mercoledì 21 giugno 2023

San Carlo alle Quattro Fontane e Sant’Andrea al Quirinale: due facce del barocco romano

Una domenica mattina della primavera del 1968 (se la memoria non m’inganna sulla stagione) uno sparuto gruppo di studenti del corso di storia dell’arte della Facoltà di lettere e filosofia della Sapienza di Roma entrano nel vasto cortile dell’edificio che ospita l’Archivio di Stato (un tempo sede dell’università). E’ prevista una lezione in loco su Sant’Ivo alla Sapienza di Francesco Borromini tenuta dal titolare del corso, Cesare Brandi (alla Facoltà di lettere i corsi sono due, l’altro è tenuto da Giulio Carlo Argan). Tra quel manipolo di ventenni in jeans, con barbe e capelli lunghi, e il sessantenne docente, elegantissimo in un completo chiaro, il contrasto non potrebbe essere più stridente. Ma in verità noi studenti nutrivamo una grande stima per quel professore: per le sue lezioni, esemplari per chiarezza e dottrina, e anche per quelle visite fuori programma, che dovevamo soltanto alla sua generosità. Mi è rimasta impressa nella memoria, in particolare, quella a Sant’Ivo perché Brandi si dilungò sul concetto di interno dell’esterno ed esterno dell’interno, caratteristico della sua analisi dell’architettura di Borromini.

Cesare Brandi

Fu allora, in quel turbolento 1968 e grazie soprattutto agli insegnamenti di Cesare Brandi, che nacque il mio interesse, e dovrei dire la mia passione, per il barocco romano e in particolare per Borromini; un interesse per nulla estraneo al mio lavoro creativo. Negli ultimi quarantacinque anni, da quando abito al quartiere Monti, molte volte, talora dopo lunghissimi intervalli, ho attraversato via Nazionale e risalito via delle Quattro Fontane, da solo o in compagnia, per visitare le due chiese, distanti poco più di centocinquanta metri l’una dall’altra, frutto del genio di due artisti del tutto antitetici tra loro, per carattere, personalità, stile, poetica, visione del mondo e riconoscimento sociale. Scrivo queste note, a mo’ di promemoria, su sollecitazione di un paio di amici che mi hanno accompagnato in una delle mie più recenti escursioni.

Voglio anche ricordare che venticinque anni fa ho avuto il piacere di filmare, con la complicità di Saverio Guarna, l’Estasi di Santa Teresa di Bernini e il magnifico chiostrino del San Carlo. La sequenza, qui riprodotta in bassa definizione, fa parte del film Il corpo dell’anima (1999), protagonista Roberto Herlitzka, che racconta tra l’altro la storia di uno scrittore che lavora a una sceneggiatura sulla vita di Teresa d’Avila.

 

 

San Carlo alle Quattro Fontane

Il complesso del San Carlino (sottoposto a un lungo lavoro di restauro tra il 1986 e il 2006) sorge all’angolo sud-ovest dell’incrocio tra via delle Quattro Fontane e via del Quirinale (l’antica via Pia). 


Furono i padri trinitari spagnoli a offrire a Borromini la prima commissione da architetto indipendente dopo la rottura con Bernini, sotto il quale aveva lavorato sia in San Pietro che a Palazzo Barberini. Lo spazio era angusto ma Borromini lo sfruttò ingegnosamente. Si iniziò con gli alloggi per i monaci, poi fu la volta del chiostro (1635). La prima pietra della chiesa fu posta nel 1638, i lavori si conclusero nel 1641, la consacrazione avvenne nel 1646. La facciata è di molto posteriore. Fu l’ultimo lavoro (1665) a cui pose mano l’artista e fu terminato dal nipote Bernardo dopo la sua morte.

Tralasciamo per ora la facciata e iniziamo la visita dal chiostrino. Ecco come lo descrive Brandi: “Nel chiostro l’ascendenza manieristica è solo apparente: già è cominciata l’opera di disgregazione del codice classico. I capitelli dorici non hanno abaco: è come riassorbito nella trabeazione, ma anche questa è abbreviata. Le colonne del piano superiore recano basi ottagonali. Il chiostro che ha pianta rettangolare, per il lungo, mostra gli angoli scantonati, ma la scantonatura si rigonfia, come se, di dietro, qualcosa premesse. Insomma, in questa prima opera, che ad uno sguardo distratto può apparire immobile elegante e fredda, si avverte già la tematica spaziale borrominiana: l’interazione continua ed in atto di interno e di esterno. Una fascia avvolgente e pressante forza, si direbbe nei punti più deboli, il diaframma costituito dall’involucro architettonico, ma una pressione interna la contiene: l’equilibrio deve apparire instabile…” (C. Brandi, La prima architettura barocca, 1970, pag. 77-78).


Notiamo un altro particolare: nel piano superiore i pilastrini della balaustra, con il rigonfiamento normalmente in basso, si alternano rovesciandosi l’uno dopo l’altro con un effetto che qualcuno ha definito di “movimento tremolante”. Nell’insieme la forma architettonica regola anche il gioco dell’ombra e della luce. E qui voglio citare Argan: “… è evidente il contrasto tra il primo ordine, in cui i pieni predominano sui vuoti, ed il secondo, in cui il vuoto predomina nettamente sul pieno. In basso, l’alternativa di colonne affiancate e di archi non ha altro scopo che di accentuare fortemente la luminosità dei risalti contro l’ombra profonda del portico; in alto, le colonnine solcano coi fusti luminosi l’ariosa penombra della loggia.” (G. C. Argan, Borromini, 1955-1978, pag. 61). La leggerezza di questa loggia, notavo in certi giorni di accentuata luminosità del cielo, la fa apparire più eterea e come se oscillasse, quasi a staccarsi dalla solida struttura dell’ordine inferiore per involarsi verso l’alto. Un effetto di verticalizzazione (di subida, come lo definisce spesso Brandi, credo mutuando il termine dalla mistica spagnola), così frequente nelle architetture di Borromini.

Entriamo nella chiesa. La prima cosa che colpisce è la suprema eleganza di questo interno tutto bianco con piccoli tocchi dorati. E va subito notato che qui, come quasi sempre nelle fabbriche di Borromini, i materiali usati sono umili: mattoni, intonaco, stucco. E’ la forma che rende preziosa la materia.

La pianta della chiesa è ellittica, con l’entrata e l’altare maggiore ai vertici dell’asse lungo. Borromini giunge a questa forma per via geometrica. Scrive Virgilio Spada, un padre oratoriano amico e sostenitore del nostro artista: "Sí come la melodia delle voci nasce da’ numeri, così la bellezza delle fabbriche professa [il Borromini] nascer parimente da’ numeri, e che tutte le parti habbino una tal proportione, che un’apertura di compasso, senza mai muoverlo, le misuri tutte." Anche questo modo di procedere crea una cesura con la tradizione classica, codificata sugli antichi nei trattati rinascimentali (casomai Borromini attinge ispirazione direttamente dall’architettura antica, ad esempio Villa Adriana, e forse l’unico architetto classico-manierista da cui trae spunti è Michelangelo, per il quale nutriva una vera e propria venerazione). La concezione antropomorfica è definitivamente abbandonata.  

In Sant’Ivo alla Sapienza (altro magnifico capolavoro) si parte da una stella a sei punte, ottenuta sovrapponendo due triangoli, che diventa un esagono che struttura l’intero complesso. Nel San Carlino, Borromini parte da due triangoli equilateri affiancati e da lì muove per arrivare a una forma ellittica. (Si noti che il triangolo è anche simbolo della Trinità e che il doppio triangolo a sua volta è un potente simbolo di complementarità e opposizione: acqua e fuoco, maschile e femminile, natura umana e divina di Cristo.) Anche qui, come nel chiostro, utilizza elementi del codice classico ma li rovescia, li disloca, li ricompone, spesso elevando a funzione portante elementi decorativi e viceversa, nel quadro di un progetto che nasce da una sorta di furor creativo (l’espressione è di Argan) dove immaginazione e tecnica si fecondano a vicenda.

Borromini articola i muri in eleganti curvature, alternando nicchie e colonne appena incassate, con il capitello composito dove inverte la voluta della foglia d’acanto arrotolandola all’interno, come a chiudere la colonna in se stessa e ad anticipare la cesura dell’architrave. L’effetto complessivo è nettamente percepibile: ritmo e movimento. Lo sguardo dell'osservatore è portato a cogliere la molteplicità degli elementi che concorrono a generare quest'effetto ma al contempo l'unità dell'insieme, e infatti l'occhio si volge naturalmente verso l'alto, verso l’ampia trabeazione, anch’essa movimentata con grande libertà, e infine verso la cupola che si eleva oltre una sorta di corona che la fa arretrare ulteriormente e dove Borromini recupera la purezza dell’ellissi. L’interno della cupola è decorato con una serie di forme complesse che rimpiccioliscono verso l’alto, così da farla apparire, con effetto illusionistico, più alta di quanto non sia. Ancora un moto verticalizzante, una subida, come si è visto a proposito del chiostrino. Dalla cupola proviene quasi unicamente la luce, vale a dire da finestre poste alla base e dalla lanterna in cima.

