un'America complicata, contraddittoria, indecifrabile. Anderson espande ulteriormente questo modello e lo fa esplodere, sfruttando l'immaginazione dissacratoria di Pynchon. Ma dentro questo vortice prende forma una riflessione tagliente sulla politica e sulla storia, oltre che sul linguaggio.
Inherent Vice rievoca con sommo divertimento e gusto dei dettagli la controcultura hippy (e non solo) americana, californiana in specie, degli anni sessanta. Lo fa con una certa sacrosanta nostalgia ma anche interrogandosi, appunto, su quel vizio intrinseco che ne ha decretato lo stravolgimento becero prima, e il fallimento poi, di fronte alla controparte rappresentata dai potenti, dagli speculatori, dai razzisti, dai poliziotti eccetera.
Il fatto è che tra cultura dominante e controcultura viene a crearsi, da un certo momento in poi, più di un legame, più di una consonanza, le due parti cominciano a confondersi. Doc Sportello e il poliziotto "Bigfoot" si somigliano più di quanto siamo disposti ad ammettere, anche se noi, è ovvio, continuiamo a preferire Doc. Così la fricchettona Shasta si innamora di un palazzinaro, il cazzuto Bigfoot è messo in riga dalla moglie, lo strafatto Doc rinuncia a un bel gruzzolo per far sì che si ricomponga una famigliola felice e disintossicata; e così via. Le parti si rovesciano in continuazione, nulla è quel che sembra. E' la paranoia, paradigma dell'America. Ieri come oggi.
Questo ci racconta Il film, e il romanzo prima del film. Si credeva che il mondo potesse cambiare in meglio e invece succede il contrario. E' accaduto in America, è accaduto da noi. Il perché è difficile da spiegare, e comunque la risposta non può essere univoca.
Ma né Anderson né Pynchon ci invitano al catastrofismo. Le belle stagioni possono ritornare, ritornano, e in ogni caso occorre sempre provarci.
mercoledì 25 febbraio 2015
"Le ragazze del Settantacinque" di Carla Apuzzo
Sono lieto di annunciare che è uscito in ebook il primo romanzo di Carla Apuzzo, Le ragazze del Settantacinque. Ecco un breve scheda del libro.
Nell'estate del 1975 quattro giovani amiche che frequentano l'università e lavorano a Roma, entrate contemporaneamente in crisi con i rispettivi compagni, decidono di partire con una vecchia 500 per fare una vacanza in campeggio, da sole, decise ad affermare la propria autonomia. Dal racconto in prima persona di una di loro, che inizia con gli antefatti del viaggio, emergono le storie e gli intrecci sentimentali, le piccole avventure, i numerosi incontri che faranno durante la vacanza, gli scontri e le discussioni che ne derivano: un affresco ricco di dettagli che vuole restituire il clima di quegli anni di libertà sessuale, entusiasmi e ribellioni, lotta politica e presa di coscienza delle donne, in una chiave divertente e ironica, tutta al femminile.
Carla Apuzzo. Sceneggiatrice di film quali Immacolata e Concetta, Le occasioni di Rosa, Blues metropolitano, Il corpo dell'anima, fotografa, documentarista, autrice di testi teatrali, produttrice cinematografica, nonché regista di Rose e pistole, una commedia nera presentata al Festival di Berlino e in moltre altre rassegne cinematografiche internazionali. Vive e lavora a Roma.
A proposito del suo libro ha scritto Carla su Facebook:
Le ragazze del settantacinque è un romanzo che nasce da una riflessione maturata nel tempo sugli anni '70 e su come sono stati raccontati alle generazioni successive da parte della maggior parte dei mass media. Dopo l'uscita del film “Anni di piombo” di Margarethe Von Trotta, nel 1981, tutto quel periodo storico di lotte e di grandi conquiste è stato identificato sempre più frequentemente con quella definizione cupa e opprimente.
Bene, io non la penso affatto così.
