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domenica 31 gennaio 2016

Ricordando Jacques Rivette


"Le cinéaste le plus libre qui soit", così lo ha definito Bulle Ogier, una delle sue attrici preferite, in una dichiarazione per Liberation. E Pascal Bonitzer, suo abituale co-sceneggiatore, ha replicato su Le Monde: "Pour ce balzacien, les films étaient constitués comme des complots contre la façon dominante de faire des films." Entrambi i giudizi sono da condividere in pieno.

Per ricordare questo grande cineasta, oggi purtroppo sconosciuto ai più, ripubblico qui la parte centrale di un articolo che scrissi in occasione dell'uscita di uno dei suoi film più belli.


Céline et Julie vont en bateau
(da "Cinema Sessanta", n.99, 1974)

L'inizio dunque ci ricorda Alice. Céline lascia cadere qualche oggetto davanti a Julie e la trascina in un mondo di avventure. Così, fin dalle prime inquadrature, attraverso questa citazione carrolliana, lo spettatore è avvertito: che si tratta di un viaggio al di là dello specchio e dentro il linguaggio, e anche che questo viaggio ha a che fare con la dimensione infantile, per quello che di inquietante comporta questo aggettivo. Assistiamo dunque al dispiegarsi di queste avventure , di questo racconto di avventure destituito di motivazioni, il cui motore, sulle prime, è semplicemenete un incontro casuale in uno “square” parigino. Riconosciamo ben presto in ciò la configurazione moderna del lavoro sul racconto (di cui Rivette è, del resto, un pontefice riconosciuto) e ci accorgiamo che anche la citazione carrolliana vale, “d'entrée”, come citazione critica; se è vero, come sostiene Gilles Deleuze (in Logique du sens), che Carroll è colui che ha scoperto la superficie, colui che inaugura, nella nostra modernità, la critica della profondità e che istituisce una pratica del racconto risolta nell'esplorazione delle contiguità della messa in serie. Questa indicazione critica è verificata più oltre dalla struttura propria del film. Le ultime inquadrature ci ripresentano, ad esempio, le circostanze iniziali del racconto, ma a personaggi invertiti; e noi siamo autorizzati a pensare la forma del film come una sorta di  striscia di Moebius. E' la carrolliana borsa di Fortunatus, dove la superficie esterna è in continuità con la superficie interna: “essa racchiude il mondo intero, e fa che ciò che è dentro sia fuori, e ciò che è fuori sia dentro” (Deleuze). Critica della profondità, che è critica dell'opera come depositaria di un senso nascosto da far emergere. Critica dell'ermeneutica. Coerentemente, Rivette mette qui in questione la fascinazione del labirinto (vedi Adriano Aprà, Geografia del labirinto), risolvendolo nel dispiegamento in superficie.

Céline et Julie vont en bateau ingloba, entro la sua struttura “superficiale”, un enorme meccanismo ripetitivo. Due serie di avvenimenti, per lo meno, vi si trovano presi: quelli che hanno luogo dentro e quelli che hanno luogo fuori della “casa”. Se la prima parte del film è all'insegna, come si è detto, di un incontro casuale, la seconda parte si svolge rigorosamente nell'alternanza delle due serie di avvenimenti. Il passaggio dall'una all'altra serie è assicurato da un oggetto allucinogeno. I bonbon o l'intruglio magico. Oggetti derisori e parodici che nel loro “grado zero” manifestano comunque la supremazia del significante nella manovra della catena narrativa. Ma si avrebbe torto a considerare questo movimento come una illustrazione del “defilé” simbolico. Esso in realtà funziona più semplicemente come un gioco, la cui posta è occultata ai soggetti che vi partecipano. Una sorta insomma di analisi spontaneistica e selvaggia, rischiata “al buio”. Lanciando i dadi (succhiando i bonbon), Céline e Julie sono prese nel ritorno del loro rimosso di attrici.

