Il titolo del volume che raccoglie i miei scritti di cinema
(
L'imitazione della vita, Meltemi Editore, 2018) allude a un celebre
film di Douglas Sirk del 1959, l'ultimo realizzato negli Stati Uniti dal
grande regista tedesco (
Imitation of Life in originale,
Lo specchio
della vita in italiano). "Imitazione" è da intendersi qui nella doppia
accezione: riprodurre con la maggiore approssimazione possibile ma anche
contraffare, simulare. Il cinema si colloca esattamente in questa ambivalenza.
Qui di seguito la prefazione al volume.
Una inalterata vivacità intellettualedi Alberto Castellano
Non
sono pochi nella storia del cinema gli autori/registi che hanno avuto
un rapporto intenso anche con la critica. Si è creato un intrigante
percorso teorico-pratico che lega appunto il “pensare” cinema e il
“fare” cinema, l’attività di critica/scrittura e quella delle riprese,
del set. In questo binomio che ha fatto diventare alcuni registi un
punto di riferimento sia in quanto autori di opere importanti che sono
spesso entrate nella storia del cinema, sia come teorici/pensatori di
cinema, bisogna distinguere però quelli che hanno messo in forma teorica
– chi in maniera sistematica, chi diffondendo il proprio pensiero
attraverso interventi sporadici e occasionali o interviste in alcuni
casi lunghe e diventate libri – il proprio pensiero contemporaneamente o
successivamente alla pratica del set e quelli che hanno gettato le basi
teoriche del proprio fare cinema prima di mettersi dietro la macchina
da presa o che comunque provengono dalla critica militante. Alla prima
categoria appartengono autori come Jean Epstein, Lev Kulešov, e
soprattutto i tre grandi della “scuola sovietica” (Ejzenštejn, Vertov,
Pudovkin) che hanno elaborato teoricamente le loro idee più o meno in
tempo reale rispetto al lavoro sul set, hanno scritto saggi e volumi
fondamentali mentre giravano, hanno
irrobustito i film che
facevano con la teoria e al tempo stesso hanno esemplificato con le loro
opere le (possibili) astrazioni teoriche, insomma hanno imposto un
rapporto sincronico tra teoria e pratica del cinema. Anche Zavattini ha
sistematizzato soprattutto negli anni '50 e '60 le teorie
neorealistiche, quindi dopo l'exploit del suo sodalizio con De Sica, e
Pasolini solo dopo
Accattone e
Il Vangelo secondo Matteo ha rivoluzionato le teorie semiologiche sul cinema con le sue “eretiche” intuizioni a partire da
Il cinema di poesia
(1965). Della seconda invece fanno parte naturalmente i francesi
critici d'assalto dei Cahiers du cinéma, futuri autori della Nouvelle
Vague e Tavernier, gli americani Schrader, Malick, Bogdanovich,
Scorsese, qualche autore del Nuovo Cinema Tedesco. Mentre per l’Italia
hanno fatto l'apprendistato con la critica il giovanissimo Antonioni
della fine degli anni '30, l'Antonio Pietrangeli degli anni '40 e il
Salvatore Piscicelli cinephile dei primi '70. Naturalmente in quasi
tutti i casi si è stimolati a individuare/verificare in che misura il
cinema dell’autore è impregnato delle sue opzioni critiche, se certe sue
riflessioni teoriche ed estetiche sono rispecchiate nei suoi film, se
sono evidenti o mascherate, se nella pratica c’è stata una
metabolizzazione concettuale di certi modelli stilistici, in quali forme
gli autori e i generi preferiti sono stati citati nelle opere, quali
sono le assonanze tra il cinema frequentato da giovani cinefili e quello
praticato da grandi. Quesiti che ovviamente valgono anche per
Piscicelli che però poi al tempo stesso si è ritagliato – come è
naturale che sia – uno spazio personale ed esclusivo per almeno tre
ordini di motivi. Intanto per il suo percorso esistenziale, politico e
intellettuale che lo ha portato dalla natia Pomigliano ai primi contatti
con l’ambiente intellettuale e cinematografico romano che produssero
molto giovane le prime collaborazioni con “l’Avanti” e un intenso
rapporto con Lino Miccichè che sfociò abbastanza presto in un ruolo
importante nella Mostra del Cinema di Pesaro fino all’esordio dietro la
macchina da presa con
Immacolata e Concetta. Insomma il
“mangiatore di film di provincia” (come s’intitola un famoso scritto di
Enzo Ungari della fine degli anni ’70 che introduceva il suo
Schermo delle mie brame)
fece il suo assalto a una prestigiosa rassegna internazionale. Poi a
differenza di casi analoghi di illustri colleghi anche stranieri, i suoi
scritti conservano un’inalterata vivacità intellettuale e lucidità
critica. È fisiologico che certi scritti giovanili invecchino, che
debbano fare i conti con le trasformazioni del cinema, del linguaggio
del cinema stesso e della critica, che certi furori iconoclasti di un
approccio cinefilo ai film possano essere riveduti e corretti (ma in
alcuni casi al contrario rileggendo delle critiche ci si trova difronte a
un atteggiamento conservatore). Nel caso delle recensioni giovanili di
Piscicelli o di certi scritti successivi su riviste specializzate o per
la Mostra del Cinema di Pesaro, scopriamo una sorprendente attualità dei
contenuti (le argomentazioni, l’analisi dei temi) e una piacevole