Questo romanzo vuole cercare di raccontare, attraverso la storia di un gruppo di ragazze che vivevano e partecipavano in prima persona alle grandi battaglie politiche di quei tempi e a quelle, non meno dure, con l'altra età del cielo, tutto l'entusiasmo, la vitalità e l'allegria che hanno caratterizzato un periodo irripetibile della storia del nostro paese. Un periodo in cui le donne, partendo da uno stato di soggezione e di inferiorità, oltre che di grande conformismo, sono state le protagoniste assolute di cambiamenti epocali che hanno contribuito a trasformare profondamente un paese cattolico e bigotto come l'Italia.
Da parte mia dirò che Carla è riuscita a trovare il tono giusto, ironico e spavaldo, per la voce femminile che parla nel libro, come se emergesse da quel tempo viva e presente. Chi era giovane in quegli anni non potrà non riconoscerne l'autenticità. Per chi invece quegli anni non li ha vissuti il romanzo costituirà una vera scoperta: gli anni '70 come non ve li hanno mai raccontati.
Aggiungo che Le ragazze del Settantacinque è un romanzo molto divertente; non per caso Carla è l'autrice del film Rose e pistole, una delle più belle commedie nere del cinema italiano (critica dixit).
Il libro è acquistabile, al prezzo (politico, dice Carla) di 1,99 euro, in tutti gli store on line, ad esempio qui e qui.
Nell'estate del 1975 quattro giovani amiche che frequentano l'università e lavorano a Roma, entrate contemporaneamente in crisi con i rispettivi compagni, decidono di partire con una vecchia 500 per fare una vacanza in campeggio, da sole, decise ad affermare la propria autonomia. Dal racconto in prima persona di una di loro, che inizia con gli antefatti del viaggio, emergono le storie e gli intrecci sentimentali, le piccole avventure, i numerosi incontri che faranno durante la vacanza, gli scontri e le discussioni che ne derivano: un affresco ricco di dettagli che vuole restituire il clima di quegli anni di libertà sessuale, entusiasmi e ribellioni, lotta politica e presa di coscienza delle donne, in una chiave divertente e ironica, tutta al femminile.
Carla Apuzzo. Sceneggiatrice di film quali Immacolata e Concetta, Le occasioni di Rosa, Blues metropolitano, Il corpo dell'anima, fotografa, documentarista, autrice di testi teatrali, produttrice cinematografica, nonché regista di Rose e pistole, una commedia nera presentata al Festival di Berlino e in moltre altre rassegne cinematografiche internazionali. Vive e lavora a Roma.
A proposito del suo libro ha scritto Carla su Facebook:
Le ragazze del settantacinque è un romanzo che nasce da una riflessione maturata nel tempo sugli anni '70 e su come sono stati raccontati alle generazioni successive da parte della maggior parte dei mass media. Dopo l'uscita del film “Anni di piombo” di Margarethe Von Trotta, nel 1981, tutto quel periodo storico di lotte e di grandi conquiste è stato identificato sempre più frequentemente con quella definizione cupa e opprimente.
Bene, io non la penso affatto così.
Questo romanzo vuole cercare di raccontare, attraverso la storia di un gruppo di ragazze che vivevano e partecipavano in prima persona alle grandi battaglie politiche di quei tempi e a quelle, non meno dure, con l'altra età del cielo, tutto l'entusiasmo, la vitalità e l'allegria che hanno caratterizzato un periodo irripetibile della storia del nostro paese. Un periodo in cui le donne, partendo da uno stato di soggezione e di inferiorità, oltre che di grande conformismo, sono state le protagoniste assolute di cambiamenti epocali che hanno contribuito a trasformare profondamente un paese cattolico e bigotto come l'Italia.
Da parte mia dirò che Carla è riuscita a trovare il tono giusto, ironico e spavaldo, per la voce femminile che parla nel libro, come se emergesse da quel tempo viva e presente. Chi era giovane in quegli anni non potrà non riconoscerne l'autenticità. Per chi invece quegli anni non li ha vissuti il romanzo costituirà una vera scoperta: gli anni '70 come non ve li hanno mai raccontati.
Aggiungo che Le ragazze del Settantacinque è un romanzo molto divertente; non per caso Carla è l'autrice del film Rose e pistole, una delle più belle commedie nere del cinema italiano (critica dixit).