 

A proposito della funzione della luce nelle architetture di Borromini, Cesare Brandi fa notare una opposta interpretazione da parte degli studiosi (C. Brandi, Struttura e architettura, 1967-1971, pag. 77-78-79). Hans Sedlmayr parla di “una luce omogenea, diffusa, pallida” (Die Architektur Borrominis, 1930, pag. 92). Al contrario Argan introduce la nozione di luminismo come elemento essenziale dello stile borrominiano e istituisce un parallelo con la pittura di Caravaggio: “La luce, da qualità dello spazio, si muta in qualità della forma…” (Borromini, 1955-1978, pag. 59).

In realtà la lezione di Argan è da accogliere per gli esterni, come si è già visto nel caso del chiostrino, e in particolare per le facciate, dove la luce mette in rilievo i profili delle sagome, animando così le superfici. E’ per questo motivo che, secondo un altro studioso, il Guidi, Borromini accentua i risalti delle facciate quando sono esposte a nord, di modo che la luce radente possa conferirvi ugualmente un rilievo luminoso. Ma per gli interni sembra più valida la lezione dello studioso austriaco. Come nel San Carlino. Qui si è colpiti, scrive Brandi, “dalla immaterialità di quella luce...”. E ancora: “E’ una luce chiara e sospesa nell’aria come un tenue pulviscolo, ma più simile a qualcosa che evapora che a cosa che si posi. L’ombra nasce ugualmente indistinta, con la qualità di un crepuscolo invernale, e cresce lentamente verso la luce come una insensibile marea. E’ una luce triste, a San Carlino, e a Propaganda Fide, perché volutamente innaturale, repressa, data a dosi minime… Niente dei colpi di luce berniniani, delle fantasmagoriche esplosioni come nella Cattedra di San Pietro, o nelle saette della Santa Teresa. La luce, nel Borromini, deve essere ridotta alla controllata luminosità che la qualità spaziale dell’architettura esige.” Per parte mia, non definirei quella del San Carlino come una luce triste ma piuttosto come una luce quietamente pacificata, che invita alla contemplazione e alla meditazione, e che talvolta, in certe circostanze atmosferiche, può diventare calda e confortante. Altrove, nel già citato volume sulla prima architettura barocca, Brandi segnala giustamente un’eccezione a questa “controllata luminosità” e cioè Sant’Ivo alla Sapienza, dove, grazie ai grandi finestroni della cupola, la luce si fa “trionfale” e riempie “tutto l’invaso come ne fosse la propria sostanza” (pag. 93-94).

Anche la cripta, accessibile da una porta sulla parete di sinistra, merita una visita. Scrive Joseph Connors: "In questo luogo adibito a sepoltura per i monaci non vi è alcun ornamento. Una visita alla cripta schiarisce la mente, come una passeggiata nella tersa aria notturna dopo una cena inebriante.Qui meglio che in qualsiasi luogo lo spettatore sazio di stimoli può vedere la cristallina geometria che governa il movimento delle pareti sovrastanti." (Citato da Paolo Portoghesi in Storia di San Carlino alle Quattro Fontane, 2001, pag. 170.)

 

L’esterno della cupola è poco visibile dalla strada ma Brandi ci conferma che “è immaginata in modo ascensionale; è una subida, non meno di quella di Sant’Ivo.”(La prima architettura barocca, pag. 83).

"La facciata di San Carlino, qualunque sia la direzione di provenienza... fin da lontano si presenta ai nostri occhi come un oggetto plastico di inattesa intensità, che si appoggia alla quinta stradale improvvisamente animandola, spezzandone la inerzia ma non la continuità." (P. Portoghesi, ivi, pag. 105-106). Costruita in travertino (purtroppo sottoposta a costante degrado dovuto allo smog), è divisa in due ordini, ciascuno spartito da colonne. In quello inferiore la superficie è ondulata in tre parti concavo-convesso-concavo, in quello superiore in tre parti concave. Si potrebbe vedere in queste forme una "scelta simbolica della oscillazione dell'onda, del respiro, delle manifestazioni più elementari del movimento e della vita." (Portoghesi, ivi.)

Nell’insieme, la facciata è molto movimentata; il che confermerebbe, essendo esposta verso nord, l’osservazione del Guidi a cui accennavo più sopra. Da notare la disposizione in diagonale delle colonne, cioè dei capitelli e delle basi, probabilmente ispirata a Michelangelo, che contribuisce al dinamismo delle superfici. Sull’ordine superiore, terminato dal nipote Bernardo, vi sono contrastanti pareri tra gli studiosi, sui quali non mi addentro qui per ragioni di spazio. Nell’insieme è una facciata che a me dà l’impressione di una massiccia, forte presenza, come a contrasto con il piccolo, ovattato interno.

La chiesa riscosse un immediato successo. I trinitari erano soddisfatti. Avevano ottenuto non solo una chiesa bellissima, ammirata da tutti (arrivavano richieste di avere i piani dall’Italia e da fuori), ma un complesso perfettamente funzionale alle loro esigenze, e la spesa era stata assai contenuta. Secondo la testimonianza di fra’ Juan de san Bonaventura, Borromini rinunciò al suo compenso.

 

Sant’Andrea al Quirinale

Muoviamo pochi passi in direzione sud-ovest, avendo dall’altro lato della strada la cosiddetta Manica lunga del Palazzo del Quirinale, per giungere, superato un piccolo giardino, alla facciata di Sant’Andrea al Quirinale.
 

E’ una bella facciata, semplice, quasi austera, a un sol ordine, in travertino. Due pilastri a paraste corinzie reggono un classico timpano triangolare. Un’elegante gradinata semicircolare conduce a un protiro, anch’esso semicircolare, sorretto da due colonne ioniche e sormontato dallo stemma dei Pamphili, dietro il quale c’è un arco finestrato. Qui si addensa l'ombra che anticipa l'interno. Dalla facciata si dipartono due fasce murarie concave (purtroppo accorciate quando fu allargata la strada nell'Ottocento), reminiscenza in miniatura del colonnato di San Pietro, come ad accogliere il visitatore e invitarlo a entrare.

Sant’Andrea al Quirinale appartiene al complesso del Noviziato dei Gesuiti. Quando si decise di demolire la vecchia e inadeguata cappella e di sostituirla con un edificio nuovo, papa Alessandro VII Chigi designò Bernini come architetto. I fondi per la costruzione furono raccolti dal principe cardinale Camillo Pamphili (da qui il vistoso stemma sul protiro). I lavori iniziarono nel 1658 e si protrassero per oltre un decennio, fino al 1670. Bernini fu assistito dal suo aiuto Mattia de' Rossi. Secondo la testimonianza del figlio Domenico, egli considerò questa chiesa come la più riuscita delle sue opere di architettura.

La scelta fu approvata dai gesuiti, con i quali Bernini aveva ottimi rapporti, pur non avendo mai ricevuto commissioni di rilievo dalla Compagnia. E’ noto che l’artista fosse un lettore degli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola e un frequentatore, presso la chiesa madre, delle devozioni della “buona morte”. Sono altresì noti i suoi rapporti con Giovanni Paolo Oliva, famoso predicatore e strenuo sostenitore dell’arte di propaganda, divenuto, dal 1661 al 1681, prima vicario e poi preposito generale della Compagnia; fu lui ad avere un ruolo decisivo nella decisione da parte di Bernini di accettare l’invito di Luigi XIV a recarsi a Parigi nel 1664. Altra sua buona conoscenza tra i grandi gesuiti fu il cardinale Sforza Pallavicino, insigne filosofo e teologo, storico del Concilio di Trento, che promosse la carriera ecclesiastica del figlio dell’artista Pietro Filippo. Di lui è conservato, presso l’Università di Yale, un disegno a sanguigna di Bernini. Entrambi questi personaggi furono coinvolti nella progettazione e nella costruzione di Sant’Andrea al Quirinale, dove poi trovarono sepoltura.

Due cose mi hanno sempre colpito entrando in questa chiesa, innanzitutto lo sfarzo, con quella profusione di marmi policromi e la sovrabbondante decorazione. E poi l’impressione di una struttura saldamente ancorata al terreno, possente pur nelle ridotte dimensioni. 

La pianta è ovale ma qui, a differenza del San Carlino, entrata e altare maggiore sono collocati ai capi dell’asse corto dell’ovale. Questo modello viene introdotto in epoca manieristica, mi riferisco innanzitutto a Sant’Anna dei Palafrenieri, sita in Vaticano, su progetto del Vignola e successivamente a San Giacomo in Augusta, su progetto di Francesco da Volterra, poi terminata dal Maderno. Qui l’obiettivo è di superare lo schema circolare rinascimentale, ispirato agli antichi, con una forma più dinamica. Lo stesso Bernini, anni prima, aveva adottato questa soluzione per la Cappella dei Re Magi a Propaganda Fide (poi demolita, ironia della sorte, da Borromini quando ebbe la commissione della facciata di Propaganda e della nuova cappella).

