Un modello di critica filmica generazionale
La
pubblicazione degli scritti di cinema prodotti, nell’arco di quasi
mezzo secolo, da Salvatore Piscicelli costituisce non soltanto un
valore in sé (essendo Piscicelli un autore del cinema italiano con,
ormai, al suo attivo quasi quattro decenni di responsabilità
creativa, e la cui esemplarità attiene sia al suo particolare modo
di produrre, sia alla qualità delle storie narrate nei suoi film, in
grado di anticipare fatti e fenomeni di incidenza sociale) ma anche
una testimonianza speciale.
Chi
legge, infatti, i suoi scritti di cinema da un lato può ricostruire
la soggettività individuale del modo di esaminare e valutare il
cinema da parte del “critico” e “saggista” Piscicelli
(ricordiamo, in proposito, che egli forma la sua esperienza di uomo
di cinema prima come critico, poi come autore, seguendo
la linea di continuità già avviata e sperimentata, all’inizio
degli anni sessanta, dai critici-registi della nouvelle vague
francese, sull’onda di quel vivo legame istituito fra critica e
produzione-regia nel cinema italiano degli anni Trenta/Cinquanta –
basti pensare a figure come Blasetti, Antonioni, De Santis,
Pietrangeli, ecc. L’autore Piscicelli che si afferma già
col suo primo capolavoro, Immacolata e Concetta, nel 1980,
viene preceduto in questo, nei tardi Anni Sessanta, per la sua
precedente formazione da critico, forse soltanto da Dario Argento e
pochi altri).
Ma
dall’altro, per tramite di tali scritti, il lettore potrà risalire
all’esperienza appunto soggettiva di una intera generazione
di appassionati studiosi del cinema. I quali negli anni Settanta
(specialmente nella prima metà, anteriormente all’avvento del
cinema digitale che, radicalmente, cambia la scena del possibile
filmico, a partire dal successo epocale di Star Wars nel
1977) valutano una serie di questioni nuove che, nei decenni
precedenti, non avevano avuto motivo d’emergere e che, invece, da
quel periodo, diventano questioni stringenti, importanti, decisive.
Non soltanto per Piscicelli ma per l’insieme delle voci critiche
che, fra tardi Anni Sessanta e primi Settanta, fanno venir fuori le
tendenze di una posizione critica non assoggettata, che intende
andare a fondo e non limitarsi a seguire la linea teorica dei padri,
ma vuole accertarsi dei rapporti fra cinema e società, cinema e
mondo, cinema e nuove realtà che si impongono in quel quadrivio di
anni.
È
una serie di interessi preminenti e di domande sul cinema che vengono
sollecitate sia nei luoghi dove Piscicelli scrive (il quotidiano
l’Avanti, la rivista Cinema Sessanta) sia sulle
riviste che, appunto, fanno tendenza e sulle quali scrivono coloro
che faranno un analogo salto dalla critica alla regia, dalla teoria
alla produzione (soltanto due nomi: Maurizio Ponzi, Gianni Amelio):
Cinema&Film (che inizia nel 1966 e chiude nel 1970), la
più “istituzionale” Bianco&Nero collegata al Centro
Sperimentale, Filmcritica (già esistente dagli anni Cinquanta
e tuttora longeva e operante). Dentro questi spazi di dibattito e di
riflessione, la questione dominante in quello scorcio dei primi Anni
Settanta è come intendere il rapporto fra cinema e società, e fra
cinema e politica, diversamente da un marxismo pedissequamente
referenzialista (in polemica con riviste come Cinema Nuovo che
portano avanti posizioni di stampo lukacsiano e vivamente
ideologiche).
