Una domenica mattina della
primavera del 1968 (se la memoria non m’inganna sulla stagione) uno sparuto
gruppo di studenti del corso di storia dell’arte della Facoltà di
lettere e filosofia della Sapienza di Roma entrano nel vasto cortile
dell’edificio che ospita l’Archivio di Stato (un tempo sede
dell’università). E’ prevista una lezione in loco su Sant’Ivo
alla Sapienza di Francesco Borromini tenuta dal titolare del corso,
Cesare Brandi (alla Facoltà di lettere i corsi sono due, l’altro è
tenuto da Giulio Carlo Argan). Tra quel manipolo di ventenni in
jeans, con barbe e capelli lunghi, e il sessantenne docente,
elegantissimo in un completo chiaro, il contrasto non potrebbe essere
più stridente. Ma in verità noi studenti nutrivamo una grande stima per quel professore: per le
sue lezioni, esemplari per chiarezza e dottrina, e anche per quelle
visite fuori programma, che dovevamo soltanto alla sua generosità.
Mi è rimasta impressa nella memoria, in particolare, quella a
Sant’Ivo perché Brandi si dilungò sul concetto di interno
dell’esterno ed esterno dell’interno, caratteristico della sua
analisi dell’architettura di Borromini.
|
Cesare Brandi
|
Fu allora, in quel turbolento
1968 e grazie soprattutto agli insegnamenti di Cesare Brandi, che
nacque il mio interesse, e dovrei dire la mia passione, per il
barocco romano e in particolare per Borromini; un interesse per nulla estraneo al mio lavoro creativo. Negli ultimi
quarantacinque anni, da quando abito al quartiere Monti, molte volte, talora dopo lunghissimi intervalli, ho attraversato via Nazionale e risalito via delle
Quattro Fontane, da solo o in compagnia, per visitare le due chiese,
distanti poco più di centocinquanta metri l’una dall’altra,
frutto del genio di due artisti del tutto antitetici tra loro, per
carattere, personalità, stile, poetica, visione del mondo e
riconoscimento sociale. Scrivo queste note, a mo’ di promemoria, su
sollecitazione di un paio di amici che mi hanno accompagnato in una
delle mie più recenti escursioni.
Voglio anche ricordare che venticinque anni fa ho avuto il piacere
di filmare, con la complicità di Saverio Guarna, l’Estasi di Santa
Teresa di Bernini e il magnifico chiostrino del San Carlo. La
sequenza, qui riprodotta in bassa definizione, fa parte del film Il
corpo dell’anima (1999),
protagonista Roberto Herlitzka, che racconta tra l’altro la storia
di uno scrittore che lavora a una sceneggiatura sulla vita di Teresa
d’Avila.
San Carlo alle Quattro
Fontane
Il complesso del San Carlino
(sottoposto a un lungo lavoro di restauro tra il 1986 e il 2006)
sorge all’angolo sud-ovest dell’incrocio tra via delle Quattro
Fontane e via del Quirinale (l’antica via Pia).
Furono i padri
trinitari spagnoli a offrire a Borromini la prima commissione da
architetto indipendente dopo la rottura con Bernini, sotto il quale
aveva lavorato sia in San Pietro che a Palazzo Barberini. Lo spazio
era angusto ma Borromini lo sfruttò ingegnosamente. Si iniziò con
gli alloggi per i monaci, poi fu la volta del chiostro (1635). La
prima pietra della chiesa fu posta nel 1638, i lavori si conclusero
nel 1641, la consacrazione avvenne nel 1646. La facciata è di molto
posteriore. Fu l’ultimo lavoro (1665) a cui pose mano l’artista e
fu terminato dal nipote Bernardo dopo la sua morte.
Tralasciamo per
ora la facciata e iniziamo la visita dal chiostrino. Ecco come lo
descrive Brandi: “Nel chiostro l’ascendenza manieristica è solo
apparente: già è cominciata l’opera di disgregazione del codice
classico. I capitelli dorici non hanno abaco: è come riassorbito
nella trabeazione, ma anche questa è abbreviata. Le colonne del
piano superiore recano basi ottagonali. Il chiostro che ha pianta
rettangolare, per il lungo, mostra gli angoli scantonati, ma la
scantonatura si rigonfia, come se, di dietro, qualcosa premesse.
