La Repubblica, 31 dicembre 2018
Il Mattino, 4 gennaio 2019
E' uscito recentemente, presso la casa editrice IntraMoenia di Napoli, un mio volumetto dal titolo La cucina di Addolorata, con prefazione di Alberto Castellano.
Paul Schrader ha occupato una posizione di rilievo nel movimento che fu definito New Hollywood o American New Wave, una fase di profondo rinnovamento del cinema americano che si può datare tra la fine degli anni Sessanta e i primissimi anni Ottanta e che vide coinvolti cineasti del calibro di Martin Scorsese, Brian De Palma, Robert Altman, Steven Spielberg, George Lucas, Francis Ford Coppola, per non citarne che alcuni. Schrader vi apporta, prima come sceneggiatore e poi come regista, il rigore di uno stile educato sul cinema classico soprattutto europeo e al tempo stesso, in apparente contraddizione, il gusto della rivisitazione, talvolta felicemente sperimentale, dei generi, dall'horror al noir al mélo. Soprattutto egli innesta nel corpo del cinema americano storie forti e ruvide, personaggi intrappolati in vicende fatali, sospesi tra colpa e redenzione, in una visione che assume spesso una coloritura mitologica, melvilliana, e perfino teologica. La sua carriera prosegue poi nel costante, strenuo combattimento con le regole e le costrizioni di Hollywood, tra alti e bassi, sempre però sostenuta da una lucida consapevolezza delle proprie scelte.
"Le cinéaste le plus libre qui soit", così lo ha definito Bulle Ogier, una delle sue attrici preferite, in una dichiarazione per Liberation. E Pascal Bonitzer, suo abituale co-sceneggiatore, ha replicato su Le Monde: "Pour ce balzacien, les films étaient constitués comme des complots contre la façon dominante de faire des films." Entrambi i giudizi sono da condividere in pieno.
Céline et Julie vont en bateau
Céline et Julie vont en bateau ingloba, entro la sua struttura “superficiale”, un enorme meccanismo ripetitivo. Due serie di avvenimenti, per lo meno, vi si trovano presi: quelli che hanno luogo dentro e quelli che hanno luogo fuori della “casa”. Se la prima parte del film è all'insegna, come si è detto, di un incontro casuale, la seconda parte si svolge rigorosamente nell'alternanza delle due serie di avvenimenti. Il passaggio dall'una all'altra serie è assicurato da un oggetto allucinogeno. I bonbon o l'intruglio magico. Oggetti derisori e parodici che nel loro “grado zero” manifestano comunque la supremazia del significante nella manovra della catena narrativa. Ma si avrebbe torto a considerare questo movimento come una illustrazione del “defilé” simbolico. Esso in realtà funziona più semplicemente come un gioco, la cui posta è occultata ai soggetti che vi partecipano. Una sorta insomma di analisi spontaneistica e selvaggia, rischiata “al buio”. Lanciando i dadi (succhiando i bonbon), Céline e Julie sono prese nel ritorno del loro rimosso di attrici.
Possiamo interpretare il movimento ripetitivo del film anche come un processo di regressione. Regressione temporale, per via allucinogena, a modelli di rappresentazione (modelli di “jeu”) passati; regressione formale a modi di espressione cosiddetti infantili. Il paradosso (apparente) è che la seconda offre i mezzi per mettere in crisi la prima. Ciò che emerge dunque è la forza del desiderio, linfa vitale che scompagina i modi calcolati e predisposti della rappresentazione (di cui del resto è all'origine). E' la struttura stessa del film – così come prospettata sommariamente più sopra – ad esserne investita.
Tale spazio, lo si vede bene, ingloba la dialettica progetto-alea, predisposizione-improvvisazione (che, per lo meno a partire da L'amour fou, occupa un ruolo importante nel lavoro di Rivette); dialettica che trova qui, ci sembra, il suo superamento. La nozione di alea, o anche di “improvvisazione”, è fondamentale, com'è noto, nel cinema moderno (vedi Noël Burch, Praxis du cinema). Essa segnala, da parte dell'autore, la presa in considerazione, a differenti livelli, della refrattarietà del materiale del cinema. E' un'esigenza questa che nasce, come ha mostrato Burch, dall'interno stesso della specificità cinematografica, perché il cinema, a differenza ad esempio della musica, ha a che fare con la complessità dell'esistente visibile. Ora è proprio in questa prospettiva che il lavoro sull'alea mostra chiaramente i suoi limiti. Esso sembra far capo a un astuzia dell'autore per riuscire a inglobare quanto una pratica cinematografica di grado zero era costretta ad espellere. Ciò che significa, malgrado tutto, un rilancio della funzione demiurgica dell'autore, che si riappropria del materiale così catturato al momento del montaggio. In Céline et Julie vont en bateau la funzione del montaggio (inteso in questo senso) è ancora importante, ma esso regola per così dire uno solo dei livelli del film, quello della strutturazione formale che mai come in questo film si organizza, come si è visto, intorno a una figura “arbitraria”. Questo livello entra il lotta, potremmo dire, con gli altri livelli del film; meglio: si dà soltanto per consentire all'altro che lavora il film di manifestarsi nel suo potere dirompente. In questo modo l'autore si spossessa come soggetto pieno dell'enunciazione e si apparta. Egli è colui che privandosi della parola consente alla scrittura di addivenire. Nel fatto che di questa scrittura si facciano carico, principalmente, due nomi e due corpi femminili, lo spettatore non vi leggerà un caso.