Il libro è acquistabile, al prezzo (politico, dice Carla) di 1,99 euro, in tutti gli store on line, ad esempio qui e qui.
venerdì 20 febbraio 2015
Roma da (ri)scoprire Un capolavoro della scultura barocca
In Largo Magnanapoli, all'angolo della Salita del Grillo, si può ammirare la facciata classicheggiante, di gusto maderniano, della chiesa di Santa Caterina da Siena, con alle spalle l'imponente Torre delle Milizie. Vi si accede da una doppia scalinata aggiunta poco dopo l'unità d'Italia poiché l'apertura di Via Nazionale comportò l'abbassamento del livello stradale. Costruita tra il 1628 e il 1641 dall'architetto Giovanni Battista Soria per le terziarie domenicane, attualmente è la chiesa madre dell'Ordinariato Militare (l'organismo cui fanno capo i cappellani militari), la cui sede è poco oltre sulla Salita del Grillo.
Superato il portico, che ospita due grandi statue di San Domenico e Santa Caterina, opere di Francesco De Rossi, si entra nell'interno barocco, a navata unica con tre cappelle per lato, di belle linee e ricca decorazione. Ma il vero gioiello che custodisce la chiesa si trova sulla parete centrale del presbiterio ed è un altorilievo dell'artista maltese Melchiorre Cafà, l'Estasi di Santa Caterina da Siena.
La bianca figura della santa spicca quasi a tutto tondo in mezzo alle nuvole abitate da angeli e putti, con lo sguardo rivolto misticamente al cielo, creando un bell'effetto pittorico grazie al contrasto col fondo di marmo policromo incorniciato da quattro colonne in marmo bianco e nero. L'esecuzione è di grande finezza e non si può non pensare, osservando certi dettagli (le mani, le vesti), all'Estasi di Santa Teresa di Bernini (del resto l'opera fu attribuita per un certo tempo proprio a quest'ultimo). Ma pur lavorando in quella scia, Cafà stempera l'irrequieta lezione berniniana con un più pacato classicismo, forse sotto l'influenza dello stile di Alessandro Algardi.
Melchiorre Cafà nasce a Malta nel 1636. Si trasferisce a Roma nel 1658 e comincia a lavorare nella bottega di Ercole Ferrata, allievo e collaboratore dell'Algardi. Lavora a diverse commesse ma riesce a terminare soltanto due opere importanti, l'altorilievo di Santa Caterina e una statua di Santa Rosa da Lima, poi trasferita in Perù. Muore infatti prematuramente nel 1667 a causa di un incidente di lavoro nelle fonderie di San Pietro.
Superato il portico, che ospita due grandi statue di San Domenico e Santa Caterina, opere di Francesco De Rossi, si entra nell'interno barocco, a navata unica con tre cappelle per lato, di belle linee e ricca decorazione. Ma il vero gioiello che custodisce la chiesa si trova sulla parete centrale del presbiterio ed è un altorilievo dell'artista maltese Melchiorre Cafà, l'Estasi di Santa Caterina da Siena.
La bianca figura della santa spicca quasi a tutto tondo in mezzo alle nuvole abitate da angeli e putti, con lo sguardo rivolto misticamente al cielo, creando un bell'effetto pittorico grazie al contrasto col fondo di marmo policromo incorniciato da quattro colonne in marmo bianco e nero. L'esecuzione è di grande finezza e non si può non pensare, osservando certi dettagli (le mani, le vesti), all'Estasi di Santa Teresa di Bernini (del resto l'opera fu attribuita per un certo tempo proprio a quest'ultimo). Ma pur lavorando in quella scia, Cafà stempera l'irrequieta lezione berniniana con un più pacato classicismo, forse sotto l'influenza dello stile di Alessandro Algardi.