Dal punto di vista della struttura del film, le sequenze della “casa” (che fanno riferimento a un racconto di Henry James), come la citazione carrolliana dell'inizio, hanno un valore metalinguistico. Ci informano che il problema è quello della rappresentazione cinematografica e che il film è giocato da attrici. Più specificamente, la scena della “casa” è una scena divisa. Se il rimosso ritorna con insistenza, è per essere frazionato, rotto, fatto esplodere: e proprio nella sua ossessiva ripetitività. Ciò che governa il suo ritorno è del resto una insistenza di intensità superiore: la transitiva positività del desiderio che dissolve i fantasmi e reinveste nel corpo, nel linguaggio ciò che è sublimato nella rappresentazione. Distruggendo la “casa”, Céline e Julie non solo si emancipano dal loro “passato”, ma rompono la barriera che separa l'al di qua e l'al di là dello specchio; mettendo quindi in crisi la loro stessa identità di soggetti pieni, depositari di un'eredità.

Possiamo interpretare il movimento ripetitivo del film anche come un processo di regressione. Regressione temporale, per via allucinogena, a modelli di rappresentazione (modelli di “jeu”) passati; regressione formale a modi di espressione cosiddetti infantili. Il paradosso (apparente) è che la seconda offre i mezzi per mettere in crisi la prima. Ciò che emerge dunque è la forza del desiderio, linfa vitale che scompagina i modi calcolati e predisposti della rappresentazione  (di cui del resto è all'origine). E' la struttura stessa del film – così come prospettata sommariamente più sopra – ad esserne investita.

E del resto, come scrive ancora Deleuze, “niente di più fragile della superficie”. E' una forza senza fondo che, emergendo, la buca e la fa precipitare. E' l'ordine primario che la vince sull'ordine secondario (formale) in cui si è costituito il film. Forza dunque del desiderio, delle pulsioni, della materia (e della storia). Come intendere altrimenti il senso di quel riso folle e insensato, di cui ci fanno partecipi Céline e Julie, di quella incredibile proliferazione di linguaggio paragrammatico, di quella gestualità insistente e decentrata, insomma di quella “performance” globale e invadente di cui si fanno agenti le due ragazze, occupando tutti gli interstizi e i vuoti della struttura e facendola alla lunga scoppiare? La superficie è bucata, la struttura scoppiata; e beninteso questo è un effetto extra-testuale. Poiché la forza, nel testo, travaglia la superficie e la struttura e vi insinua la differenza, lo spostamento delle linee, il movimento. Ciò che ne viene sconvolto è l'euritmia, la disposizione geometrica. Non si dà emergenza dello slancio senza vincoli e senza limiti, emergenza del desiderio assolutamente transitivo. La forza non può rendersi manifesta che attraverso la struttura; ma appunto, manifestandosi, la fa precipitare. E' questo lo spazio – contraddittorio – di ogni pratica significante, che il film individua con esattezza.

Tale spazio, lo si vede bene, ingloba la dialettica progetto-alea, predisposizione-improvvisazione (che, per lo meno a partire da L'amour fou, occupa un ruolo importante nel lavoro di Rivette); dialettica che trova qui, ci sembra, il suo superamento. La nozione di alea, o anche di “improvvisazione”, è fondamentale, com'è noto, nel cinema moderno (vedi Noël Burch, Praxis du cinema). Essa segnala, da parte dell'autore, la presa in considerazione, a differenti livelli, della refrattarietà del materiale del cinema. E' un'esigenza questa che nasce, come ha mostrato Burch, dall'interno stesso della specificità cinematografica, perché il cinema, a differenza ad esempio della musica,  ha a che fare con la complessità dell'esistente visibile. Ora è proprio in questa prospettiva che il lavoro sull'alea mostra chiaramente i suoi limiti. Esso sembra far capo a un astuzia dell'autore per riuscire a inglobare quanto una pratica cinematografica di grado zero era costretta ad espellere. Ciò che significa, malgrado tutto, un rilancio della funzione demiurgica dell'autore, che si riappropria del materiale così catturato al momento del montaggio. In Céline et Julie vont en bateau la funzione del montaggio (inteso in questo senso) è ancora importante,  ma esso regola per così dire uno solo dei livelli del film, quello della strutturazione formale che mai come in questo film si organizza, come si è visto, intorno a una figura “arbitraria”. Questo livello entra il lotta, potremmo dire, con gli altri livelli del film; meglio: si dà soltanto per consentire all'altro che lavora il film di manifestarsi nel suo potere dirompente. In questo modo l'autore si spossessa come soggetto pieno  dell'enunciazione e si apparta. Egli è colui che privandosi della parola consente alla scrittura di addivenire. Nel fatto che di questa scrittura si facciano carico, principalmente, due nomi e due corpi femminili, lo spettatore non vi leggerà un caso.