Insomma, in questa prima opera, che ad uno sguardo distratto può
apparire immobile elegante e fredda, si avverte già la tematica
spaziale borrominiana: l’interazione continua ed in atto di interno
e di esterno. Una fascia avvolgente e pressante forza, si direbbe nei
punti più deboli, il diaframma costituito dall’involucro
architettonico, ma una pressione interna la contiene: l’equilibrio
deve apparire instabile…” (C. Brandi, La prima architettura
barocca, 1970, pag. 77-78).
Notiamo un altro particolare:
nel piano superiore i pilastrini della balaustra, con il
rigonfiamento normalmente in basso, si alternano rovesciandosi l’uno
dopo l’altro con un effetto che qualcuno ha definito di “movimento
tremolante”. Nell’insieme la forma architettonica regola anche il
gioco dell’ombra e della luce. E qui voglio citare Argan: “… è
evidente il contrasto tra il primo ordine, in cui i pieni predominano
sui vuoti, ed il secondo, in cui il vuoto predomina nettamente sul
pieno. In basso, l’alternativa di colonne affiancate e di archi non
ha altro scopo che di accentuare fortemente la luminosità dei
risalti contro l’ombra profonda del portico; in alto, le colonnine
solcano coi fusti luminosi l’ariosa penombra della loggia.” (G.
C. Argan, Borromini, 1955-1978, pag. 61). La leggerezza di
questa loggia, notavo in certi giorni di accentuata luminosità del
cielo, la fa apparire più eterea e come se oscillasse, quasi a
staccarsi dalla solida struttura dell’ordine inferiore per
involarsi verso l’alto. Un effetto di verticalizzazione (di subida,
come lo definisce spesso Brandi, credo mutuando il termine dalla
mistica spagnola), così frequente nelle architetture di Borromini.
Entriamo nella chiesa. La
prima cosa che colpisce è la suprema eleganza di questo interno
tutto bianco con piccoli tocchi dorati. E va subito notato che qui,
come quasi sempre nelle fabbriche di Borromini, i materiali usati
sono umili: mattoni, intonaco, stucco. E’ la forma che rende
preziosa la materia.
La pianta della chiesa è
ellittica, con l’entrata e l’altare maggiore ai vertici dell’asse
lungo. Borromini giunge a questa forma per via geometrica. Scrive
Virgilio Spada, un padre oratoriano amico e sostenitore del nostro
artista: "Sí come la melodia delle voci nasce da’ numeri,
così la bellezza delle fabbriche professa [il Borromini] nascer
parimente da’ numeri, e che tutte le parti habbino una tal
proportione, che un’apertura di compasso, senza mai muoverlo, le
misuri tutte." Anche questo modo di procedere crea una cesura
con la tradizione classica, codificata sugli antichi nei trattati
rinascimentali (casomai Borromini attinge ispirazione direttamente
dall’architettura antica, ad esempio Villa Adriana, e forse l’unico
architetto classico-manierista da cui trae spunti è Michelangelo,
per il quale nutriva una vera e propria venerazione). La concezione
antropomorfica è definitivamente abbandonata.
In Sant’Ivo alla Sapienza
(altro magnifico capolavoro) si parte da una stella a sei punte,
ottenuta sovrapponendo due triangoli, che diventa un esagono che
struttura l’intero complesso. Nel San Carlino, Borromini parte da
due triangoli equilateri affiancati e da lì muove per arrivare a una forma ellittica.
(Si noti che il triangolo è anche simbolo
della Trinità e che il doppio triangolo a sua volta è un potente simbolo di complementarità e opposizione: acqua e fuoco, maschile e femminile, natura umana e divina di Cristo.) Anche qui, come nel chiostro, utilizza elementi del codice classico
ma li rovescia, li disloca, li ricompone, spesso elevando a funzione
portante elementi decorativi e viceversa, nel quadro di un progetto
che nasce da una sorta di furor creativo (l’espressione è
di Argan) dove immaginazione e tecnica si fecondano a vicenda.
Borromini articola i muri in
eleganti curvature, alternando nicchie e colonne appena incassate,
con il capitello composito dove inverte la voluta della foglia
d’acanto arrotolandola all’interno, come a chiudere la colonna in
se stessa e ad anticipare la cesura dell’architrave. L’effetto
complessivo è nettamente percepibile: ritmo e movimento. Lo sguardo dell'osservatore è portato a cogliere la molteplicità degli elementi che concorrono a generare quest'effetto ma al contempo l'unità dell'insieme, e infatti l'occhio si volge naturalmente verso l'alto, verso
l’ampia trabeazione, anch’essa movimentata con grande libertà, e
infine verso la cupola che si eleva oltre una sorta di corona che la fa
arretrare ulteriormente e dove Borromini recupera la purezza
dell’ellissi. L’interno della cupola è decorato con una serie di
forme complesse che rimpiccioliscono verso l’alto, così da farla
apparire, con effetto illusionistico, più alta di quanto non sia.