Melchiorre Cafà nasce a Malta nel 1636. Si trasferisce a Roma nel 1658 e comincia a lavorare nella bottega di Ercole Ferrata, allievo e collaboratore dell'Algardi. Lavora a diverse commesse ma riesce a terminare soltanto due opere importanti, l'altorilievo di Santa Caterina e una statua di Santa Rosa da Lima, poi trasferita in Perù. Muore infatti prematuramente nel 1667 a causa di un incidente di lavoro nelle fonderie di San Pietro.
martedì 17 febbraio 2015
La pietosa pazienza degli oppressi
Da un rapporto Oxfam diffuso nel gennaio 2015 si ricava che:
- L’1% della popolazione mondiale detiene il 48% della ricchezza mondiale, il 99% si divide il restante 52%. Buona parte di questo 52% è detenuto dal 20% più ricco, sicché all'80% della popolazione mondiale non resta che il 5,5%.
- Il reddito dell’1% dei più ricchi del mondo ammonta a 110.000 miliardi di dollari, 65 volte il totale della ricchezza della metà della popolazione più povera del mondo.
- Il reddito di 85 super ricchi equivale a quello di metà della popolazione mondiale ed è aumentato negli ultimi quattro anni del 50%
- 7 persone su 10 vivono in paesi dove la disuguaglianza economica è aumentata negli ultimi 30 anni.
- L’1% dei più ricchi ha aumentato la propria quota di reddito in 24 su 26 dei paesi con dati analizzabili tra il 1980 e il 2012.
- Negli USA, l’1% dei più ricchi ha intercettato il 95% delle risorse a disposizione dopo la crisi finanziaria del 2009, mentre il 90% della popolazione si è impoverito.
- Si stima in 21.000 miliardi di dollari la ricchezza nascosta nei paradisi fiscali e sottratta al fisco.
Una mostruosa disuguaglianza che genera fame, malattie, morte. "Questa economia uccide," ha detto papa Bergoglio recentemente. Come dargli torto?
Ma la domanda è: perché i poveri non si ribellano?
Ha scritto Aldous Huxley in un saggio del 1930: "La pietosa pazienza degli oppressi rappresenta forse il fenomeno più inesplicabile e nel contempo più rilevante di tutta la storia."
- L’1% della popolazione mondiale detiene il 48% della ricchezza mondiale, il 99% si divide il restante 52%. Buona parte di questo 52% è detenuto dal 20% più ricco, sicché all'80% della popolazione mondiale non resta che il 5,5%.
- Il reddito dell’1% dei più ricchi del mondo ammonta a 110.000 miliardi di dollari, 65 volte il totale della ricchezza della metà della popolazione più povera del mondo.
- Il reddito di 85 super ricchi equivale a quello di metà della popolazione mondiale ed è aumentato negli ultimi quattro anni del 50%
- 7 persone su 10 vivono in paesi dove la disuguaglianza economica è aumentata negli ultimi 30 anni.
- L’1% dei più ricchi ha aumentato la propria quota di reddito in 24 su 26 dei paesi con dati analizzabili tra il 1980 e il 2012.
- Negli USA, l’1% dei più ricchi ha intercettato il 95% delle risorse a disposizione dopo la crisi finanziaria del 2009, mentre il 90% della popolazione si è impoverito.
- Si stima in 21.000 miliardi di dollari la ricchezza nascosta nei paradisi fiscali e sottratta al fisco.
Una mostruosa disuguaglianza che genera fame, malattie, morte. "Questa economia uccide," ha detto papa Bergoglio recentemente. Come dargli torto?
Ma la domanda è: perché i poveri non si ribellano?
Ha scritto Aldous Huxley in un saggio del 1930: "La pietosa pazienza degli oppressi rappresenta forse il fenomeno più inesplicabile e nel contempo più rilevante di tutta la storia."
lunedì 16 febbraio 2015
"La religione del capitale" di Paul Lafargue
La casa editrice
Mimesis ha recentemente pubblicato la traduzione italiana di un'opera
di Paul Lafargue, La religione del capitale (La religion du
Capital, 1887). Operazione doppiamente meritoria: perché offre
al pubblico italiano un testo premonitore dell'attuale fase globalizzata e totalitaria del capitalismo e perché riporta l'attenzione su un
grande rivoluzionario dell'Ottocento.