Lo schema ovale assicura un’espansione laterale dello spazio tuttavia ben definito dai pilastri posti ai capi dell’asse maggiore, intorno ai quali girano le cappelle laterali. L’asse minore è esaltato sia dal gesto trasgressivo dell’arco di facciata che invade la cupola, sia dal presbiterio, più profondo delle cappelle e con una fonte luminosa propria. Qui le quattro colonne scanalate di marmo rosato proveniente da Cottanello e il timpano curvo rotto dalla statua del santo fanno da sontuoso proscenio al presbiterio con la tela del martirio. Tutto lo spazio è vivo e drammatico, teso a inglobare e a superare lo schema circolare classico. Come scrive Brandi: “… l’avere preso come figura di base, quasi, modulare, il cerchio, ma sempre dirottato in ovale, assicura all’interno la solennità del Pantheon, senza la staticità immobile che lo caratterizza.” (La prima architettura barocca, pag. 150).


Dalle misurazioni effettuate dall’architetto Franco Borsi (F. Borsi, La Chiesa di S. Andrea al Quirinale, 1967) risulta che Bernini abbia adottato i rapporti modulari canonici come codificati da Sebastiano Serlio nel suo celebre e appunto canonico trattato. E se questo dimostra che l’architettura di Bernini parte sempre dalla tradizione classica, è anche vero che nelle opere più riuscite, come in questo Sant’Andrea, egli giunge a costruire una spazialità nuova, autenticamente barocca, cercando una fusione tra architettura, scultura e pittura (ne è un esempio anche la Cappella Cornaro che ospita L’estasi di Santa Teresa).

Osserviamo gli effetti luministici della parte bassa dell’invaso. Delle quattro cappelle per lato, le due centrali, col fronte ad arco, hanno una finestra dietro il timpano dell’altare che le soffonde di chiarore, mentre le altre quattro sono in penombra. La cappella dell’altare maggiore regala invece una luminosità più accentuata grazie a una fonte nascosta, che inonda di luce anche la grande tela del Borgognone col Martirio di Sant’Andrea, contornata da un tripudio decorativo. Con la policromia dei marmi, le dorature, le colonne di marmo rosato, il ricco pavimento, questo spazio espanso nell’ellissi offre un magnifico, sontuoso effetto pittorico. Il tutto è immerso nella luce che piove dalle grandi finestre della cupola e dall'arco d'ingresso, cangiante anche qui a seconda dell’ora o delle stagioni.

A differenza del San Carlino, qui la cupola si innesta direttamente sull’architrave della trabeazione. I lacunari (cassettoni) con rosoni ricordano il Pantheon mentre le spesse costolature rinviano a Brunelleschi e Michelangelo. Scrive Brandi: “La cupola ribassata, che appunto non ha grande elevazione, contribuisce a rafforzare il senso di una dilatazione radiale, anche se la decorazione non la rende pesante e oppressiva. (…) La cupola di S. Andrea al Quirinale non è la volta celeste in espansione, ma il contenimento in atto perché l’espansione non avvenga in altezza. L’uso dei rapporti modulari più canonici non ha altro senso che di assicurare chiarezza distributiva all’edificio, con un ritmo solenne, e un’opulenza grandiosa, ma non certo la classicità statica dell’architettura antica.” (C. Brandi, La prima architettura barocca, 1970, pag. 151-152).

Sul timpano della cappella dell’altare maggiore svetta la statua di S. Andrea, opera di Antonio Raggi, cosicché lo sguardo del visitatore può passare dalla tela del Borgognone, che rappresenta il martirio del santo, alla statua che ne illustra la trionfante ascesa al cielo, con un bell’effetto drammatico-narrativo. Sempre ad Antonio Raggi sono da attribuire gli stucchi che decorano la cupola, con un profluvio di angeli e di putti. (Questo scultore fu allievo e uno dei principali collaboratori di Bernini per due o tre decenni. Ticinese come Borromini, collaborò anche con quest’ultimo: sua è la statua di San Carlo Borromeo nella nicchia sopra il portale d’ingresso proprio del San Carlino, nonché il gruppo scultoreo del Battesimo di Gesù dell’altare maggiore di San Giovanni dei Fiorentini, al quale pose mano, tra gli altri, anche Borromini.)

***

Per concludere, con qualche formula provvisoria. Schematizzando, si può intendere il barocco in due modi diversi, intrecciati tra loro. Il primo, alla luce della “rettorica” (intesa in senso classico), come “tecnica del persuadere”, e quindi anche come arte della propaganda, assunzione consapevole di un linguaggio volto a insegnare e a educare (vedi le ricerche di Argan, in particolare L’Europa delle capitali 1600-1700, 1964). Il secondo, in chiave più strettamente artistica, come ricerca, nel superamento della crisi manieristica, di una spazialità nuova e di un nuovo immaginario.

A questa ricerca, Borromini e Bernini dànno entrambi un contributo fondamentale, il più alto del secolo, con una distinzione che farò di seguito. Quanto alla prima accezione, essa calza perfettamente all’opera di Bernini, che fu senza dubbio, in campo artistico, il principale strumento della politica culturale del papato nei decenni centrali del Seicento, quando, superata la fase travagliata strettamente controriformistica, intendeva di nuovo affermare la ricchezza, la potenza e il prestigio della Chiesa Cattolica. Non si può dire altrettanto di Borromini, chiuso nella sua ricerca solitaria (e per altro sostanzialmente estraneo al giro affaristico che ruotava intorno alla corte papale, nel quale invece primeggiava Bernini con la sua bottega-impresa), se non facendo riferimento a un certo simbolismo delle forme, ivi compresi elementi decorativi connessi alle committenze. Da questo punto di vista, paradossalmente ma senza azzardare troppo, si potrebbe parlare di una dimensione antibarocca dell’architettura borrominiana.

Negli stessi anni in cui lavorava per il S. Andrea, Bernini progettò e costruì altre due chiese: quella di S. Tommaso da Villanova a Castel Gandolfo e la Collegiata dell’Assunta ad Ariccia. Mentre quest’ultima, per opinione unanime degli studiosi, è annoverata tra le opere riuscite dell’artista, sull’altra il giudizio è generalmente negativo. Scrive Brandi: “Sembra quasi impossibile, se non fosse a causa dei documenti e delle date (1658-1661), che, contemporaneamente a questa insuperabile chiesa di S. Andrea, il Bernini potesse produrre un progetto così disseccato come il S. Tommaso da Villanova… Ma nella realtà del Bernini architetto, a differenza dello scultore, stava questo richiamo classicista, che, ad un certo punto, lo immobilizzava: ...S. Tommaso potrebbe essere di un secolo prima.” (Ivi, pag. 152-153).

Il fatto è che Bernini fu innanzitutto uno scultore, un grande scultore. La sua formazione come architetto fu lenta e assai incerta per almeno un ventennio, come ha notato Brandi; anche per una carenza di approfondite competenze tecniche, come dimostrò l’episodio delle torri campanarie della facciata di San Pietro. Il che non impedisce di riconoscergli capolavori come appunto Sant’Andrea o il colonnato di San Pietro. Al contrario, Borromini era un architetto puro, con competenze da moderno ingegnere, maturate in un lungo tirocinio, prima in ambito ticinese e lombardo e poi, a partire dal 1619, a Roma accanto al Maderno, uno dei massimi architetti della sua generazione, del quale fu il principale collaboratore ed esclusivo disegnatore.Delle ampie competenze e del modo di lavorare di Borromini ci dà viva testimonianza Juan de san Bonaventura: "...perché detto sr. Francesco lui medesimo governa al murator la cuciara; driza al stuchador il cuciarino; al falegname la sega, et l'scarpello al scarpellino; al matonator la martinella et al ferraro la lima."

Bernini opera nel solco della tradizione classica, innestandovi spesso brillanti e talora straordinarie invenzioni spaziali (a prescindere dal decorativismo e dallo scenografismo, che sono altri elementi della sua pratica). Borromini al contrario opera una cesura netta, rivoluzionaria, su quella tradizione (pur continuando a utilizzare elementi del codice classico, talvolta contaminandoli con elementi estranei, gotici o islamici) e inventa una spazialità del tutto nuova, mai vista fino a quel momento. Di questo egli era perfettamente consapevole: "... e prego ricordarsi quando tal volta gli paja, che io m’allontani da i communi disegni, di quello, che diceva Michel Angelo Prencipe degl’Architetti, che chi segue altri non gli va mai innanzi, ed io al certo non mi sarei posto a quella professione, col fine d’esser solo copista, benché sappia, che nell’inventare cose nuove, non si può ricevere il frutto della fatica se non tardi. (In Opus Architectonicum).

Successivamente, tra la fine del Seicento e per tutto il Settecento, fu la lezione di Borromini a imporsi, prima nell’Italia del nord, in particolare in Piemonte, e poi in Europa; laddove il lascito di Bernini non ebbe sviluppi. Con l’avvento del neoclassicismo il barocco si eclissa, ma l’architettura di Borromini, proprio per il suo carattere rivoluzionario, scavalcando l’Ottocento, influenzerà una parte notevole dell’architettura contemporanea tra ventesimo e ventunesimo secolo.