Ancora un moto verticalizzante, una subida, come si è visto a
proposito del chiostrino. Dalla cupola proviene quasi unicamente la
luce, vale a dire da finestre poste alla base e dalla lanterna in
cima.
A proposito della funzione
della luce nelle architetture di Borromini, Cesare Brandi fa notare
una opposta interpretazione da parte degli studiosi (C. Brandi,
Struttura e architettura, 1967-1971, pag. 77-78-79). Hans
Sedlmayr parla di “una luce omogenea, diffusa, pallida” (Die
Architektur Borrominis, 1930,
pag. 92). Al contrario Argan introduce la nozione di luminismo come
elemento essenziale dello stile borrominiano e istituisce un
parallelo con la pittura di Caravaggio: “La luce, da qualità dello
spazio, si muta in qualità della forma…” (Borromini,
1955-1978, pag. 59).
In
realtà la lezione di Argan è da accogliere per gli esterni, come si
è già visto nel caso del chiostrino, e in particolare per le
facciate, dove la luce mette in rilievo i profili delle sagome,
animando così le superfici. E’ per questo motivo che, secondo un
altro studioso, il Guidi, Borromini accentua i risalti delle facciate
quando sono esposte a nord, di modo che la luce radente possa
conferirvi ugualmente un rilievo luminoso. Ma per gli interni sembra
più valida la lezione dello studioso austriaco. Come nel San
Carlino. Qui si è colpiti, scrive Brandi, “dalla immaterialità di
quella luce...”. E ancora: “E’ una luce chiara e sospesa
nell’aria come un tenue pulviscolo, ma più simile a qualcosa che
evapora che a cosa che si posi. L’ombra nasce ugualmente
indistinta, con la qualità di un crepuscolo invernale, e cresce
lentamente verso la luce come una insensibile marea. E’ una luce
triste, a San Carlino, e a Propaganda Fide, perché volutamente
innaturale, repressa, data a dosi minime… Niente dei colpi di luce
berniniani, delle fantasmagoriche esplosioni come nella Cattedra di
San Pietro, o nelle saette della Santa Teresa. La luce, nel
Borromini, deve essere ridotta alla controllata luminosità che la
qualità spaziale dell’architettura esige.” Per parte mia, non
definirei quella del San Carlino come una luce triste ma piuttosto
come una luce quietamente pacificata, che invita alla contemplazione
e alla meditazione, e che talvolta, in certe circostanze
atmosferiche, può diventare calda e confortante. Altrove, nel già
citato volume sulla prima architettura barocca, Brandi segnala
giustamente un’eccezione a questa “controllata luminosità” e
cioè Sant’Ivo alla Sapienza, dove, grazie ai grandi finestroni
della cupola, la luce si fa “trionfale” e riempie “tutto
l’invaso come ne fosse la propria sostanza” (pag. 93-94).
Anche la cripta, accessibile da una porta sulla parete di sinistra, merita una visita. Scrive Joseph Connors: "In questo luogo adibito a sepoltura per i monaci non vi è alcun ornamento. Una visita alla cripta schiarisce la mente, come una passeggiata nella tersa aria notturna dopo una cena inebriante.Qui meglio che in qualsiasi luogo lo spettatore sazio di stimoli può vedere la cristallina geometria che governa il movimento delle pareti sovrastanti." (Citato da Paolo Portoghesi in Storia di San Carlino alle Quattro Fontane, 2001, pag. 170.)
L’esterno
della cupola è poco visibile dalla strada ma Brandi ci conferma che
“è immaginata in modo ascensionale; è una subida,
non meno di quella di Sant’Ivo.”(La prima architettura barocca, pag. 83).
