martedì 17 febbraio 2015

La pietosa pazienza degli oppressi

Da un rapporto Oxfam diffuso nel gennaio 2015 si ricava che:

- L’1% della popolazione mondiale detiene il 48% della ricchezza mondiale, il 99% si divide il restante 52%. Buona parte di questo 52% è detenuto dal 20% più ricco, sicché all'80% della popolazione mondiale non resta che il 5,5%.

- Il reddito dell’1% dei più ricchi del mondo ammonta a 110.000 miliardi di dollari, 65 volte il totale della ricchezza della metà della popolazione più povera del mondo.

- Il reddito di 85 super ricchi equivale a quello di metà della popolazione mondiale ed è aumentato negli ultimi quattro anni del 50%

- 7 persone su 10 vivono in paesi dove la disuguaglianza economica è aumentata negli ultimi 30 anni.

- L’1% dei più ricchi ha aumentato la propria quota di reddito in 24 su 26 dei paesi con dati analizzabili tra il 1980 e il 2012.

- Negli USA, l’1% dei più ricchi ha intercettato il 95% delle risorse a disposizione dopo la crisi finanziaria del 2009, mentre il 90% della popolazione si è impoverito.

- Si stima in 21.000 miliardi di dollari la ricchezza nascosta nei paradisi fiscali e sottratta al fisco.

Una mostruosa disuguaglianza che genera fame, malattie, morte. "Questa economia uccide," ha detto papa Bergoglio recentemente. Come dargli torto?

Ma la domanda è: perché i poveri non si ribellano?

Ha scritto Aldous Huxley in un saggio del 1930: "La pietosa pazienza degli oppressi rappresenta forse il fenomeno più inesplicabile e nel contempo più rilevante di tutta la storia."

lunedì 16 febbraio 2015

"La religione del capitale" di Paul Lafargue

La casa editrice Mimesis ha recentemente pubblicato la traduzione italiana di un'opera di Paul Lafargue, La religione del capitale (La religion du Capital, 1887). Operazione doppiamente meritoria: perché offre al pubblico italiano un testo premonitore dell'attuale fase globalizzata e totalitaria del capitalismo e perché riporta l'attenzione su un grande rivoluzionario dell'Ottocento.

L'autore inizia col descrivere un immaginario congresso internazionale svoltosi a Londra con la partecipazione della élite del mondo politico, industriale, finanziario ed ecclesiastico. Scopo dell'incontro è fermare la diffusione delle idee socialiste. Per riuscirci, occorre che si riconosca nel capitalismo una legge naturale e universale, una vera e propria religione, che sostituisca tutte le altre, con al centro il nuovo Dio, il Capitale appunto, cui tutti devono sottomettersi. Nei capitoli successivi l'autore ci sottopone una parte del “corpo dottrinale” elaborato dal congresso:Il catechismo dei lavoratori, Il sermone della cortigiana, L’Ecclesiaste o Il libro dei capitalisti, Preghiere capitaliste e Lamentazioni di Job Rothschild il capitalista.


La chiave ironica e grottesca del pamphlet non deve ingannare. Lafargue spiega bene come il capitalismo ha bisogno, per sopravvivere, di proporsi come ideologia totalizzante ed esclusiva, pervasiva di ogni aspetto della vita sociale e individuale, una forma religiosa appunto, un meccanismo di sottomissione psicologica e materiale al tempo stesso, che rende impossibile anche solo immaginare una prospettiva diversa.

E' interessante notare come la critica di Lafargue trovi una eco straordinaria in un denso frammento teorico di Walter Benjamin del 1921, Capitalismo come religione, dove “il capitalismo è presentato come una religione puramente cultuale, che tende a reiterare all’infinito un meccanismo di indebitamento e di colpevolizzazione da cui non può esserci scampo” (vedi il volume, anch'esso di recente pubblicazione, edito da Quodlibet, Il culto del capitale. Walter Benjamin:capitalismo e religione).