inossidabilità della forma (il lessico critico chiaro ma profondo,
divulgativo ma proiettato a ricondurre il singolo film a un contesto più
ampio e a un sistema comunicativo articolato). Non ultimo Piscicelli
continua a mantenere un feeling inalterato con il cinema e il cosiddetto
“grande schermo”. Quanti cineasti italiani e non solo della sua
generazione abbiamo visto perdere il contatto con il cinema
contemporaneo, smarrire l’entusiasmo e l’empatia con il cinema a 360
gradi, diventare autoreferenziali, provare disinteresse per il cinema
degli altri, esse
fil rouge che lega il Piscicelli critico al
Piscicelli cineasta è proprio il duplice rapporto con il cinema classico
e popolare e con le Nouvelle Vagues e la sperimentazione. Rapporto che
nei film non prende la forma della citazione cinefila esplicita e in
alcuni casi pedante, ma viene metabolizzato nel linguaggio e nello
stile. Il suo film d’esordio
Immacolata e Concetta esemplifica
questo concetto come meglio non si potrebbe facendo incontrare il
melodramma popolare e Ozu, la sceneggiata e Fassbinder. Come nella
produzione critica si riscontra la scelta di parlare di cinema “alto” e
“basso”, di cinema italiano ordinario e di capolavori americani, di film
di consumo e di opere sofisticate e la scrittura evidenzia
l’intenzione/la capacità di esporre in maniera chiara ma problematica,
scorrevole ma densa le questioni sollevate. Complice anche il contesto
di un quotidiano come l’”Avanti!”, dove lui ha fatto l’apprendistato
critico, che anche se organo socialista aveva le regole della lunghezza
limitata, della chiarezza per chi lo legge, comuni a tutti i giornali.
Insomma in questi casi si tratta di diversificare l’intervento critico
rispetto al contesto delle riviste specializzate e all’impostazione
saggistica e quindi di saper fare di necessità virtù.
E rileggendo
dopo tanti anni i suoi scritti sull’”Avanti!”, una cinquantina di
interventi tra recensioni vere e proprie e opinioni sugli argomenti
cinematografici più disparati, si ha appunto la piacevole sorpresa di un
giovane critico dallo sguardo lungimirante e l’analisi lucida. Del
resto già la scelta dei film e degli autori (perché per un giornale non
legato come altri organi di stampa all’obbligo di recensire tutto quello
che usciva e più libero di dare risalto a opere affidare alla
discrezionalità del critico) la dice lunga sulla volontà di approfondire
un cinema oltre che un film, di sintonizzarlo sugli umori e le
ideologie di un’epoca più che rinchiuderlo nelle categorie del “bello” o
“brutto”, del “trasgressivo” o del “politicamente corretto”. Si va da
Comencini a Peckinpah, da Carmelo Bene a Woody Allen, da Mario Schifano a
Aldrich, da Mankiewicz a Cukor, da Marco Leto a Chaplin, da Don Siegel a
Squitieri, da Oshima a Olmi, da Chabrol a Scorsese, da Monicelli a
Bergman, da Spielberg a Peter Del Monte, da Ioseliani a Lattuada, da
Arrabal a Zanussi e Schlondorff. Mentre con interventi estemporanei su
argomenti per i quali poteva disporre di uno spazio maggiore e più
adeguato evidenziava la sua formazione saggistica e il necessario
approccio meno giornalistico. Oltre tutto si trattava spesso di
questioni sulle quali il critico interveniva in tempo reale senza
aspettare le fisiologiche rivalutazioni o ripensamenti. E di questo va
dato merito anche alla testata socialista che a differenza di altri
quotidiani dell’epoca, dava spazio a riflessioni e approfondimenti. Dal
cinema cinese di kung-fu alla politica nel cinema, dalla psicoanalisi
alla metodologia storiografica, Piscicelli affrontava con un taglio
personale e un’angolazione fuori dagli schemi aspetti non secondari del
cinema. Insomma quello che colpisce è che il giovane futuro regista
allora si accostò al “mestiere” con la sorprendente duttilità
intellettuale e l’elasticità culturale di chi comprese subito che
scrivere su un quotidiano significava fare i conti con la misura critica
e con le misure imposte dalle pagine, saper gestire lo spazio a
disposizione in maniera intelligente e sinteticamente incisiva. Senza
forzare più di tanto gli aspetti del suo percorso critico giovanile,
quella di Piscicelli può essere assunta come un’avventura e
un’esperienza intellettuale anche paradigmatica di un’epoca di fermenti
culturali e voglia di dialogare e discutere di cinema qualunque fosse il
contesto (la carta stampata, la televisione, le riviste specializzate, i
festival) in netto contrasto con quella attuale segnata da un
impoverimento della comunicazione, dall’assenza di un dibattito a tutto
campo e dalla scomparsa di una tensione dialettica con i giornali che
recensiscono sempre meno film e come se fosse un dovere burocratico,
programmi televisivi di approfondimento seri che hanno lasciato il posto
a trasmissioni cabarettistiche alle quali partecipano anche i critici
più insospettabili per vanitosa voglia di apparire adeguandosi
penosamente alla regola dell’opinione ad effetto, molti festival che
sono diventati un tourbillon di eventi mediatici e sfilate annullando
tutti gli spazi “umani” di confronto e dialogo.