Veniamo
per esempio al rapporto fra cinema e politica, sul quale Piscicelli
scrive un saggio che, nell’ambito della teoria del cinema, si
ispira quasi completamente al Walter Benjamin di L’autore come
produttore, dunque secondo uno sguardo teorico fortemente
innovativo, solidale con quelle nuove opzioni di teoria della cultura
e dei media che, proprio in quegli anni, muovono i loro primi passi
cercando una feconda interazione fra media, società e cultura, e
secondo una versione non deterministica dei rapporti fra politica e
media.
Fra
i vari temi discussi, diviene dirimente la relazione fra cinema
classico e cinema moderno: di qui l’interesse che, nelle recensioni
come negli scritti di più ampio respiro, Piscicelli dimostra per
autori come Chaplin, Mankiewicz, Cukor, Huston, Aldrich, Siegel, in
ambito occidentale, e per un autore eccelso come Mizoguchi in ambito
orientale. Alcuni film recensiti da Piscicelli costituiscono
l’indimenticabile esperienza generazionale di una comunità di
spettatori che si riconobbe in film come In viaggio con la zia
(di Cukor) o Gli insospettabili (di Mankiewicz) o Chi
ucciderà Charlie Varrick (di Siegel) perché identificò al loro
interno i fermenti attorno ai quali il cinema classico, nelle opere
di alcuni anziani e grandi autori di Hollywood, era definitivamente e
irreversibilmente mutato.
E
per quanto riguarda Mizoguchi, regista dalla sconvolgente modernità
espressiva, Piscicelli scrive un saggio davvero ammirevole, alla
ricerca di quegli elementi che uniscano forma e contenuto in una
unità inscindibile – da lui identificati nel modo di Mizoguchi
d’intendere e di praticare la profondità di campo e il piano
sequenza, a loro volta intesi secondo il modo giapponese di praticare
e intendere il rapporto fra teatro e cinema. Il Mizoguchi
interpretato da Piscicelli non si riduce a una idea di cinema
“realistico” o “poetico” o “umanista” (qui il nostro
critico è implicitamente polemico verso le maniere semplificatrici
della teoria critica italiana dell’epoca) ma diventa il campione di
una ricerca formale ed espressiva (le nozioni di intensità e
di durata del piano sequenza sono elaborate da Piscicelli con
chiarezza stringente, al fine di pervenire al fondo delle competenze
di un cinema esemplarmente drammatico e tuttavia in grado di
sdoppiarsi in una sorta di sguardo metafilmico, riflessivo sullo
statuto del medium – appunto a cavallo di una profonda unità fra
teatro e cinema).
Nei
suoi scritti fanno altresì capolino tematiche apparentemente
speciali come il rapporto fra cinema e psicoanalisi (tema sul quale
Piscicelli scrive un saggio ancora oggi estremamente attuale,
intriso, com’è, dei fermenti, allora vivi, tessuti dalla svolta
operata, nella psicoanalisi, da Lacan sulla scia di Freud, e dalle
coeve opzioni interpretative della semiotica). Non era facile negli
anni Settanta affrontare il dibattito sui rapporti fra cinema e
psicoanalisi senza fare i conti con il retroterra di un pensiero
marxista talvolta spintamente riduttivo della complessità dei media,
eppure Piscicelli vi riesce, come egli stesso scrive, “al di
fuori di ogni improvvisato amalgama tra marxismo e psicoanalisi,
sociologia e psicoanalisi”.
O
ancora vengono trattate le relazioni esplicite, o viceversa
sotterranee ma cogenti, o persino concorrenti, fra cinema italiano e
cinema americano: un cinema, quest’ultimo, che resta in ogni caso
un termine di paragone essenziale rispetto al quale il nostro cinema
deve, insieme, affermare la sua individualità ma, d’altronde, non
può non prendere a esempio e sulla base del quale rintracciare e
ribadire una sua tipica forma d’essere.