 

La rivalità

La rivalità che oppose i due personaggi è ormai leggenda popolare, alimentata da libri e film. In realtà le scarse fonti disponibili, provenendo dalle opposte fazioni, lasciano dubbi sulla loro attendibilità e quindi non sono tali da consentire di ricostruirla nella sua verità storica. Essa fa capo innanzitutto all’opposta personalità dei due contendenti e alla loro storia personale.

Gian Lorenzo Bernini ritratto dal Baciccia

Gian Lorenzo Bernini, figlio d’arte (suo padre era il noto scultore Pietro), fu uomo brillante, socievole, ma anche irascibile e talvolta violento, capace di muoversi con disinvoltura, e direi con spregiudicatezza, negli ambienti aristocratici e alla corte papale. Ad eccezione di un breve periodo, sotto Innocenzo X, la sua carriera fu un continuo, crescente successo. Fu amico di papi, cardinali, re e regine. Ebbe undici figli.

Francesco Borromini

Per parte sua, Francesco Borromini, che aveva iniziato la sua carriera come un modesto scalpellino, fu un uomo malinconico, nervoso, introverso, anche lui di carattere duro e irascibile. Orgoglioso del proprio lavoro, alieno da ogni compromesso, fu spesso in contrasto con i committenti. Vestiva di nero, alla spagnola, era austero di costumi e non si sposò mai. Qualcuno ha azzardato che fosse omosessuale.  

Opposto, come abbiamo visto, il loro approccio all’arte. In Bernini il punto di partenza è sempre il naturalismo; Borromini riprende, in un certo modo, il neoplatonismo di Michelangelo. Diversa anche la loro religiosità. Più esibita e superficiale quella di Bernini; rigorista e tormentata quella di Borromini.

Quando, nel 1929, alla morte di Maderno, Urbano VIII designò, tra lo stupore generale, il giovane e inesperto Bernini a sovrintendere le due fabbriche più importanti di Roma, San Pietro e Palazzo Barberini, Borromini si trovò a dover lavorare alle sue dipendenze, non senza un qualche disappunto, avendo egli come architetto competenze di gran lunga più solide dell’altro. E’ attestata la sua collaborazione al Baldacchino di San Pietro, in particolare per la copertura. Anche in Palazzo Barberini gli si riconoscono diversi interventi, come la bella scala a spirale ovale dell’ala destra e le due deliziose finestrelle ai lati del piano alto della facciata principale. Borromini ebbe a lamentarsi del trattamento ricevuto dal rivale in quegli anni, e non solo per la parte economica. Uno dei suoi biografi, il Baldinucci, ci riporta la sua rimostranza (poi eliminata nella versione finale del manoscritto): “...non mi dispiace che abbia auto li denari ma mi dispiace che gode l’onor delle mie fatiche.” La rottura si consumò nel 1633. Dopo quella data, Borromini iniziò la sua carriera da architetto indipendente.

Anni dopo, quando scoppiò lo scandalo delle torri campanarie di San Pietro, che portò alla demolizione della prima torre, progettata e parzialmente costruita da Bernini, per le crepe riscontrate nella facciata, Borromini fu tra i critici più accaniti della sua imperizia. Curiosamente, fu proprio Bernini a chiedere a Urbano VIII di conferire a Borromini l’incarico di progettare la chiesa di Sant’Ivo nel palazzo della Sapienza, la cui prima pietra fu posata nel 1643. Ma in realtà la “raccomandazione” risaliva al 1632, cioè prima della rottura. In epoca più tarda, Bernini espresse giudizi severi sul rivale. Significativo quello riportato dallo Chantelou, che lo frequentò in occasione del soggiorno a Parigi: “I pittori e gli scultori nelle loro architetture hanno a norma delle proporzioni il corpo umano, mentre sembra che il Borromini formi le proprie sulle Chimere.”

Opposto anche, ineluttabilmente, fu il destino finale dei due uomini, che erano coetanei, nati a meno di un anno l’uno dall’altro.

Nel 1680 Bernini fu colpito da una paralisi al braccio destro e alla fine di novembre di quello stesso anno si spense nella sua casa di via della Mercede, all’età di 81 anni, lasciando alla famiglia, ai nove figli che gli sopravvissero, un notevole patrimonio, stimato in 400.000 scudi. E’ sepolto in Santa Maria Maggiore.

Borromini morì suicida nel 1667, quando aveva quasi 68 anni, nella sua modesta abitazione nei pressi di San Giovanni dei Fiorentini. Nell’estate di quell’anno si era ammalato, entrando in uno stato di forte ipocondria. Nella notte tra l’1 e il 2 agosto, dopo aver redatto un testamento, oppresso dalla febbre, dall’insonnia e dalla depressione, si ferì mortalmente con la spada. Morì il giorno dopo, giusto il tempo di pentirsi e di dettare un nuovo testamento. Il suo patrimonio fu stimato in 10.000 scudi. Per suo espresso desiderio, fu sepolto accanto al Maderno in San Giovanni dei Fiorentini. 

Nella sua casa, dopo la morte, insieme a un migliaio di libri (di cui purtroppo non abbiamo un elenco), al busto di Michelangelo, a un buon numero di dipinti e di collezioni varie, fu rinvenuto anche un busto di Seneca. Potrebbe, la presenza in effigie dello stoico romano in quella casa (dalla quale si potrebbe dedurre un Borromini lettore di Seneca, oltre che conoscitore di antichità romane) lasciarci immaginare uno sfondo culturale diverso, pur nel quadro di una professata spiritualità cristiana, entro cui interrogare quel suicidio? Mi piace pensarlo.

 

Libri citati:

C. Brandi, La prima architettura barocca, 1970

G. C. Argan, Borromini, 1955-1978

C. Brandi, Struttura e architettura, 1967-1971

H. Sedlmayr, Die Architektur Borrominis, 1930

F. Borsi, La Chiesa di S. Andrea al Quirinale, 1967

G. C. Argan, L’Europa delle capitali 1600-1700, 1964

P. Portoghesi, Storia di San Carlino alle Quattro Fontane, 2001 

F. Borromini, Opus Architectonicum, 1725

Notizie e dati biografici sono tratti da:

Jake Morrissey, Geni rivali. Bernini, Borromini e la creazione di Roma barocca, 2007


sabato 8 aprile 2023

Fassbinder e il melodramma

 

L’anno scorso la Ripley’s Home Video mi ha chiesto di scrivere un breve testo di presentazione per un cofanetto di dvd contenente cinque film di Rainer Werner Fassbinder: Il mercante delle quattro stagioni, Le lacrime amare di Petra von Kant, La paura mangia l’anima, Effi Briest, Il diritto del più forte. Si tratta di film realizzati tra il 1972 e il 1975, tra i migliori del regista tedesco. Naturalmente ho accettato volentieri l’invito. Ripropongo qui il testo della presentazione per i quattro lettori del mio blog.


Fassbinder e il melodramma

Per capire la forza e la novità del cinema di Fassbinder occorre partire, come è d’obbligo, dalle forme, cioè dal linguaggio. In una prima fase della sua produzione cinematografica – all’insegna di una vocazione sperimentale dai modi quasi compulsivi (una dozzina di film in due o tre anni) – Fassbinder rende omaggio ad alcuni autori del nuovo cinema europeo (come Godard, Rohmer, Melville, Straub), si confronta con generi diversi, contamina forme espressive di varia provenienza, anche in un dialogo diretto con la coeva esperienza teatrale. Successivamente è l’incontro col cinema di Douglas Sirk a determinare una svolta, in un processo di maturazione che tuttavia non risulta incoerente con il lavoro precedente.

Nei film del grande cineasta tedesco emigrato a Hollywood Fassbinder ritrova consonanze stilistiche e tematiche ma soprattutto individua nel melodramma come genere, di cui Sirk è maestro, lo strumento espressivo ideale per quella indagine che ostinatamente persegue sul presente della Germania e sulla sua storia – dall’epoca di Weimar al nazismo, dal dopoguerra di Adenauer agli anni sessanta e settanta, segnati dalla rivolta del Sessantotto e poi dalla lotta armata, senza dimenticare l’Ottocento con lo splendido adattamento di Effi Briest di Fontane. Uno strumento espressivo, il melodramma, che si rivela formidabile anche per quell’analisi impietosa che Fassbinder conduce dei rapporti interpersonali, d’amore e di sesso, marcati dal dominio e dalla sottomissione e inesorabilmente intrecciati ai rapporti di classe.

Il melodramma, al cinema e non solo, non ha mai goduto dei favori della critica tradizionale. Si pensi al disprezzo di cui è stato fatto oggetto un regista pur notevole come Raffaello Matarazzo. Lo stesso Douglas Sirk è stato a lungo sottovalutato e frainteso, almeno in Italia. E’ solo con l’avvento, tra gli anni sessanta e settanta, di una nuova generazione di cineasti e di critici che il melodramma cinematografico, e i registi che lo praticano, trovano finalmente il giusto apprezzamento e il genere come tale viene ripensato e rivalutato in termini teorici.