"La facciata di San Carlino, qualunque sia la direzione di provenienza... fin da lontano si presenta ai nostri occhi come un oggetto plastico di inattesa intensità, che si appoggia alla quinta stradale improvvisamente animandola, spezzandone la inerzia ma non la continuità." (P. Portoghesi, ivi, pag. 105-106). Costruita in
travertino (purtroppo sottoposta a costante degrado dovuto allo smog),
è divisa in due ordini, ciascuno spartito da colonne. In quello
inferiore la superficie è ondulata in tre parti
concavo-convesso-concavo, in quello superiore in tre parti concave. Si potrebbe vedere in queste forme una "scelta simbolica della oscillazione dell'onda, del respiro, delle manifestazioni più elementari del movimento e della vita." (Portoghesi, ivi.)
Nell’insieme, la facciata è molto movimentata; il che
confermerebbe, essendo esposta verso nord, l’osservazione del Guidi
a cui accennavo più sopra. Da notare la disposizione in diagonale
delle colonne, cioè dei capitelli e delle basi, probabilmente
ispirata a Michelangelo, che contribuisce al dinamismo delle
superfici. Sull’ordine superiore, terminato dal nipote Bernardo, vi
sono contrastanti pareri tra gli studiosi, sui quali non mi addentro
qui per ragioni di spazio. Nell’insieme è una facciata che a me dà
l’impressione di una massiccia, forte presenza, come a contrasto
con il piccolo, ovattato interno.
La
chiesa riscosse un immediato successo. I trinitari erano soddisfatti.
Avevano ottenuto non solo una chiesa bellissima, ammirata da tutti
(arrivavano richieste di avere i piani dall’Italia e da fuori), ma
un complesso perfettamente funzionale alle loro esigenze, e la spesa
era stata assai contenuta. Secondo la testimonianza di fra’ Juan de
san Bonaventura, Borromini rinunciò al suo compenso.
Sant’Andrea al
Quirinale
Muoviamo
pochi passi in direzione sud-ovest, avendo dall’altro lato della
strada la cosiddetta Manica lunga del Palazzo del Quirinale, per
giungere, superato un piccolo giardino, alla facciata di Sant’Andrea
al Quirinale.
E’
una bella facciata, semplice, quasi austera, a un sol ordine, in travertino. Due
pilastri a paraste corinzie reggono un classico timpano triangolare.
Un’elegante gradinata semicircolare conduce a un protiro, anch’esso
semicircolare, sorretto da due colonne ioniche e sormontato dallo
stemma dei Pamphili, dietro il quale c’è un arco finestrato. Qui si addensa l'ombra che anticipa l'interno. Dalla
facciata si dipartono due fasce murarie concave (purtroppo accorciate
quando fu allargata la strada nell'Ottocento), reminiscenza in miniatura del
colonnato di San Pietro, come ad accogliere il visitatore e invitarlo
a entrare.
Sant’Andrea
al Quirinale appartiene al complesso del Noviziato dei Gesuiti.
Quando si decise di demolire la vecchia e inadeguata cappella e di
sostituirla con un edificio nuovo, papa Alessandro VII Chigi designò
Bernini come architetto. I fondi per la costruzione furono raccolti
dal principe cardinale Camillo Pamphili (da qui il vistoso stemma sul
protiro). I lavori iniziarono nel 1658 e si protrassero per oltre un
decennio, fino al 1670. Bernini fu assistito dal suo aiuto Mattia de' Rossi. Secondo la testimonianza del figlio Domenico, egli considerò questa chiesa come la più riuscita delle sue
opere di architettura.
La
scelta fu approvata dai gesuiti, con i quali Bernini aveva ottimi
rapporti, pur non avendo mai ricevuto commissioni di rilievo dalla
Compagnia. E’ noto che l’artista fosse un lettore degli Esercizi
spirituali di Ignazio di Loyola
e un frequentatore, presso la chiesa madre, delle devozioni della
“buona morte”. Sono altresì noti i suoi rapporti con Giovanni
Paolo Oliva, famoso predicatore e strenuo sostenitore dell’arte di
propaganda, divenuto, dal 1661 al 1681, prima vicario e poi preposito
generale della Compagnia; fu lui ad avere un ruolo decisivo nella
decisione da parte di Bernini di accettare l’invito di Luigi XIV a
recarsi a Parigi nel 1664. Altra sua buona conoscenza tra i grandi
gesuiti fu il cardinale Sforza Pallavicino, insigne filosofo e
teologo, storico del Concilio di Trento, che promosse la carriera
ecclesiastica del figlio dell’artista Pietro Filippo. Di lui è
conservato, presso l’Università di Yale, un disegno a sanguigna di
Bernini. Entrambi questi personaggi furono coinvolti nella
progettazione e nella costruzione di Sant’Andrea al Quirinale, dove
poi trovarono sepoltura.