L'autore inizia col
descrivere un immaginario congresso internazionale svoltosi a Londra
con la partecipazione della élite del mondo politico, industriale,
finanziario ed ecclesiastico. Scopo dell'incontro è fermare la
diffusione delle idee socialiste. Per riuscirci, occorre che si
riconosca nel capitalismo una legge naturale e universale, una vera e
propria religione, che sostituisca tutte le altre, con al centro il
nuovo Dio, il Capitale appunto, cui tutti devono sottomettersi. Nei
capitoli successivi l'autore ci sottopone una parte del “corpo dottrinale” elaborato dal congresso:Il catechismo dei
lavoratori, Il sermone della cortigiana, L’Ecclesiaste
o Il libro dei capitalisti, Preghiere capitaliste e
Lamentazioni di Job Rothschild il capitalista.
La
chiave ironica e grottesca del pamphlet non
deve ingannare. Lafargue spiega bene come il capitalismo ha bisogno,
per sopravvivere, di proporsi come ideologia totalizzante ed
esclusiva, pervasiva di ogni
aspetto della vita sociale e individuale, una forma religiosa
appunto, un meccanismo di sottomissione psicologica e materiale al
tempo stesso, che rende
impossibile anche solo immaginare una prospettiva
diversa.
E'
interessante notare come la critica di Lafargue trovi una eco
straordinaria in un denso frammento teorico di Walter Benjamin del
1921, Capitalismo come
religione, dove “il
capitalismo è presentato come una religione puramente cultuale, che
tende a reiterare all’infinito un meccanismo di indebitamento e di
colpevolizzazione da cui non può esserci scampo”
(vedi il volume, anch'esso di recente pubblicazione, edito da
Quodlibet, Il culto del capitale. Walter Benjamin:capitalismo e religione).
Paul
Lafargue è l'autore di un altro pamphlet fondamentale, scritto
in carcere, Il diritto alla pigrizia (Le
droit à la paresse, 1880),
forse il testo marxista più tradotto e diffuso dopo Il
Manifesto di Marx-Engels,
una critica radicale di ogni
forma di etica del lavoro, dove si ribadisce che qualsiasi
prospettiva di emancipazione non può prescindere dalla necessità di
liberare l'uomo dal fardello del lavoro.
Il
libro si apre con una citazione di Lessing (“Oziamo in
tutte le cose, tranne quando amiamo e beviamo, tranne
quando oziamo”) e prosegue
così: “Una strana follia possiede le classi operaie
delle nazioni dove regna la civiltà capitalistica. Questa follia
trascina al suo seguito miserie individuali e sociali che da due
secoli torturano la triste umanità. Questa follia è l'amore
del lavoro, la passione mortale del
lavoro, spinta fino all'esaurimento delle forze vitali dell'individuo
e della sua progenie.”
Nella visione
politica di Paul Lafargue c'è una vena anarchica che lo rende speciale: lo stesso
Marx lo definiva l'ultimo dei bakuninisti. Nasce a
Santiago de Cuba nel 1842 da una famiglia in parte creola e in parte
ebraica. Esiliato a Londra, conosce Marx e nel 1868 ne sposa la
seconda figlia, Laura. Insieme alla moglie, è un formidabile
propagandista del comunismo in Francia e Spagna. Attivista della
Prima Internazionale, prende parte alla Comune di Parigi ed è tra i
fondatori del Partito operaio francese. Nel 1896 Laura riceve in
eredità una parte della fortuna di Engels e i due coniugi si
ritirano in campagna, nei pressi di Parigi, pur continuando la
battaglia politica.
La sera del 26
novembre 1911, dopo essere stati in città a vedere un film, Laura e
Paul Lafargue si suicidano con una iniezione di acido cianidrico. Nel
testamento Lafargue lascia scritto: “Sano di corpo e di spirito, mi
uccido prima che l'impietosa vecchiaia mi tolga uno a uno i piaceri e
le gioie dell'esistenza e mi spogli delle forze fisiche e
intellettuali. Affinché la vecchiaia non paralizzi la mia energia,
non spezzi la mia volontà e non mi renda un peso per me e per gli
altri.”