Fin dall’inizio Fassbinder ha le idee chiare su come riscrivere il mélo. Il modo in cui gli americani abbordano il genere, egli sostiene, si limita a trasmettere allo spettatore soltanto i sentimenti e nulla più. Dal suo punto di vista si tratta invece di offrire allo spettatore anche la possibilità di analizzare questi stessi sentimenti e di riflettere sul modo in cui li percepisce. E’ una strategia solo apparentemente semplice, in realtà implica una forte consapevolezza teorica.

Sono due gli autori ai quali Fassbinder fa riferimento in questa riscrittura del mélo; gli stessi, del resto, che hanno inciso nella sua pratica teatrale. Il primo è Brecht con il suo teatro epico e le relative tecniche di straniamento (l’interesse per Brecht è condiviso da altri cineasti del nuovo cinema tedesco, a cominciare da Alexander Kluge e Straub-Huillet). E’ noto che il teatro epico rifiuta il realismo e lo psicologismo mimetico del teatro borghese e gli oppone il discernimento razionale della dinamica dell’azione e delle sue implicazioni ideologiche e politiche, attraverso una destrutturazione della messa in scena e delle stesse tecniche tradizionali di recitazione.

L’altro autore è Artaud con il suo teatro della crudeltà, dove l’accento è posto sul corpo, sulla spontaneità, sulla visceralità, sull’eccesso, sulla violenza. (Occorre ricordare che in quegli stessi anni la lezione artaudiana viene ripresa splendidamente dal Living Theatre di Julian Beck e Judith Malina, con una forte eco anche in Europa.)

Sembrerebbero, quelli di Brecht e di Artaud, due punti di riferimento in aperta contraddizione, e forse lo sono, eppure Fassbinder li contamina e riesce brillantemente a dissolvere il dilemma tra passione e ragione, tra empatia e distanziamento, costruendo una forma di mélo caldo e freddo al tempo stesso, dove l’analisi lucida e razionale dei rapporti di potere e delle contraddizioni storiche si concilia perfettamente con l’espressione viscerale e violenta della corporeità e dei sentimenti. I cinque film di questo cofanetto, realizzati tra il 1972 e il 1975, ne sono la perfetta dimostrazione. Dall’uno all’altro Fassbinder adegua lo stile alla diversa materia narrativa restando tuttavia fedele al modello sirkiano di melodramma, rivisitato nella fervida temperie culturale europea degli anni settanta.

Vi resterà fedele anche negli anni successivi quando continuerà a esplorare il genere con alcuni film ad alto costo, riuscendo finalmente a raggiungere, com’era nei suoi auspici, un pubblico più vasto. Del resto, alla domanda di un intervistatore: “Lei intende realizzare il film hollywoodiano tedesco?”, la risposta lapidaria fu: “Sì, assolutamente”. La morte prematura, nel 1982, a soli 37 anni, ha interrotto questo itinerario creativo ma il lascito di Fassbinder, sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo, è imponente e ancora vivo.

sabato 23 maggio 2020

Emma e il poliamore, una recensione

Segnalo, sul Manifesto di oggi, nel supplemento Alias, una recensione di Alberto Castellano al mio romanzo Emma e il poliamore.

Poliamore, la frontiera

Ebook. Il nuovo romanzo del regista Salvatore Piscicelli

Non si può certo dire che Salvatore Piscicelli sia un autore (cinematografico e letterario) prevedibile e integrato in certi schemi tradizionali. Non solo e non tanto per la capacità/vocazione di cambiare genere e linguaggi (ma sempre cementati dal suo linguaggio cine-letterario e da certe costanti tematiche e di sguardo), ma anche per un rapporto originale e personale con la scrittura che pratica in funzione naturale del suo fare cinema e della sua mise en scène. È come se praticasse un interscambio con tempi differiti tra cinema e letteratura. E non si ferma davanti a niente: il film lo gira e il romanzo lo pubblica anche se non trova subito un interlocutore editoriale. Infatti la sua nuova opera letteraria Emma e il poliamore è un ebook (StreetLib Editore, euro 3,99) disponibile su tutte le piattaforme online, Amazon, Ibs, Kobo, Mondadori, Feltrinelli.
E a riprova del suo eclettismo ma anche della sua insofferenza intellettuale verso la comoda ripetitività e/o il successo di una formula, dopo il noir (romanzo e film) Vita segreta di Maria Capasso, questa volta ha optato per la forma della commedia (drammatica). Non solo ma ha abbandonato temporaneamente il protagonismo assoluto di una donna per distribuire l’imprescindibile (per lui) sguardo femminile in un’intrigante coralità. Del resto se Immacolata, Concetta, Rosa, Regina, Maria Capasso erano necessarie per la centralità narrativa del ruolo femminile per veicolare le stratificazioni culturali, le contraddizioni storiche irrisolte, gli equivoci della rappresentazione della città (Napoli e provincia), in questo caso il contesto, la storia e i personaggi richiedevano una pluralità di sguardi e una frantumazione della sensibilità e della personalità femminile orgogliosa e destabilizzante. Il poliamore (dall’inglese polyamory) del titolo è una nuova frontiera dei rapporti amorosi e si concretizza nella possibilità di amare più di una persona contemporaneamente, col consenso di tutti coloro che vi sono coinvolti. Il rifiuto della monogamia e fenomeni quali la coppia aperta o l’amore libero non sono certamente nuovi, ma qui l’accento è posto su un approccio responsabile, onesto, aperto, non possessivo, in definitiva etico.
Col tempo il poliamore è andato sempre più costituendosi come un vero e proprio movimento che partendo dagli Stati Uniti si è rapidamente diffuso in molti paesi, compresa l’Italia. «Il mio interesse nei confronti del poliamore – dice Piscicelli – data ormai da parecchi anni e si spiega con le sue implicazioni sociali e di costume. La rottura, o l’apertura, della coppia tradizionale annuncia infatti la messa in discussione della famiglia nucleare, del rapporto tradizionale con i figli, del convenzionale approccio al sesso; dunque un cambiamento sostanziale nei rapporti parentali e di genere, una piccola rivoluzione non solo nel costume. Ho voluto sperimentare una forma narrativa diversa da quella classica, una forma che assume un plot multiplo che allinea storie, o racconti, o stazioni, unificate dal personaggio centrale e dall’argomento di base (in questo caso il poliamore)».
Emma, Matteo, Livia, Thomas, Céline, Aurore, Yannick, Luc. Sullo sfondo di quel nuovo paradigma delle relazioni amorose che si definisce poliamore, molte storie si intrecciano in questo romanzo – tra Italia, Francia, India, Stati Uniti – e vanno a comporre un piccolo affresco della moderna libertà amorosa, contro ogni forma di ricorrente oscurantismo. L’autore tiene in prodigioso equilibrio una narrazione di tipo classico e i dialoghi serrati. Geniale è la rivelazione del nome di Emma da Austen mentre fino a quel punto si poteva pensare a una Bovary post-moderna. L’assunto del poliamore è supportato con un groviglio di rapporti, separazioni, accoppiamenti, nuovi amori, sesso occasionale nel quale a un certo punto si rischia di smarrirsi ma poi ci si appassiona e si entra nel gioco. L’autore lo si riconosce per la distinzione tra cinema e film, i riferimenti al mondo cinematografico attuale con tutte le sue derive, la conoscenza e la passione per l’India e il Giappone.
Poi naturalmente ci sono echi di romanzi e film che lui ha amato, ma sono come succede spesso frutto di un lavorio inconscio e i riferimenti e le suggestioni del lettore: si può pensare qua e là a Schnitzler, a Le relazioni pericolose, a Paul Auster, ai dialoghi incessanti e alla leggerezza di Rohmer, al Woody Allen delle nevrosi femminili o addirittura a un Oshima rivisitato dalla commedia cine-letteraria corale americana al femminile, da Piccole donne alle più recenti (film e serie) Sex and the City, Ragazze a Beverly Hills, Mean Girls del filone sul «Girl Power». Ne farà un film? «Se dovessi avere l’opportunità di trasporre in immagini questo libro non penserei a un film ma piuttosto a una miniserie di 5 o 6 episodi».