Due
cose mi hanno sempre colpito entrando in questa chiesa, innanzitutto
lo sfarzo, con quella profusione di marmi policromi e la
sovrabbondante decorazione. E poi l’impressione di una struttura
saldamente ancorata al terreno, possente pur nelle ridotte
dimensioni.
La
pianta è ovale ma qui, a differenza del San Carlino, entrata e
altare maggiore sono collocati ai capi dell’asse corto dell’ovale.
Questo modello viene introdotto in epoca manieristica, mi riferisco
innanzitutto a Sant’Anna
dei Palafrenieri,
sita in Vaticano, su
progetto del Vignola e successivamente a San
Giacomo in Augusta,
su progetto di Francesco da Volterra, poi terminata dal Maderno. Qui
l’obiettivo è di superare lo schema circolare rinascimentale,
ispirato agli antichi, con una forma più dinamica. Lo stesso
Bernini, anni prima, aveva adottato questa soluzione per la Cappella
dei Re Magi a Propaganda Fide (poi demolita, ironia della sorte, da
Borromini quando ebbe la commissione della facciata di Propaganda e
della nuova cappella).
Lo
schema ovale assicura un’espansione laterale dello spazio tuttavia
ben definito dai pilastri posti ai capi dell’asse maggiore, intorno
ai quali girano le cappelle laterali. L’asse minore è esaltato sia
dal gesto trasgressivo dell’arco di facciata che invade la cupola,
sia dal presbiterio, più profondo delle cappelle e con una fonte
luminosa propria. Qui le quattro colonne scanalate di marmo rosato
proveniente da Cottanello e il timpano curvo rotto dalla statua del
santo fanno da sontuoso proscenio al presbiterio con la tela del martirio.
Tutto lo spazio è vivo e drammatico, teso a inglobare e a superare
lo schema circolare classico. Come scrive Brandi: “… l’avere
preso come figura di base, quasi, modulare, il cerchio, ma sempre
dirottato in ovale, assicura all’interno la solennità del
Pantheon, senza la staticità immobile che lo caratterizza.” (La
prima architettura barocca, pag. 150).
Dalle
misurazioni effettuate dall’architetto Franco Borsi (F. Borsi, La
Chiesa di S. Andrea al Quirinale,
1967) risulta che Bernini abbia adottato i rapporti modulari canonici
come codificati da Sebastiano Serlio nel suo celebre e appunto
canonico trattato. E se questo dimostra che l’architettura di
Bernini parte sempre dalla tradizione classica, è anche vero che
nelle opere più riuscite, come in questo Sant’Andrea, egli giunge
a costruire una spazialità nuova, autenticamente barocca, cercando
una fusione tra architettura, scultura e pittura (ne è un esempio
anche la Cappella Cornaro che ospita L’estasi di Santa Teresa).
Osserviamo
gli effetti luministici della parte bassa dell’invaso. Delle
quattro cappelle per lato, le due centrali, col fronte ad arco, hanno
una finestra dietro il timpano dell’altare che le soffonde di
chiarore, mentre le altre quattro sono in penombra. La cappella
dell’altare maggiore regala invece una luminosità più accentuata
grazie a una fonte nascosta, che inonda di luce anche la grande tela
del Borgognone col Martirio di Sant’Andrea, contornata da un
tripudio decorativo. Con la policromia dei marmi, le dorature, le
colonne di marmo rosato, il ricco pavimento, questo spazio espanso
nell’ellissi offre un magnifico, sontuoso effetto pittorico. Il
tutto è immerso nella luce che piove dalle grandi finestre della
cupola e dall'arco d'ingresso, cangiante anche qui a seconda dell’ora o delle stagioni.
A
differenza del San Carlino, qui la cupola si innesta direttamente
sull’architrave della trabeazione. I lacunari (cassettoni) con rosoni ricordano il Pantheon mentre le spesse costolature rinviano a Brunelleschi e Michelangelo. Scrive Brandi: “La cupola
ribassata, che appunto non ha grande elevazione, contribuisce a
rafforzare il senso di una dilatazione radiale, anche se la
decorazione non la rende pesante e oppressiva. (…) La cupola di S.