Therese appartiene di diritto a quella che sarà la lunga serie di personaggi più o meno amorali che popolano i romanzi della Highsmith. L'urgenza del desiderio, una volta riconosciuta, non ammette ostacoli. La passione è vissuta senza sensi di colpa, nessuno scrupolo, nessuna concessione alle convenienze sociali. Quando Carol sarà costretta ad abbandonarla perché il marito le impedisce di vedere la figlia, Therese reagirà male, non può ammettere che l'amante abbia potuto preferire la figlia a lei, e allora non vorrà più rivederla. Torna a New York decisa a riprendersi la sua vita. E' il punto culminante di un processo di conquista dell'identità e della maturità sessuale e sentimentale.
Nell'ambito della sua XV edizione, che si svolgerà a Napoli dal 18 al 21 novembre prossimi, il Festival del Cortometraggio 'O Curt rende omaggio a Salvatore Piscicelli con la proiezione di quattro film.
In questo mese di giugno, precisamente il 17, Setsuko Hara ha compiuto 95 anni. Fiorisce ancora sul suo volto segnato dall'età l'incantevole sorriso che sedusse milioni di ammiratori, in Giappone e fuori dal Giappone? Immagino di sì, spero di sì, sono sicuro di sì, ma non ne abbiamo testimonianza. Da quando, nel 1963, decise di abbandonare il cinema, Setsuko è letteralmente scomparsa, nessuna immagine di lei è più circolata, nessuna intervista.
C'è qualcosa di sublime, di indimenticabile nel modo in cui Setsuko Hara interpreta il ruolo di Noriko. "Il suo sorriso disperatamente cortese, la sua dignità e quel fremito di strazio nella voce sono assolutamente affascinanti. Sfido chiunque a vedere il film e a non sentirsi travolti da una qualche forma d'amore per Hara - per quanto assurdo ciò possa suonare." Così scrisse sul Guardian il critico Peter Bredshaw in occasione del novantesimo compleanno dell'attrice, e io sottoscrivo; insieme a molti altri ne sono la prova, mi sono innamorato di Setsuko/Noriko fin dalla prima volta che ho visto il film, nei primi anni Settanta, nella sala dell'Istituto giapponese di cultura a Roma.
Tra la fine degli anni Trenta e i primi anni Sessanta, Setsuko Hara è stata una delle grandi star del cinema giapponese, forse la più grande e la più amata. Si accosta al cinema fin dal 1935, introdotta nell'ambiente dal cognato, il regista Hisatora Kumagai, e già due anni dopo si impone all'attenzione recitando in una coproduzione nippo-tedesca, La nuova terra. Lavora con i registi più importanti del periodo, da Kinoshita a Kurosawa, da Naruse a Ozu, dimostrando una grande duttilità nell'interpretare ruoli anche molto diversi tra loro. Penso a L'idiota (1951) di Akira Kurosawa, tratto dal romanzo di Dostoevskij, dove si cala nei panni ambigui di Taeko (la Nastas'ja del romanzo) o per converso alla moglie infelice di Meshi (Il pasto, sempre del 1951) di Mikio Naruse.
Si può dire che Setsuko attraversa il cinema di Ozu come un elemento naturale, incarnando una figura femminile (con più o meno marcate variazioni) che vive al centro del conflitto tra le attese, o le pretese, della società e le aspirazioni individuali, tra le convenzioni e la spinta a vivere più liberamente i propri sentimenti e i propri bisogni; una figura di donna apparentemente sottomessa ma in realtà forte, decisa a trovare la sua strada pur attraverso i dubbi. Setsuko la fa vivere sullo schermo con un gioco attoriale dove all'economia dei mezzi corrisponde una grande forza espressiva. Sul suo volto le emozioni trascorrono come un sottile gioco d'ombre, dove i sentimenti si esprimono e si nascondono al tempo stesso nel loro sfuggente mutare.
Setsuko Hara gira l'ultimo film con Ozu nel 1961, Kohayagawa-ke no aki (L'autunno della famiglia Kohayagawa). Per il regista è il penultimo della sua carriera perché poi, dopo un altro lavoro, si ammala e muore il 12 dicembre 1963, il giorno del suo sessantesimo anniversario. Poco dopo Setsuko Hara annuncia in una conferenza stampa che si ritira a vita privata. Dice che non ha mai veramente amato recitare, che lo ha fatto solo per sostenere la sua famiglia. Tornerà ad essere soltanto Masae Aida (il suo vero nome).
La reazione - dello studio presso il quale era sotto contratto, dei giornalisti, del pubblico - fu estremamente negativa. Non era per nulla chiaro il vero motivo per cui a 43 anni, nel pieno del successo, la star abbandonasse il cinema. Si accennò a un problema alla vista, si parlò della sua supposta relazione sentimentale con Ozu. Setsuko Hara non s'è mai sposata, la chiamavano l'eterna vergine. Anche Ozu era scapolo, visse tutta la vita con la madre, fino alla morte di lei, nel '61. Ma nulla è certo a proposito di questo legame amoroso. Fatto sta che, malgrado le proteste, le blandizie e le accuse, Setsuko si ritirò in una piccola casa a Kamakura e da allora nessuno l'ha più vista. Kamakura era stato il set di vari film girati con Ozu e sempre a Kamakura, nel recinto dell'Engaku-ji, un tempio zen, c'è la tomba del regista sulla quale è inciso non il suo nome ma l'ideogramma del mu, il concetto buddista di nulla/vuoto.