Paul Lafargue è l'autore di un altro pamphlet fondamentale, scritto in carcere, Il diritto alla pigrizia (Le droit à la paresse, 1880), forse il testo marxista più tradotto e diffuso dopo Il Manifesto di Marx-Engels, una critica radicale di ogni forma di etica del lavoro, dove si ribadisce che qualsiasi prospettiva di emancipazione non può prescindere dalla necessità di liberare l'uomo dal fardello del lavoro.

Il libro si apre con una citazione di Lessing (“Oziamo in tutte le cose, tranne quando amiamo e beviamo, tranne quando oziamo”) e prosegue così: “Una strana follia possiede le classi operaie delle nazioni dove regna la civiltà capitalistica. Questa follia trascina al suo seguito miserie individuali e sociali che da due secoli torturano la triste umanità. Questa follia è l'amore del lavoro, la passione mortale del lavoro, spinta fino all'esaurimento delle forze vitali dell'individuo e della sua progenie.

Nella visione politica di Paul Lafargue c'è una vena anarchica che lo rende speciale: lo stesso Marx lo definiva l'ultimo dei bakuninisti. Nasce a Santiago de Cuba nel 1842 da una famiglia in parte creola e in parte ebraica. Esiliato a Londra, conosce Marx e nel 1868 ne sposa la seconda figlia, Laura. Insieme alla moglie, è un formidabile propagandista del comunismo in Francia e Spagna. Attivista della Prima Internazionale, prende parte alla Comune di Parigi ed è tra i fondatori del Partito operaio francese. Nel 1896 Laura riceve in eredità una parte della fortuna di Engels e i due coniugi si ritirano in campagna, nei pressi di Parigi, pur continuando la battaglia politica.


La sera del 26 novembre 1911, dopo essere stati in città a vedere un film, Laura e Paul Lafargue si suicidano con una iniezione di acido cianidrico. Nel testamento Lafargue lascia scritto: “Sano di corpo e di spirito, mi uccido prima che l'impietosa vecchiaia mi tolga uno a uno i piaceri e le gioie dell'esistenza e mi spogli delle forze fisiche e intellettuali. Affinché la vecchiaia non paralizzi la mia energia, non spezzi la mia volontà e non mi renda un peso per me e per gli altri.”

Laura e Paul sono sepolti al Père Lachaise, presso il cosiddetto Muro dei federati, dove il 28 maggio 1871, durante la repressione della Comune, centinaia di insorti
furono fucilati e sepolti in una fossa comune.


venerdì 13 febbraio 2015

"Il corpo dell'anima" alla sala Trevi, variazione di programma

Variazione di programma alla sala Trevi, vicolo del Puttarello, per il giorno 14 febbraio. La proiezione del film di Salvatore Piscicelli Il corpo dell'anima avrà luogo alle ore 18.45. Seguirà alle 20.45 un incontro con il regista sul tema della precarietà in amore con la partecipazione degli analisti Fabio Castriota e Carla Dugo Visco, secondo appuntamento quest'anno della rassegna "cinema e psicoanalisi" organizzata dalla Cineteca Nazionale e dalla Società Psicoanalitica Italiana. Alla fine dell'incontro seguirà la proiezione del film Ultimo Tango a Parigi di Bernardo Bertolucci. Nel pomeriggio, ore 17, proiezione del film Comizi d'amore di Pier Paolo Pasolini. L'ingresso è libero.

Roma da (ri)scoprire San Silvestro al Quirinale


Nei miei frequenti vagabondaggi di esplorazione del patrimonio artistico romano, mi capita di scovare cose che non conoscevo o di riscoprire cose che avevo visto magari decenni addietro. Con questo post inauguro una sorta di rubrica per condividere queste (ri)scoperte.