Andrea al Quirinale non è la volta celeste in espansione, ma il
contenimento in atto perché l’espansione non avvenga in altezza.
L’uso dei rapporti modulari più canonici non ha altro senso che di
assicurare chiarezza distributiva all’edificio, con un ritmo
solenne, e un’opulenza grandiosa, ma non certo la classicità
statica dell’architettura antica.” (C. Brandi, La prima
architettura barocca, 1970, pag.
151-152).
Sul
timpano della cappella dell’altare maggiore svetta la statua di S.
Andrea, opera di Antonio Raggi, cosicché lo sguardo del visitatore
può passare dalla tela del Borgognone, che rappresenta il martirio
del santo, alla statua che ne illustra la trionfante ascesa al cielo,
con un bell’effetto drammatico-narrativo. Sempre ad Antonio Raggi
sono da attribuire gli stucchi che decorano la cupola, con un
profluvio di angeli e di putti. (Questo scultore fu allievo e uno dei
principali collaboratori di Bernini per due o tre decenni. Ticinese
come Borromini, collaborò anche con quest’ultimo: sua è la statua
di San Carlo Borromeo nella nicchia sopra il portale d’ingresso
proprio del San Carlino, nonché il gruppo scultoreo del Battesimo di
Gesù dell’altare maggiore di San Giovanni dei Fiorentini, al quale
pose mano, tra gli altri, anche Borromini.)
***
Per
concludere, con qualche formula provvisoria. Schematizzando, si può
intendere il barocco in due modi diversi, intrecciati tra loro. Il
primo, alla luce della “rettorica” (intesa in senso classico),
come “tecnica del persuadere”, e quindi anche come arte della
propaganda, assunzione consapevole di un linguaggio volto a insegnare
e a educare (vedi le ricerche di Argan, in particolare L’Europa
delle capitali 1600-1700,
1964). Il secondo, in chiave più strettamente artistica, come
ricerca, nel superamento della crisi manieristica, di una spazialità
nuova e di un nuovo immaginario.
A
questa ricerca, Borromini e Bernini dànno entrambi un contributo
fondamentale, il più alto del secolo, con una distinzione che farò
di seguito. Quanto alla prima accezione, essa calza perfettamente
all’opera di Bernini, che fu senza dubbio, in campo artistico, il
principale strumento della politica culturale del papato nei decenni
centrali del Seicento, quando, superata la fase travagliata
strettamente controriformistica, intendeva di nuovo affermare la
ricchezza, la potenza e il prestigio della Chiesa Cattolica. Non si
può dire altrettanto di Borromini, chiuso nella sua ricerca
solitaria (e per altro sostanzialmente estraneo al giro affaristico
che ruotava intorno alla corte papale, nel quale invece primeggiava
Bernini con la sua bottega-impresa), se non facendo riferimento a un
certo simbolismo delle forme, ivi compresi elementi decorativi
connessi alle committenze. Da questo punto di vista, paradossalmente
ma senza azzardare troppo, si potrebbe parlare di una dimensione
antibarocca dell’architettura borrominiana.
Negli
stessi anni in cui lavorava per il S. Andrea, Bernini progettò e
costruì altre due chiese: quella di S. Tommaso da Villanova a Castel
Gandolfo e la Collegiata dell’Assunta ad Ariccia. Mentre
quest’ultima, per opinione unanime degli studiosi, è annoverata
tra le opere riuscite dell’artista, sull’altra il giudizio è
generalmente negativo. Scrive Brandi: “Sembra quasi impossibile, se
non fosse a causa dei documenti e delle date (1658-1661), che,
contemporaneamente a questa insuperabile chiesa di S. Andrea, il
Bernini potesse produrre un progetto così disseccato come il S.
Tommaso da Villanova… Ma nella realtà del Bernini architetto, a
differenza dello scultore, stava questo richiamo classicista, che, ad
un certo punto, lo immobilizzava: ...S. Tommaso potrebbe essere di un
secolo prima.” (Ivi, pag. 152-153).