Gli
anni in cui Piscicelli interviene su questi argomenti sono gli stessi
– quelli dal 1970 al 1975 – in cui emerge il new american cinema
(il cinema di registi che mutano la tradizione filmica statunitense
come Peckinpah o Penn, Pakula o Friedkin o Ashby, o quello
decisamente innovatore di giovani – lo erano allora – come
Spielberg, Scorsese, De Palma, Lucas, Schrader, Milius, Hellman ecc.)
verso cui l’attenzione critica di coloro (come appunto il nostro
critico, futuro regista) che esaminano l’orizzonte verso cui si
muove la nuova espressività del cinema americano è massima,
fortemente e vivamente sensibile. Ecco allora che gli scritti
dedicati a vari film di registi in quegli anni sulla cresta dell’onda
(partendo dal Sam Peckinpah di Getaway e passando per i primi
film di Woody Allen o di Peter Bogdanovich, per finire con il Martin
Scorsese di America 1929 e di Mean Streets), segnalano
una necessità fortissima: riconoscere lo statuto di una diversa
qualità del rapporto fra narrazione e montaggio delle immagini e del
sonoro (a quest’ultimo Piscicelli subito riconosce il valore
autonomo che gli spetta nell’economia della forma cinematografica).
Gli
scritti di Piscicelli si muovono in quel contesto e lo restituiscono,
e anche lo interpretano e lo orientano, con una spiccata personalità.
La quale non si sottrae a esigenze fondative della propria posizione
critica.
Per
esempio, in relazione al cinema italiano. Sul quale l’attenzione
del nostro critico è avveduta con un raggio ampio di analisi e di
notazioni. Proprio su questo tema, bisogna ribadire come la
formazione del critico Piscicelli si costituisca entro una serie di
esperienze importanti, che valgono – di nuovo! – per tutta la sua
generazione: anzitutto, l’aver partecipato e aver potuto visionare
le due rassegne dedicate al cinema italiano degli Anni Trenta e
Quaranta, e tenute, nel 1975 e 1976, alla Mostra Internazionale del
Nuovo Cinema di Pesaro (Mostra per la quale Piscicelli fu uno dei
responsabili organizzativi per anni, accanto a Lino Micciché). Tali
rassegne modificarono l’idea del sistema produttivo e della qualità
complessiva che il nostro cinema aveva saputo tenere già negli anni
del regime fascista, con una libertà espressiva e una maturità
teorica e culturale che, appunto, emerse con segno netto e distinto
(restituito, inoltre, da una serie di quaderni di documentazione che
la Mostra pubblicò e che, a tutt’oggi, restano fondamentali per
testimoniare l’articolazione complessa di quella stagione creativa
e produttiva – Aprà 1975, AA.VV. 1976).
Il
saggio di Piscicelli dedicato al cinema di Alessandro Blasetti,
Ferdinando Poggioli e Mario Camerini interviene in quest’ambito,
rivendicando la necessità di rifare per intero l’indagine sul
cinema italiano, secondo una più accorta, rispetto ad anni passati,
“metodologia storiografica”, in grado di scrutarne le direzioni
complessive, senza il peso di ideologie colpevoli di equivoci e di
riduzioni nel giudizio complessivo (a partire proprio dal rapporto
che il cinema italiano degli anni Trenta e primi Quaranta ebbe modo
di tessere e praticare col Neorealismo).
Ma
numerosi e vari, fra loro, sono altri scritti dedicati da Piscicelli
a registi e a tendenze del cinema italiano del decennio dei Settanta,
in una indiretta ma percepibile relazione colta nei confronti di
forme espressive che, intanto, emergono nel cinema europeo (facendo
venire a galla l’attenzione costante che egli ha tenuto verso il
cinema francese e tedesco in particolare). Qui forse è utile operare
una divergenza cronologica, che ci colloca in un periodo lontano
dagli anni Settanta, ossia iniziare da un saggio che il nostro
critico-regista pubblica nel 2002 (si tratta in verità della
trascrizione di una conferenza tenuta alla Scuola Nazionale di Cinema
a Roma nel 1999) e che riguarda la decisiva figura di Roberto
Rossellini.