lunedì 30 marzo 2020

"Vita segreta di Maria Capasso" su Sky Cinema

Vita segreta di Maria Capasso sarà trasmesso su Sky Cinema il 1°, il 2 e il 3 aprile prossimi. A questo link il dettaglio della programmazione. Il film sarà disponibile anche nel catalogo on demand sulla stessa piattaforma. Finalmente gli spettatori interessati, almeno quelli abbonati a Sky, hanno la possibilità di vedere il film.
Vita segreta di Maria Capasso è passato infatti come una meteora nel circuito delle sale italiane. E' stato distribuito in piena estate, a luglio inoltrato, in appena 41 copie, e non sul tutto il territorio nazionale (nessuna copia nel nord e in particolare nelle grandi città), praticamente senza pubblicità, se si esclude un po' di cartellonistica a Napoli. Gli è stata negata perfino la tradizionale proiezione per i critici. E' difficile comprendere il senso, anche dal punto di vista commerciale, di un'uscita siffatta; che ha impedito al film un'eventuale partecipazione ai maggiori festival estivi e autunnali e, quello che più conta, un vero confronto col pubblico.
Nella sezione "film" di questo blog trovate la scheda tecnica del film e tre recensioni: Francesca Divella, dal blog Cinefilia Ritrovata della Cineteca di Bologna, 18 luglio 2019; Paolo Baldini dal Corriere della Sera, 21 luglio 2019; Alberto Castellano da Fata Morgana, 21 luglio 2019.

venerdì 27 marzo 2020

"La comune di Bagnaia - Un frammento di utopia" su YouTube

https://www.youtube.com/watch?v=CnC68DXZZ-g
Proprio in questi giorni Carla Apuzzo, Huub Nijhuis ed io avremmo dovuto presentare ai "Giorni di Orosia" (una manifestazione piemontese dedicata quest'anno alle esperienze di vita comunitaria) un nostro documentario del 2005 sulla comune di Bagnaia (vedi la scheda nella sezione "film" di questo blog). Il film, accompagnato da Alfredo Camozzi e Amy Kabat, due membri storici di Bagnaia, sarebbe stato poi proiettato, insieme a "La Cecilia" (1975) di Jean Louis Comolli e al più recente “Voci dal silenzio” di Joshua Wahlen e Alessandro Seidita, al cinema Massimo di Torino e in una sala di Milano. Poiché tutto ciò non è stato evidentemente possibile, chi fosse interessato a vedere il nostro documentario può trovarlo a questo link:

https://www.youtube.com/watch?v=CnC68DXZZ-g



venerdì 21 febbraio 2020

Emma e il poliamore, un romanzo

E' appena uscito, per ora solo in ebook, ed è disponibile su tutte le piattaforme on line (Amazon, Kobo, Ibs, Mondadori, La Feltrinelli, Streetlib, ecc.) il mio nuovo romanzo Emma e il Poliamore. Di seguito una succinta presentazione e una mia nota tratte dal libro.


Presentazione

Emma e poi Matteo, Livia, Thomas, Céline, Aurore, Yannick, Luc… Sullo sfondo di quel nuovo paradigma delle relazioni amorose che si definisce poliamore, molte storie si intrecciano in questo romanzo – tra Italia, Francia, India, Stati Uniti – e vanno a comporre un piccolo affresco della moderna libertà amorosa, contro ogni forma di ricorrente oscurantismo.                                                                                           
Nota dell’autore

Amare più di una persona contemporaneamente, col consenso di tutti coloro che vi sono coinvolti. Si potrebbe sintetizzare così il principio base del poliamore (dall’inglese polyamory), questa nuova frontiera dei rapporti amorosi. Il rifiuto della monogamia e fenomeni quali la coppia aperta o l’amore libero (ben noti a quelli della mia generazione) non sono certamente nuovi, ma qui l’accento è posto su un approccio responsabile, onesto, aperto, non possessivo, in definitiva etico (si intitola non a caso The Ethical Slut uno dei libri-manifesto del poliamore, scritto da due donne, Dossie Easton e Janet W. Hardy); il che esclude, almeno in linea di principio, pratiche quali lo scambismo o in generale quello che gli americani chiamano sport sex. Col tempo il poliamore è andato sempre più costituendosi come un vero e proprio movimento che partendo dagli Stati Uniti si è rapidamente diffuso in molti paesi, compresa l’Italia, con la creazione di gruppi organizzati, siti internet, incontri, convegni, gruppi di supporto e gruppi social.

Il mio interesse nei confronti del poliamore (sebbene io sia monogamo) data ormai da parecchi anni e si spiega con le sue implicazioni sociali e di costume. La rottura, o l’apertura, della coppia tradizionale annuncia infatti la messa in discussione della famiglia nucleare, del rapporto tradizionale con i figli, del convenzionale approccio al sesso e così via; dunque un cambiamento sostanziale nei rapporti parentali e di genere, una piccola rivoluzione non solo nel costume.

Negli anni ho raccolto sull’argomento parecchio materiale, di vario genere, ma anche, qua e là, storie e testimonianze di prima mano, che alla fine si sono coagulate in questo romanzo, che spero possa risultare appassionante come tale e al contempo offrire spunti di riflessione sui sommovimenti meno visibili che innervano il nostro presente.