Il
fatto è che Bernini fu innanzitutto uno scultore, un grande scultore. La sua formazione
come architetto fu lenta e assai incerta per almeno un ventennio,
come ha notato Brandi; anche per una carenza di approfondite
competenze tecniche, come dimostrò l’episodio delle torri
campanarie della facciata di San Pietro. Il che non impedisce di
riconoscergli capolavori come appunto Sant’Andrea o il colonnato di
San Pietro. Al contrario, Borromini era un architetto puro, con
competenze da moderno ingegnere, maturate in un lungo tirocinio,
prima in ambito ticinese e lombardo e poi, a partire dal 1619, a Roma
accanto al Maderno, uno dei massimi architetti della sua generazione,
del quale fu il principale collaboratore ed esclusivo disegnatore.Delle ampie competenze e del modo di lavorare di Borromini ci dà viva testimonianza Juan de san Bonaventura: "...perché detto sr. Francesco lui medesimo governa al murator la cuciara; driza al stuchador il cuciarino; al falegname la sega, et l'scarpello al scarpellino; al matonator la martinella et al ferraro la lima."
Bernini
opera nel solco della tradizione classica, innestandovi spesso
brillanti e talora straordinarie invenzioni spaziali (a prescindere
dal decorativismo e dallo scenografismo, che sono altri elementi
della sua pratica). Borromini al contrario opera una cesura netta,
rivoluzionaria, su quella tradizione (pur continuando a utilizzare
elementi del codice classico, talvolta contaminandoli con elementi estranei, gotici o islamici) e inventa una spazialità
del tutto nuova, mai vista fino a quel momento. Di questo egli era perfettamente consapevole: "... e prego ricordarsi quando tal volta gli paja, che io m’allontani da
i communi disegni, di quello, che diceva Michel Angelo Prencipe
degl’Architetti, che chi segue altri non gli va mai innanzi, ed io
al certo non mi sarei posto a quella professione, col fine d’esser
solo copista, benché sappia, che nell’inventare cose nuove, non si
può ricevere il frutto della fatica se non tardi. (In Opus
Architectonicum).
Successivamente, tra
la fine del Seicento e per tutto il Settecento, fu la lezione di
Borromini a imporsi, prima nell’Italia del nord, in particolare in
Piemonte, e poi in Europa; laddove il lascito di Bernini non ebbe
sviluppi. Con l’avvento del neoclassicismo il barocco si eclissa,
ma l’architettura di Borromini, proprio per il suo carattere
rivoluzionario, scavalcando l’Ottocento, influenzerà una parte
notevole dell’architettura contemporanea tra ventesimo e
ventunesimo secolo.
La rivalità
La
rivalità che oppose i due personaggi è ormai leggenda popolare,
alimentata da libri e film. In realtà le scarse fonti disponibili,
provenendo dalle opposte fazioni, lasciano dubbi sulla loro
attendibilità e quindi non sono tali da consentire di ricostruirla
nella sua verità storica. Essa fa capo innanzitutto all’opposta
personalità dei due contendenti e alla loro storia personale.
|
Gian Lorenzo Bernini ritratto dal Baciccia
|
Gian
Lorenzo Bernini, figlio d’arte (suo padre era il noto scultore
Pietro), fu uomo brillante, socievole, ma
anche irascibile e talvolta violento, capace di muoversi con
disinvoltura, e direi con spregiudicatezza, negli ambienti
aristocratici e alla corte papale. Ad eccezione di un breve periodo,
sotto Innocenzo X, la sua carriera fu un continuo, crescente
successo. Fu amico di papi, cardinali, re e regine. Ebbe undici
figli.
|
Francesco Borromini
|
Per
parte sua, Francesco Borromini, che aveva iniziato la sua carriera
come un modesto scalpellino, fu un uomo malinconico, nervoso,
introverso, anche lui di carattere duro e irascibile. Orgoglioso del
proprio lavoro, alieno da ogni compromesso, fu spesso in contrasto
con i committenti. Vestiva di nero, alla spagnola, era austero di
costumi e non si sposò mai. Qualcuno ha azzardato che fosse
omosessuale.
Opposto,
come abbiamo visto, il loro approccio all’arte. In Bernini il punto
di partenza è sempre il naturalismo; Borromini riprende, in un certo
modo, il neoplatonismo di Michelangelo. Diversa anche la loro
religiosità. Più esibita e superficiale quella di Bernini;
rigorista e tormentata quella di Borromini.