Si
tratta però di una divergenza meramente occasionale, in quanto lo
sguardo di Piscicelli restituito verso Rossellini a fine degli Anni
Novanta dà conto di una conoscenza e di una prossimità da lui
sempre coltivata nei confronti di questo iniziatore del Neorealismo
(dunque in qualche modo sedimentata e cresciuta prima e durante gli
Anni Settanta, quando il nostro regista faceva appunto il critico).
Non a caso Piscicelli interpreta questo maestro capitale del cinema
italiano (ritenuto, con le sue parole, “il padre della nostra
modernità cinematografica”) nei termini del filosofo e del
santo. Lo dice Piscicelli medesimo: non è una provocazione
questa coppia di termini che sembrano inappropriati per Rossellini,
semmai sono una chiave di lettura che penetra nel fondo della
tensione che il regista di Roma città aperta e di Paisà
(e altresì di opere fondanti il cinema moderno del secondo
dopoguerra, così come di una ineguagliata maniera di fare “cinema
televisivo”) ha sempre voluto e saputo praticare (sia come tensione
espressiva sia, anzitutto, come tensione morale) fra il cinema e il
reale. Fra il set e il pro-filmico, fra la tecnologia
dell’innovazione filmica e la struttura del reale che questo
straordinario occhio tecnologico incamera (letteralmente) e produce
come immagine emozionalmente profonda, in grado di scuotere
coscienze, quindi responsabilmente educativa. Anche il cinema
televisivo di Rossellini per Piscicelli segue, sì, un programma di
educazione didascalica ma non è né semplice né banale, tutt’altro:
piuttosto al suo interno “illuminismo e enciclopedismo”
pongono in atto una sorta di “utopia mediatica di formazione
integrale”.
In
questi passi, il critico riappare assieme al regista, esprimendo
un’ammirazione feconda, per la quale egli da un lato vuole porsi da
allievo, seppure a distanza, seppure su scala diversa e non del tutto
comparabile, del grande maestro italiano, e dall’altro riesce a
gettare uno sguardo, non riconciliato, in grado di precisare (come
pochi hanno fatto) i dilemmi che Rossellini si è posto e a cui ha
voluto dedicare una intera vita di creazioni e di progetti.
Si
tratta dei dilemmi che si ripresentano tutte le volte che il cinema
italiano osservato dal nostro critico-regista si mostra degno di
esame e di approfondimenti. Il lettore dei suoi scritti può così
constatare come l’attenzione verso il nostro cinema sia poliedrica
e disposta ad ampio raggio: ecco le analisi sui film di esperti
autori di commedie (dal Comencini di Lo scopone scientifico e
di Delitto d’amore al Monicelli di Vogliamo i colonnelli
e di Romanzo popolare al Lattuada di Cuore di cane,
film che Piscicelli valuta come una bella “impennata”
nella filmografia di un grande maestro, sempre dotato di vivissima
intelligenza soprattutto nella complessa e ben riuscita traduzione
filmica dell’opera letteraria di Bulgakov).
Ma,
anche, ecco le attente e non peregrine recensioni dei film di autori
sperimentali: non soltanto del Carmelo Bene di Salomé ma
anche di Mario Schifano regista di Umano non umano e del
Gianni Toti regista di E di Shaul e dei sicari sulle vie di
Damasco. Non mancano nemmeno osservazioni molto precise su quegli
autori che segnano una via mediana fra lo sperimentalismo e il film
di produzione commerciale e tuttavia impegnata in una via “critica”
della rappresentazione della realtà e della Storia: dal Marco Leto
di La villeggiatura al Nelo Risi di La colonna infame
al Maurizio Ponzi de Il caso Raoul al Peter Del Monte di Irene
Irene al caso del tutto anomalo (nell’insieme, essendo
collegato al mondo pasoliniano eppure libero e autonomo da questo), e
tuttavia magistrale, come il Sergio Citti di Storie scellerate.