mercoledì 23 gennaio 2019

L'imitazione della vita, la postfazione di Gino Frezza

Gino Frezza
Un modello di critica filmica generazionale

La pubblicazione degli scritti di cinema prodotti, nell’arco di quasi mezzo secolo, da Salvatore Piscicelli costituisce non soltanto un valore in sé (essendo Piscicelli un autore del cinema italiano con, ormai, al suo attivo quasi quattro decenni di responsabilità creativa, e la cui esemplarità attiene sia al suo particolare modo di produrre, sia alla qualità delle storie narrate nei suoi film, in grado di anticipare fatti e fenomeni di incidenza sociale) ma anche una testimonianza speciale.
Chi legge, infatti, i suoi scritti di cinema da un lato può ricostruire la soggettività individuale del modo di esaminare e valutare il cinema da parte del “critico” e “saggista” Piscicelli (ricordiamo, in proposito, che egli forma la sua esperienza di uomo di cinema prima come critico, poi come autore, seguendo la linea di continuità già avviata e sperimentata, all’inizio degli anni sessanta, dai critici-registi della nouvelle vague francese, sull’onda di quel vivo legame istituito fra critica e produzione-regia nel cinema italiano degli anni Trenta/Cinquanta – basti pensare a figure come Blasetti, Antonioni, De Santis, Pietrangeli, ecc. L’autore Piscicelli che si afferma già col suo primo capolavoro, Immacolata e Concetta, nel 1980, viene preceduto in questo, nei tardi Anni Sessanta, per la sua precedente formazione da critico, forse soltanto da Dario Argento e pochi altri).
Ma dall’altro, per tramite di tali scritti, il lettore potrà risalire all’esperienza appunto soggettiva di una intera generazione di appassionati studiosi del cinema. I quali negli anni Settanta (specialmente nella prima metà, anteriormente all’avvento del cinema digitale che, radicalmente, cambia la scena del possibile filmico, a partire dal successo epocale di Star Wars nel 1977) valutano una serie di questioni nuove che, nei decenni precedenti, non avevano avuto motivo d’emergere e che, invece, da quel periodo, diventano questioni stringenti, importanti, decisive. Non soltanto per Piscicelli ma per l’insieme delle voci critiche che, fra tardi Anni Sessanta e primi Settanta, fanno venir fuori le tendenze di una posizione critica non assoggettata, che intende andare a fondo e non limitarsi a seguire la linea teorica dei padri, ma vuole accertarsi dei rapporti fra cinema e società, cinema e mondo, cinema e nuove realtà che si impongono in quel quadrivio di anni.
È una serie di interessi preminenti e di domande sul cinema che vengono sollecitate sia nei luoghi dove Piscicelli scrive (il quotidiano l’Avanti, la rivista Cinema Sessanta) sia sulle riviste che, appunto, fanno tendenza e sulle quali scrivono coloro che faranno un analogo salto dalla critica alla regia, dalla teoria alla produzione (soltanto due nomi: Maurizio Ponzi, Gianni Amelio): Cinema&Film (che inizia nel 1966 e chiude nel 1970), la più “istituzionale” Bianco&Nero collegata al Centro Sperimentale, Filmcritica (già esistente dagli anni Cinquanta e tuttora longeva e operante). Dentro questi spazi di dibattito e di riflessione, la questione dominante in quello scorcio dei primi Anni Settanta è come intendere il rapporto fra cinema e società, e fra cinema e politica, diversamente da un marxismo pedissequamente referenzialista (in polemica con riviste come Cinema Nuovo che portano avanti posizioni di stampo lukacsiano e vivamente ideologiche).
Veniamo per esempio al rapporto fra cinema e politica, sul quale Piscicelli scrive un saggio che, nell’ambito della teoria del cinema, si ispira quasi completamente al Walter Benjamin di L’autore come produttore, dunque secondo uno sguardo teorico fortemente innovativo, solidale con quelle nuove opzioni di teoria della cultura e dei media che, proprio in quegli anni, muovono i loro primi passi cercando una feconda interazione fra media, società e cultura, e secondo una versione non deterministica dei rapporti fra politica e media.
Fra i vari temi discussi, diviene dirimente la relazione fra cinema classico e cinema moderno: di qui l’interesse che, nelle recensioni come negli scritti di più ampio respiro, Piscicelli dimostra per autori come Chaplin, Mankiewicz, Cukor, Huston, Aldrich, Siegel, in ambito occidentale, e per un autore eccelso come Mizoguchi in ambito orientale. Alcuni film recensiti da Piscicelli costituiscono l’indimenticabile esperienza generazionale di una comunità di spettatori che si riconobbe in film come In viaggio con la zia (di Cukor) o Gli insospettabili (di Mankiewicz) o Chi ucciderà Charlie Varrick (di Siegel) perché identificò al loro interno i fermenti attorno ai quali il cinema classico, nelle opere di alcuni anziani e grandi autori di Hollywood, era definitivamente e irreversibilmente mutato.
E per quanto riguarda Mizoguchi, regista dalla sconvolgente modernità espressiva, Piscicelli scrive un saggio davvero ammirevole, alla ricerca di quegli elementi che uniscano forma e contenuto in una unità inscindibile – da lui identificati nel modo di Mizoguchi d’intendere e di praticare la profondità di campo e il piano sequenza, a loro volta intesi secondo il modo giapponese di praticare e intendere il rapporto fra teatro e cinema. Il Mizoguchi interpretato da Piscicelli non si riduce a una idea di cinema “realistico” o “poetico” o “umanista” (qui il nostro critico è implicitamente polemico verso le maniere semplificatrici della teoria critica italiana dell’epoca) ma diventa il campione di una ricerca formale ed espressiva (le nozioni di intensità e di durata del piano sequenza sono elaborate da Piscicelli con chiarezza stringente, al fine di pervenire al fondo delle competenze di un cinema esemplarmente drammatico e tuttavia in grado di sdoppiarsi in una sorta di sguardo metafilmico, riflessivo sullo statuto del medium – appunto a cavallo di una profonda unità fra teatro e cinema).
Nei suoi scritti fanno altresì capolino tematiche apparentemente speciali come il rapporto fra cinema e psicoanalisi (tema sul quale Piscicelli scrive un saggio ancora oggi estremamente attuale, intriso, com’è, dei fermenti, allora vivi, tessuti dalla svolta operata, nella psicoanalisi, da Lacan sulla scia di Freud, e dalle coeve opzioni interpretative della semiotica). Non era facile negli anni Settanta affrontare il dibattito sui rapporti fra cinema e psicoanalisi senza fare i conti con il retroterra di un pensiero marxista talvolta spintamente riduttivo della complessità dei media, eppure Piscicelli vi riesce, come egli stesso scrive, “al di fuori di ogni improvvisato amalgama tra marxismo e psicoanalisi, sociologia e psicoanalisi”.
O ancora vengono trattate le relazioni esplicite, o viceversa sotterranee ma cogenti, o persino concorrenti, fra cinema italiano e cinema americano: un cinema, quest’ultimo, che resta in ogni caso un termine di paragone essenziale rispetto al quale il nostro cinema deve, insieme, affermare la sua individualità ma, d’altronde, non può non prendere a esempio e sulla base del quale rintracciare e ribadire una sua tipica forma d’essere.
Gli anni in cui Piscicelli interviene su questi argomenti sono gli stessi – quelli dal 1970 al 1975 – in cui emerge il new american cinema (il cinema di registi che mutano la tradizione filmica statunitense come Peckinpah o Penn, Pakula o Friedkin o Ashby, o quello decisamente innovatore di giovani – lo erano allora – come Spielberg, Scorsese, De Palma, Lucas, Schrader, Milius, Hellman ecc.) verso cui l’attenzione critica di coloro (come appunto il nostro critico, futuro regista) che esaminano l’orizzonte verso cui si muove la nuova espressività del cinema americano è massima, fortemente e vivamente sensibile. Ecco allora che gli scritti dedicati a vari film di registi in quegli anni sulla cresta dell’onda (partendo dal Sam Peckinpah di Getaway e passando per i primi film di Woody Allen o di Peter Bogdanovich, per finire con il Martin Scorsese di America 1929 e di Mean Streets), segnalano una necessità fortissima: riconoscere lo statuto di una diversa qualità del rapporto fra narrazione e montaggio delle immagini e del sonoro (a quest’ultimo Piscicelli subito riconosce il valore autonomo che gli spetta nell’economia della forma cinematografica).
Gli scritti di Piscicelli si muovono in quel contesto e lo restituiscono, e anche lo interpretano e lo orientano, con una spiccata personalità. La quale non si sottrae a esigenze fondative della propria posizione critica.
Per esempio, in relazione al cinema italiano. Sul quale l’attenzione del nostro critico è avveduta con un raggio ampio di analisi e di notazioni. Proprio su questo tema, bisogna ribadire come la formazione del critico Piscicelli si costituisca entro una serie di esperienze importanti, che valgono – di nuovo! – per tutta la sua generazione: anzitutto, l’aver partecipato e aver potuto visionare le due rassegne dedicate al cinema italiano degli Anni Trenta e Quaranta, e tenute, nel 1975 e 1976, alla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro (Mostra per la quale Piscicelli fu uno dei responsabili organizzativi per anni, accanto a Lino Micciché). Tali rassegne modificarono l’idea del sistema produttivo e della qualità complessiva che il nostro cinema aveva saputo tenere già negli anni del regime fascista, con una libertà espressiva e una maturità teorica e culturale che, appunto, emerse con segno netto e distinto (restituito, inoltre, da una serie di quaderni di documentazione che la Mostra pubblicò e che, a tutt’oggi, restano fondamentali per testimoniare l’articolazione complessa di quella stagione creativa e produttiva – Aprà 1975, AA.VV. 1976).
Il saggio di Piscicelli dedicato al cinema di Alessandro Blasetti, Ferdinando Poggioli e Mario Camerini interviene in quest’ambito, rivendicando la necessità di rifare per intero l’indagine sul cinema italiano, secondo una più accorta, rispetto ad anni passati, “metodologia storiografica”, in grado di scrutarne le direzioni complessive, senza il peso di ideologie colpevoli di equivoci e di riduzioni nel giudizio complessivo (a partire proprio dal rapporto che il cinema italiano degli anni Trenta e primi Quaranta ebbe modo di tessere e praticare col Neorealismo).
Ma numerosi e vari, fra loro, sono altri scritti dedicati da Piscicelli a registi e a tendenze del cinema italiano del decennio dei Settanta, in una indiretta ma percepibile relazione colta nei confronti di forme espressive che, intanto, emergono nel cinema europeo (facendo venire a galla l’attenzione costante che egli ha tenuto verso il cinema francese e tedesco in particolare). Qui forse è utile operare una divergenza cronologica, che ci colloca in un periodo lontano dagli anni Settanta, ossia iniziare da un saggio che il nostro critico-regista pubblica nel 2002 (si tratta in verità della trascrizione di una conferenza tenuta alla Scuola Nazionale di Cinema a Roma nel 1999) e che riguarda la decisiva figura di Roberto Rossellini.