Scendendo da Piazza del Quirinale verso Largo Magnanapoli lungo via XXIV Maggio, si nota sulla destra la facciata di una chiesa di fattura ottocentesca ma di gusto tardo rinascimentale. Si tratta di un elemento puramente decorativo, il portale infatti è finto. Ma la chiesa c'è, si chiama San Silvestro al Quirinale ed è situata a circa nove metri sopra il livello della strada. Per accedervi occorre imboccare la porta a sinistra della facciata e salire una bella scala piuttosto ripida.

Negli anni Settanta dell'Ottocento, nel quadro della sistemazione urbanistica di tutta la zona con l'apertura di via Nazionale, il livello stradale fu abbassato e allo scopo di allargare via XXIV Maggio fu demolita la facciata originale della chiesa con le prime due cappelle. La facciata che vediamo ora, deturpata dalle polveri dello smog, è opera dell'architetto Andrea Busiri Vici.

La costruzione di San Silvestro, su un precedente manufatto medioevale, fu iniziata dai domenicani nel 1524. Una quarantina di anni dopo la chiesa passò ai padri teatini, che la ristrutturarono completamente. E' a croce latina a navata unica con un presbiterio molto profondo.

Dalla scala si entra nel transetto sinistro e la prima impressione è abbagliante per la ricchezza delle decorazioni. L'occhio vola subito al magnifico soffitto a cassettoni della navata con scene bibliche e ai begli affreschi della volta del presbiterio dove si notano due piccole cupole in trompe-l'oeil. Nell'insieme prevalgono l'oro e i colori pieni e scuri, in un'atmosfera di grande suggestione. La chiesa ospita opere di numerosi artisti quali il Cavalier d'Arpino, Polidoro da Caravaggio, Jacopo Zucchi. Le cappelle della navata sono tutte notevoli. Splendida la cappella Bandini nel transetto sinistro, con sculture di Alessandro Algardi e pitture del Domenichino.

Sempre dal transetto sinistro una porta (purtroppo sempre chiusa) darebbe accesso a una terrazza con vista su un oratorio cimiteriale. Qui pare si riunissero, intorno alla metà del Cinquecento, illustri personaggi del milieu intellettuale romano tra i quali Michelangelo e Vittoria Colonna.

Se volete visitare questa chiesa sconosciuta ai più, e ne vale al pena, dovete trovarvi alle 10 e 45 in punto della domenica davanti alla porta a sinistra della facciata. A quell'ora un giovane prete apre i battenti e voi avete una quindicina di minuti per la visita perché alle 11 comincia la messa. Non mi risulta che la chiesa sia aperta in altri orari.

domenica 8 febbraio 2015

Il cecchino di Clint

Almost too dumb to criticize”, ha scritto Matt Taibbi su RollingStone a proposito di American Sniper di Clint Eastwood. Io, che non faccio più il critico da un pezzo, mi limiterò a dire che si tratta di un film mediocre, come purtroppo tutti i suoi ultimi. Le scene di guerra sono ripetitive e sanno di già visto; c'è di meglio nel genere, a cominciare da The Hurt Locker di Kathryn Bigelow. Quanto all'altro versante, quello privato, dei rapporti del cecchino con la moglie e il contesto familiare, siamo nella pura superficialità (malgrado la buona prestazione di Sienna Miller). Sul tema dei veterani di guerra e delle difficoltà del loro reinserimento il cinema americano ha prodotto opere di ben altro spessore, troppo numerose per citarle qui.

Per il resto il film dipinge una specie di santino del cecchino Chris Kyle, edulcorandone la biografia e facendone l'eroe di un'America dura e pura in lotta eterna contro il male, identificato con tutto ciò che appunto non è americano, e in particolare con gli odiati islamici. Un'operazione di uno sciovinismo bruto ed elementare, che manipola i dati storici, esaltatrice di un machismo diventato ormai stucchevole.