Laura e Paul sono sepolti al Père Lachaise, presso il cosiddetto Muro dei federati, dove il 28 maggio 1871,
durante la repressione della Comune, centinaia di insorti
furono fucilati e sepolti in una fossa comune.venerdì 13 febbraio 2015
"Il corpo dell'anima" alla sala Trevi, variazione di programma
Variazione di programma alla sala Trevi, vicolo del Puttarello, per il giorno 14 febbraio. La proiezione del film di Salvatore Piscicelli Il corpo dell'anima avrà luogo alle ore 18.45. Seguirà alle 20.45 un incontro con il regista sul tema della precarietà in amore con la partecipazione degli analisti Fabio Castriota e Carla Dugo Visco, secondo appuntamento quest'anno della rassegna "cinema e psicoanalisi" organizzata dalla Cineteca Nazionale e dalla Società Psicoanalitica Italiana. Alla fine dell'incontro seguirà la proiezione del film Ultimo Tango a Parigi di Bernardo Bertolucci. Nel pomeriggio, ore 17, proiezione del film Comizi d'amore di Pier Paolo Pasolini. L'ingresso è libero.
Roma da (ri)scoprire San Silvestro al Quirinale
Nei miei frequenti vagabondaggi di esplorazione del patrimonio artistico romano, mi capita di scovare cose che non conoscevo o di riscoprire cose che avevo visto magari decenni addietro. Con questo post inauguro una sorta di rubrica per condividere queste (ri)scoperte.
Scendendo
da Piazza del Quirinale verso Largo Magnanapoli lungo via XXIV
Maggio, si nota sulla destra la facciata di una chiesa di fattura
ottocentesca ma di gusto tardo rinascimentale. Si tratta di un
elemento puramente decorativo, il portale infatti è finto. Ma la
chiesa c'è, si chiama San Silvestro al Quirinale ed è
situata a circa nove metri sopra il livello della strada. Per
accedervi occorre imboccare la porta a sinistra della facciata e
salire una bella scala piuttosto ripida.
Negli
anni Settanta dell'Ottocento, nel quadro della sistemazione
urbanistica di tutta la zona con l'apertura di via Nazionale, il
livello stradale fu abbassato e allo scopo di allargare via XXIV
Maggio fu demolita la facciata originale della chiesa con le prime
due cappelle. La facciata che vediamo ora, deturpata dalle polveri
dello smog, è opera dell'architetto Andrea Busiri Vici.
La
costruzione di San Silvestro, su un precedente manufatto medioevale,
fu iniziata dai domenicani nel 1524. Una
quarantina di anni dopo la chiesa passò ai padri teatini, che la
ristrutturarono completamente. E' a croce latina a navata unica con
un presbiterio molto profondo.
Dalla
scala si entra nel transetto sinistro e la prima impressione è
abbagliante per la
ricchezza delle decorazioni. L'occhio vola subito al magnifico
soffitto a cassettoni della
navata con scene bibliche
e ai
begli affreschi della volta del presbiterio dove
si notano due piccole
cupole in trompe-l'oeil. Nell'insieme
prevalgono l'oro e i colori pieni e scuri, in un'atmosfera di grande
suggestione. La chiesa
ospita opere di numerosi artisti quali il Cavalier d'Arpino, Polidoro
da Caravaggio, Jacopo Zucchi. Le
cappelle della navata sono tutte notevoli. Splendida la
cappella Bandini nel transetto sinistro, con sculture di Alessandro
Algardi e pitture del Domenichino.
Sempre dal transetto sinistro una porta (purtroppo sempre chiusa) darebbe accesso a una terrazza con vista su un oratorio cimiteriale. Qui pare si riunissero, intorno alla metà del Cinquecento, illustri personaggi del milieu intellettuale romano tra i quali Michelangelo e Vittoria Colonna.
Sempre dal transetto sinistro una porta (purtroppo sempre chiusa) darebbe accesso a una terrazza con vista su un oratorio cimiteriale. Qui pare si riunissero, intorno alla metà del Cinquecento, illustri personaggi del milieu intellettuale romano tra i quali Michelangelo e Vittoria Colonna.