Si tratta dunque di un panorama che conta, nel decennio dei Settanta,
una varietà di posizioni ma tutte disposte a partire da un
atteggiamento di rinnovamento, nel tentativo – insieme
differenziato e generoso, talvolta impervio ma talora ben congegnato
– di corrispondere a una società italiana che, dalla seconda metà
dei Sessanta ai primi Settanta, si sta radicalmente modificando, sia
politicamente che socialmente.
C’è
tuttavia un saggio, scritto anche questo successivamente epperò
specificamente dedicato al rapporto fra cinema e ideologia negli anni
‘80 in Italia, che interviene nel merito della forbice fra i due
decenni (fine Settanta e inizio Ottanta), mostrando chiaramente come
lo scenario nel secondo decennio sia completamente mutato rispetto a
quello precedente; anche qui la divergenza temporale del saggio
(datato nel 1999) ha una relativa importanza, perché Piscicelli
dimostra anzitutto che la sua riflessione proviene da uno sguardo
attento da vario tempo e dal costante interrogarsi sugli orizzonti
del nostro cinema. Di qui una spiccata perspicacia, insieme politica
e teorica, tuttavia non scevra di amarezza per il fatto che, negli
anni Ottanta, si dissolva l’asse strategico e culturale che aveva
nutrito le spinte laiche e critiche del cinema italiano. La sua
analisi è davvero lucida e, per noi, ampiamente condivisibile: è
nel cambiamento dei rapporti fra i media e la società, e
specialmente fra media e politica, che si possono individuare i
motivi per cui il cinema italiano – “abbandonato a se stesso”
dalle forze politiche di quel decennio – diviene progressivamente
subalterno alle logiche del duopolio televisivo e quindi viene spinto
a “modellare tematiche e linguaggi…in una fatale rincorsa”
che riduce vistosamente la ricchezza creativa e produttiva dispiegata
nel decennio precedente, ricchezza che, quindi, si trasforma nella
corsa all’ “appiattimento” e al “conformismo”.
Con
questo giudizio Piscicelli esprime un forte disincanto per come la
situazione generale del cinema italiano stia muovendo verso la spinta
riduzione di quella effervescenza (anzitutto politica e poi morale,
altresì libera da autocensure o da tabu inaccettabili) che nei
Settanta aveva, invece, dispiegato una innegabile forza creativa. Si
può leggere in trasparenza, in questo saggio, quasi come una
difficoltà propria a convivere con un sistema in cui non è più
tanto possibile operare in continuità con una certa libertà di
proposta. Ma il disincanto di Piscicelli, fortunatamente, non
corrisponde alla sua lucidità, che resta vigile.
Difatti,
da questo punto di vista, non è solo il cinema italiano a
costituire un suo privilegiato luogo di interesse, perché il nostro
critico-autore non manca di seguire le tendenze più significative
che riguardano (l’abbiamo già detto) il cinema europeo. Negli anni
Settanta, il critico non manca di seguire le uscite dei film
riconducibili agli autori della nouvelle vague francese: da Godard
(il breve saggio su Tout va bien in «Cinema Sessanta») a
Chabrol (la recensione sull’«Avanti» a Nada, ossia
Sterminate gruppo Zero), allo Jacques Rivette di Celine et
Julie vont en bateau (un cineasta modernissimo, che la mia
generazione ebbe appunto modo di conoscere integralmente grazie a una
retrospettiva completa della Mostra di Pesaro nel 1974, quindi anche
grazie a Piscicelli) e, soprattutto, gli scritti dedicati a uno
scrittore-regista, oggi parecchio dimenticato ma allora presente nel
dibattito culturale, come Alain Robbe-Grillet. Su questo autore e sui
suoi film, Piscicelli mette in gioco la sua doppia passione per la
letteratura e il cinema, una passione che torna, poi, inevitabilmente
in anni più recenti (si veda il saggio pubblicato nel suo blog sul
film Inherent Vice tratto da Thomas Pynchon e quello su Carol,
in cui Piscicelli dimostra di saper vedere molto dettagliatamente il
lavoro di trasformazione che il regista Todd Haynes ha operato sul
romanzo di Patricia Highsmith).