Quando,
nel 1929, alla morte di Maderno, Urbano VIII designò, tra lo stupore
generale, il giovane e inesperto Bernini a sovrintendere le due
fabbriche più importanti di Roma, San Pietro e Palazzo Barberini,
Borromini si trovò a dover lavorare alle sue dipendenze, non senza
un qualche disappunto, avendo egli come architetto competenze di gran
lunga più solide dell’altro. E’ attestata la sua collaborazione
al Baldacchino di San Pietro, in particolare per la copertura. Anche
in Palazzo Barberini gli si riconoscono diversi interventi, come la
bella scala a spirale ovale dell’ala destra e le due deliziose
finestrelle ai lati del piano alto della facciata principale. Borromini ebbe a lamentarsi del
trattamento ricevuto dal rivale in quegli anni, e non solo per la
parte economica. Uno dei suoi biografi, il Baldinucci, ci riporta la
sua rimostranza (poi eliminata nella versione finale del
manoscritto): “...non mi dispiace che abbia auto li denari ma mi
dispiace che gode l’onor delle mie fatiche.” La rottura si
consumò nel 1633. Dopo quella data, Borromini iniziò la sua
carriera da architetto indipendente.
Anni
dopo, quando scoppiò lo scandalo delle torri campanarie di San
Pietro, che portò alla demolizione della prima torre, progettata e
parzialmente costruita da Bernini, per le crepe riscontrate nella
facciata, Borromini fu tra i critici più accaniti della sua
imperizia. Curiosamente, fu proprio Bernini a chiedere a Urbano VIII
di conferire a Borromini l’incarico di progettare la chiesa di
Sant’Ivo nel palazzo della Sapienza, la cui prima pietra fu posata
nel 1643. Ma in realtà la “raccomandazione” risaliva al 1632,
cioè prima della rottura. In epoca più tarda, Bernini espresse giudizi severi sul rivale. Significativo quello riportato dallo Chantelou, che lo
frequentò in occasione del soggiorno a Parigi: “I pittori e gli
scultori nelle loro architetture hanno a norma delle proporzioni il
corpo umano, mentre sembra che il Borromini formi le proprie sulle
Chimere.”
Opposto
anche, ineluttabilmente, fu il destino finale dei due uomini, che
erano coetanei, nati a meno di un anno l’uno dall’altro.
Nel
1680 Bernini fu colpito da una paralisi al braccio destro e alla fine
di novembre di quello stesso anno si spense nella sua casa di via
della Mercede, all’età di 81 anni, lasciando alla famiglia, ai
nove figli che gli sopravvissero, un notevole patrimonio, stimato in
400.000 scudi. E’ sepolto in Santa Maria Maggiore.
Borromini
morì suicida nel 1667, quando aveva quasi 68 anni, nella sua modesta
abitazione nei pressi di San Giovanni dei Fiorentini. Nell’estate
di quell’anno si era ammalato, entrando in uno stato di forte
ipocondria. Nella notte tra l’1 e il 2 agosto, dopo aver redatto un
testamento, oppresso dalla febbre, dall’insonnia e dalla
depressione, si ferì mortalmente con la spada. Morì il giorno dopo,
giusto il tempo di pentirsi e di dettare un nuovo testamento. Il suo
patrimonio fu stimato in 10.000 scudi. Per suo espresso desiderio, fu
sepolto accanto al Maderno in San Giovanni dei Fiorentini.
Nella sua
casa, dopo la morte, insieme a un migliaio di libri (di cui purtroppo
non abbiamo un elenco), al busto di Michelangelo, a un buon numero di
dipinti e di collezioni varie, fu rinvenuto anche un busto di Seneca. Potrebbe, la presenza in effigie dello stoico romano in quella casa
(dalla quale si potrebbe dedurre un Borromini lettore di Seneca,
oltre che conoscitore di antichità romane) lasciarci immaginare uno
sfondo culturale diverso, pur nel quadro di una professata spiritualità
cristiana, entro cui interrogare quel suicidio? Mi piace pensarlo.
Libri citati:
C. Brandi, La prima
architettura barocca, 1970
G. C. Argan, Borromini,
1955-1978
C. Brandi, Struttura e
architettura, 1967-1971
H. Sedlmayr, Die
Architektur Borrominis, 1930
F.
Borsi, La Chiesa di S. Andrea al Quirinale,
1967
G.
C. Argan, L’Europa
delle capitali 1600-1700,
1964
P. Portoghesi, Storia di San Carlino alle Quattro Fontane, 2001
F. Borromini, Opus Architectonicum, 1725
Notizie
e dati biografici sono tratti da:
Jake
Morrissey, Geni rivali. Bernini, Borromini e la creazione
di Roma barocca, 2007