Se volete visitare questa chiesa sconosciuta ai più, e ne vale al pena, dovete trovarvi alle 10 e 45 in punto della domenica davanti alla porta a sinistra della facciata. A quell'ora un giovane prete apre i battenti e voi avete una quindicina di minuti per la visita perché alle 11 comincia la messa. Non mi risulta che la chiesa sia aperta in altri orari.
domenica 8 febbraio 2015
Il cecchino di Clint
“Almost
too dumb to criticize”, ha
scritto Matt Taibbi su
RollingStone a
proposito di American Sniper di Clint Eastwood. Io, che
non faccio più il critico da un pezzo, mi limiterò a dire che si
tratta di un film mediocre, come purtroppo tutti i suoi ultimi. Le
scene di guerra sono ripetitive e sanno di già visto; c'è di meglio
nel genere, a cominciare da The Hurt Locker di Kathryn
Bigelow. Quanto all'altro versante, quello privato, dei rapporti del
cecchino con la moglie e il contesto familiare, siamo nella pura
superficialità (malgrado la buona prestazione di Sienna Miller). Sul
tema dei veterani di guerra e delle difficoltà del loro
reinserimento il cinema americano ha prodotto opere di ben altro
spessore, troppo numerose per citarle qui.
Per il resto il
film dipinge una specie di santino del cecchino Chris Kyle,
edulcorandone la biografia e facendone l'eroe di un'America dura e
pura in lotta eterna contro il male, identificato con tutto ciò che
appunto non è americano, e in particolare con gli odiati islamici.
Un'operazione di uno sciovinismo bruto ed elementare, che manipola i
dati storici, esaltatrice di un machismo diventato ormai stucchevole.
Tutto questo non
sorprende. Eastwood è un uomo di destra e non l'ha mai nascosto,
anzi l'ha spesso esibito con un certo gusto della provocazione, come
quando disse pubblicamente a Michael Moore, tra il serio e il
faceto, che lo avrebbe ammazzato se mai si fosse presentato alla sua
porta con una telecamera o come quando, alla convention del partito
repubblicano nel 2012, si esibì nel famoso monologo accanto alla
poltrona vuota in rappresentanza di Obama. Che ci propini un film di
rozza propaganda non è strano. (Del resto una parte consistente del
cinema che viene dagli Stati Uniti è sempre stato e continua ad
essere, in senso lato, una gigantesca macchina di propaganda
dell'ideologia americana. Il che non ci ha impedito di amarne la
parte migliore, compresi diversi film di Eastwood.)
Resta da capire il
perché dell'enorme successo ottenuto dal film. Amy Nicholson sul
Village Voice ne dà
una spiegazione interessante. Tanti americani sono stati coinvolti,
direttamente o indirettamente, nelle guerre recenti e sono alla
ricerca di una risposta a una domanda alla quale è difficile
rispondere: ne è valsa la pena? La risposta che il pubblico vuole –
ha bisogno – di sentire è sì, perché questo allevia l'angoscia
di fronte alla perdita o al turbamento causato alle ferite fisiche e
psicologiche che il reduce si porta dietro.
Da quando, dopo
l'11 settembre, l'America ha scatenato la cosiddetta guerra al
terrore, la propaganda ci ha convinto che siamo nel mezzo di uno
scontro di civiltà, con l'occidente cristiano, libero e democratico
attaccato da coloro che odiano i nostri valori, islamici e non solo.
Questa visione (che serve a nascondere la guerra vera, quella tra
ricchi e poveri) va imposta con la paura (il che accade con
regolarità, vedi il recente sfruttamento propagandistico dell'orrido
attentato a Charlie Ebdo), e di fronte alla paura l'eroe porta
sollievo, ci conferma in un'identità che, per quanto illusoria, dà
conforto. Forse si spiega così il grande successo che il film ha
avuto anche in Europa e in particolare in Italia (al momento in cui
scrivo è il primo incasso con oltre 18 milioni di euro). Le colonie
sono in sintonia con la capitale dell'impero.
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