Si tratta però di una divergenza meramente occasionale, in quanto lo sguardo di Piscicelli restituito verso Rossellini a fine degli Anni Novanta dà conto di una conoscenza e di una prossimità da lui sempre coltivata nei confronti di questo iniziatore del Neorealismo (dunque in qualche modo sedimentata e cresciuta prima e durante gli Anni Settanta, quando il nostro regista faceva appunto il critico). Non a caso Piscicelli interpreta questo maestro capitale del cinema italiano (ritenuto, con le sue parole, “il padre della nostra modernità cinematografica”) nei termini del filosofo e del santo. Lo dice Piscicelli medesimo: non è una provocazione questa coppia di termini che sembrano inappropriati per Rossellini, semmai sono una chiave di lettura che penetra nel fondo della tensione che il regista di Roma città aperta e di Paisà (e altresì di opere fondanti il cinema moderno del secondo dopoguerra, così come di una ineguagliata maniera di fare “cinema televisivo”) ha sempre voluto e saputo praticare (sia come tensione espressiva sia, anzitutto, come tensione morale) fra il cinema e il reale. Fra il set e il pro-filmico, fra la tecnologia dell’innovazione filmica e la struttura del reale che questo straordinario occhio tecnologico incamera (letteralmente) e produce come immagine emozionalmente profonda, in grado di scuotere coscienze, quindi responsabilmente educativa. Anche il cinema televisivo di Rossellini per Piscicelli segue, sì, un programma di educazione didascalica ma non è né semplice né banale, tutt’altro: piuttosto al suo interno “illuminismo e enciclopedismo” pongono in atto una sorta di “utopia mediatica di formazione integrale”.
In questi passi, il critico riappare assieme al regista, esprimendo un’ammirazione feconda, per la quale egli da un lato vuole porsi da allievo, seppure a distanza, seppure su scala diversa e non del tutto comparabile, del grande maestro italiano, e dall’altro riesce a gettare uno sguardo, non riconciliato, in grado di precisare (come pochi hanno fatto) i dilemmi che Rossellini si è posto e a cui ha voluto dedicare una intera vita di creazioni e di progetti.
Si tratta dei dilemmi che si ripresentano tutte le volte che il cinema italiano osservato dal nostro critico-regista si mostra degno di esame e di approfondimenti. Il lettore dei suoi scritti può così constatare come l’attenzione verso il nostro cinema sia poliedrica e disposta ad ampio raggio: ecco le analisi sui film di esperti autori di commedie (dal Comencini di Lo scopone scientifico e di Delitto d’amore al Monicelli di Vogliamo i colonnelli e di Romanzo popolare al Lattuada di Cuore di cane, film che Piscicelli valuta come una bella “impennata” nella filmografia di un grande maestro, sempre dotato di vivissima intelligenza soprattutto nella complessa e ben riuscita traduzione filmica dell’opera letteraria di Bulgakov).
Ma, anche, ecco le attente e non peregrine recensioni dei film di autori sperimentali: non soltanto del Carmelo Bene di Salomé ma anche di Mario Schifano regista di Umano non umano e del Gianni Toti regista di E di Shaul e dei sicari sulle vie di Damasco. Non mancano nemmeno osservazioni molto precise su quegli autori che segnano una via mediana fra lo sperimentalismo e il film di produzione commerciale e tuttavia impegnata in una via “critica” della rappresentazione della realtà e della Storia: dal Marco Leto di La villeggiatura al Nelo Risi di La colonna infame al Maurizio Ponzi de Il caso Raoul al Peter Del Monte di Irene Irene al caso del tutto anomalo (nell’insieme, essendo collegato al mondo pasoliniano eppure libero e autonomo da questo), e tuttavia magistrale, come il Sergio Citti di Storie scellerate. Si tratta dunque di un panorama che conta, nel decennio dei Settanta, una varietà di posizioni ma tutte disposte a partire da un atteggiamento di rinnovamento, nel tentativo – insieme differenziato e generoso, talvolta impervio ma talora ben congegnato – di corrispondere a una società italiana che, dalla seconda metà dei Sessanta ai primi Settanta, si sta radicalmente modificando, sia politicamente che socialmente.
C’è tuttavia un saggio, scritto anche questo successivamente epperò specificamente dedicato al rapporto fra cinema e ideologia negli anni ‘80 in Italia, che interviene nel merito della forbice fra i due decenni (fine Settanta e inizio Ottanta), mostrando chiaramente come lo scenario nel secondo decennio sia completamente mutato rispetto a quello precedente; anche qui la divergenza temporale del saggio (datato nel 1999) ha una relativa importanza, perché Piscicelli dimostra anzitutto che la sua riflessione proviene da uno sguardo attento da vario tempo e dal costante interrogarsi sugli orizzonti del nostro cinema. Di qui una spiccata perspicacia, insieme politica e teorica, tuttavia non scevra di amarezza per il fatto che, negli anni Ottanta, si dissolva l’asse strategico e culturale che aveva nutrito le spinte laiche e critiche del cinema italiano. La sua analisi è davvero lucida e, per noi, ampiamente condivisibile: è nel cambiamento dei rapporti fra i media e la società, e specialmente fra media e politica, che si possono individuare i motivi per cui il cinema italiano – “abbandonato a se stesso” dalle forze politiche di quel decennio – diviene progressivamente subalterno alle logiche del duopolio televisivo e quindi viene spinto a “modellare tematiche e linguaggi…in una fatale rincorsa” che riduce vistosamente la ricchezza creativa e produttiva dispiegata nel decennio precedente, ricchezza che, quindi, si trasforma nella corsa all’ “appiattimento” e al “conformismo”.
Con questo giudizio Piscicelli esprime un forte disincanto per come la situazione generale del cinema italiano stia muovendo verso la spinta riduzione di quella effervescenza (anzitutto politica e poi morale, altresì libera da autocensure o da tabu inaccettabili) che nei Settanta aveva, invece, dispiegato una innegabile forza creativa. Si può leggere in trasparenza, in questo saggio, quasi come una difficoltà propria a convivere con un sistema in cui non è più tanto possibile operare in continuità con una certa libertà di proposta. Ma il disincanto di Piscicelli, fortunatamente, non corrisponde alla sua lucidità, che resta vigile.
Difatti, da questo punto di vista, non è solo il cinema italiano a costituire un suo privilegiato luogo di interesse, perché il nostro critico-autore non manca di seguire le tendenze più significative che riguardano (l’abbiamo già detto) il cinema europeo. Negli anni Settanta, il critico non manca di seguire le uscite dei film riconducibili agli autori della nouvelle vague francese: da Godard (il breve saggio su Tout va bien in «Cinema Sessanta») a Chabrol (la recensione sull’«Avanti» a Nada, ossia Sterminate gruppo Zero), allo Jacques Rivette di Celine et Julie vont en bateau (un cineasta modernissimo, che la mia generazione ebbe appunto modo di conoscere integralmente grazie a una retrospettiva completa della Mostra di Pesaro nel 1974, quindi anche grazie a Piscicelli) e, soprattutto, gli scritti dedicati a uno scrittore-regista, oggi parecchio dimenticato ma allora presente nel dibattito culturale, come Alain Robbe-Grillet. Su questo autore e sui suoi film, Piscicelli mette in gioco la sua doppia passione per la letteratura e il cinema, una passione che torna, poi, inevitabilmente in anni più recenti (si veda il saggio pubblicato nel suo blog sul film Inherent Vice tratto da Thomas Pynchon e quello su Carol, in cui Piscicelli dimostra di saper vedere molto dettagliatamente il lavoro di trasformazione che il regista Todd Haynes ha operato sul romanzo di Patricia Highsmith).
Il nostro critico-regista non manca di essere puntuale nelle radiografie analitiche del cinema tedesco e nordeuropeo: ecco, da un lato, gli scritti su Il caso Katarina Blum di Schlondorff e Von Trotta e l’intervista dedicata a un autore come Alexander Kluge (davvero bellissima per come restituisce l’angolazione creativa di un cineasta profondamente marxista).
A sua volta, l’attenzione per il cinema svedese si coglie sia nel bel saggio dedicato a Scene da un matrimonio di Ingmar Bergman (uno scritto dove pare che Piscicelli colga in Bergman istanze di analisi e di visione dei rapporti interpersonali che lui stesso porrà in gioco nei propri film) e soprattutto nel lungo e interessante saggio (apparso su «Cinema Sessanta») dedicato al film Adalen ‘31 di Widerberg. Interessante per diversi motivi: quello più esterno è che il saggio è scritto nel 1970, dunque nella primissima fase di lavoro del critico, che tuttavia si dimostra già molto acuto e sa articolare con circospezione, e diplomatico taglio nell’esposizione, una difficile analisi sull’ideologia del film per come questa si insinua nei procedimenti espressivi. Così, del film di Widerberg, Piscicelli coglie il lato affermativo della fiducia nel rappresentare la positività della classe operaia ma, insieme, direttamente, ne registra i limiti creativi e d’innovazione nella ricerca della forma espressiva.
In coda ai suoi vecchi saggi, questo volume presenta i suoi ultimi scritti, apparsi nel suo blog personale, tutti al solito ben redatti e qualcuno anche venato da profonda malinconia (come il bellissimo omaggio alla grande attrice dei film di Ozu, Setsuko Hara, pochi giorni prima della sua morte avvenuta nel 2015, novantacinquenne: uno scritto nel quale Piscicelli cerca di darsi una spiegazione del perché il contributo fornito da questa donna giapponese al cinema non abbia racchiuso la sua intera vita, essendosi Ella ritirata dagli schermi poco dopo la morte del suo regista, Ozu, nel 1963, forse a suggello del fatto che il cinema non è tutto nell’esperienza di vivere, anche se ne costituisce una parte importante).
A riguardo di questi ultimi scritti c’è una sola divergenza fra me e Piscicelli, ed è il giudizio negativo, impietoso, che lui dà al film American Sniper di Clint Eastwood. Questa divergenza non è tuttavia importante; ci sarà certamente occasione di discutere fra noi per tentare di comprendere, reciprocamente, quello che forse non è ancora stato capito, ma mi resta la domanda relativa a come, e perché, Piscicelli non abbia visto l’intensa duplicità, l’intrinseco e vitale-mortale legame, che il film di Eastwood traccia fra il cecchino americano e quello iracheno.
In conclusione, per il lettore italiano leggere gli scritti di cinema di Salvatore Piscicelli non solo consentirà di conoscere il pensiero analitico che egli possiede e che il nostro critico getta sul cinema collocato nello scenario politico e sociale contemporaneo (e che si tratti degli anni Settanta o del cinema di oggi, è relativamente importante; conta piuttosto il mettersi in moto di uno sguardo esaminatore sagace, abile a una visione di contesto come a porre in gioco puntualizzazioni verificabili) ma, nel contempo, fornirà la prova che lo stesso cinema di Piscicelli sorge da molto lontano, esprimendo interessi e focalizzazioni di lunga gittata e di profonda elaborazione intellettuale e culturale.



giovedì 3 gennaio 2019

Intervista a Salvatore Piscicelli

Intervista a Salvatore Piscicelli, a cura di Alberto Castellano, sul numero del 29 dicembre 2018 di Alias, il supplemento culturale del quotidiano Il Manifesto.
Questo il link per accedere al pdf:

https://drive.google.com/file/d/1bkOBVtucuzBPIflkS27HwKYcpfJQ4TLI/view