Il
nostro critico-regista non manca di essere puntuale nelle radiografie
analitiche del cinema tedesco e nordeuropeo: ecco, da un lato, gli
scritti su Il caso Katarina Blum di Schlondorff e Von Trotta e
l’intervista dedicata a un autore come Alexander Kluge (davvero
bellissima per come restituisce l’angolazione creativa di un
cineasta profondamente marxista).
A
sua volta, l’attenzione per il cinema svedese si coglie sia nel bel
saggio dedicato a Scene da un matrimonio di Ingmar Bergman
(uno scritto dove pare che Piscicelli colga in Bergman istanze di
analisi e di visione dei rapporti interpersonali che lui stesso porrà
in gioco nei propri film) e soprattutto nel lungo e interessante
saggio (apparso su «Cinema Sessanta») dedicato al film Adalen
‘31 di Widerberg. Interessante per diversi motivi: quello più
esterno è che il saggio è scritto nel 1970, dunque nella primissima
fase di lavoro del critico, che tuttavia si dimostra già molto acuto
e sa articolare con circospezione, e diplomatico taglio
nell’esposizione, una difficile analisi sull’ideologia del film
per come questa si insinua nei procedimenti espressivi. Così, del
film di Widerberg, Piscicelli coglie il lato affermativo della
fiducia nel rappresentare la positività della classe operaia ma,
insieme, direttamente, ne registra i limiti creativi e d’innovazione
nella ricerca della forma espressiva.
In
coda ai suoi vecchi saggi, questo volume presenta i suoi ultimi
scritti, apparsi nel suo blog personale, tutti al solito ben redatti
e qualcuno anche venato da profonda malinconia (come il bellissimo
omaggio alla grande attrice dei film di Ozu, Setsuko Hara, pochi
giorni prima della sua morte avvenuta nel 2015, novantacinquenne: uno
scritto nel quale Piscicelli cerca di darsi una spiegazione del
perché il contributo fornito da questa donna giapponese al cinema
non abbia racchiuso la sua intera vita, essendosi Ella ritirata dagli
schermi poco dopo la morte del suo regista, Ozu, nel 1963, forse a
suggello del fatto che il cinema non è tutto nell’esperienza di
vivere, anche se ne costituisce una parte importante).
A
riguardo di questi ultimi scritti c’è una sola divergenza fra me e
Piscicelli, ed è il giudizio negativo, impietoso, che lui dà al
film American Sniper di Clint Eastwood. Questa divergenza non
è tuttavia importante; ci sarà certamente occasione di discutere
fra noi per tentare di comprendere, reciprocamente, quello che forse
non è ancora stato capito, ma mi resta la domanda relativa a come, e
perché, Piscicelli non abbia visto l’intensa duplicità,
l’intrinseco e vitale-mortale legame, che il film di Eastwood
traccia fra il cecchino americano e quello iracheno.
In
conclusione, per il lettore italiano leggere gli scritti di cinema di
Salvatore Piscicelli non solo consentirà di conoscere il pensiero
analitico che egli possiede e che il nostro critico getta sul cinema
collocato nello scenario politico e sociale contemporaneo (e che si
tratti degli anni Settanta o del cinema di oggi, è relativamente
importante; conta piuttosto il mettersi in moto di uno sguardo
esaminatore sagace, abile a una visione di contesto come a porre in
gioco puntualizzazioni verificabili) ma, nel contempo, fornirà la
prova che lo stesso cinema di Piscicelli sorge da molto lontano,
esprimendo interessi e focalizzazioni di lunga gittata e di profonda
elaborazione intellettuale e culturale.