Tutto questo non sorprende. Eastwood è un uomo di destra e non l'ha mai nascosto, anzi l'ha spesso esibito con un certo gusto della provocazione, come quando disse pubblicamente a Michael Moore, tra il serio e il faceto, che lo avrebbe ammazzato se mai si fosse presentato alla sua porta con una telecamera o come quando, alla convention del partito repubblicano nel 2012, si esibì nel famoso monologo accanto alla poltrona vuota in rappresentanza di Obama. Che ci propini un film di rozza propaganda non è strano. (Del resto una parte consistente del cinema che viene dagli Stati Uniti è sempre stato e continua ad essere, in senso lato, una gigantesca macchina di propaganda dell'ideologia americana. Il che non ci ha impedito di amarne la parte migliore, compresi diversi film di Eastwood.)

Resta da capire il perché dell'enorme successo ottenuto dal film. Amy Nicholson sul Village Voice ne dà una spiegazione interessante. Tanti americani sono stati coinvolti, direttamente o indirettamente, nelle guerre recenti e sono alla ricerca di una risposta a una domanda alla quale è difficile rispondere: ne è valsa la pena? La risposta che il pubblico vuole – ha bisogno – di sentire è sì, perché questo allevia l'angoscia di fronte alla perdita o al turbamento causato alle ferite fisiche e psicologiche che il reduce si porta dietro.

Da quando, dopo l'11 settembre, l'America ha scatenato la cosiddetta guerra al terrore, la propaganda ci ha convinto che siamo nel mezzo di uno scontro di civiltà, con l'occidente cristiano, libero e democratico attaccato da coloro che odiano i nostri valori, islamici e non solo. Questa visione (che serve a nascondere la guerra vera, quella tra ricchi e poveri) va imposta con la paura (il che accade con regolarità, vedi il recente sfruttamento propagandistico dell'orrido attentato a Charlie Ebdo), e di fronte alla paura l'eroe porta sollievo, ci conferma in un'identità che, per quanto illusoria, dà conforto. Forse si spiega così il grande successo che il film ha avuto anche in Europa e in particolare in Italia (al momento in cui scrivo è il primo incasso con oltre 18 milioni di euro). Le colonie sono in sintonia con la capitale dell'impero.

sabato 7 febbraio 2015

Boyhood, la vita che scorre

Boyhood è certamente uno dei migliori film della stagione, pur non essendo un capolavoro assoluto, come pretende buona parte della critica americana (100% di score su Metacritic, 98% su Rotten Tomatoes). Intanto c'è da segnalare la singolarità della genesi. Richard Linklater lo ha girato in Texas nell'arco di dodici anni, dal 2002 al 2013, per qualche giorno ogni anno, filmando la crescita e le trasformazioni di un ragazzo, Mason Jr. (Ellar Coltrane), dai sei ai diciott'anni, fino all'ingresso al college, nel contesto di una famiglia come tante, con la sorella Samantha (Lorelei Linklater, figlia del regista) e i genitori separati (Patricia Arquette e Ethan Hawke). Il tempo, o meglio lo scorrere del tempo, è il tema centrale del film.

Dal punto di vista stilistico, l'approccio di Linklater è decisamente minimalista: nessuna stranezza, nessuna ricercatezza, nessuna voglia di originalità. La scrittura filmica scorre pacata, tutta al servizio dei personaggi e delle situazioni, privilegiando i campi medi e larghi. Altrettanto minimalista è l'approccio alla narrazione. Il film non ha un vero plot, si limita a inanellare episodi qualsiasi della vita di una ragazzo e della sua famiglia, senza punte drammatiche, se si eccettua l'episodio del secondo marito della madre diventato ubriacone e violento. Da questo punto di vista Boyhood è un film curiosamente anti-hollywoodiano, malgrado le numerose nomination all'Oscar. Ma dietro questo minimalismo si nasconde una grande ambizione: quella di rappresentare la vita così com'è.

Sappiamo che nessun film rappresenta davvero la realtà (il reale del cinema è il set). La realtà del film è di natura immaginaria. Tuttavia è proprio attraverso quel complesso meccanismo che si chiama effetto o impressione di realtà che lo spettatore aderisce e si immedesima in questa sostanza immaginaria, che allude al reale ma non lo è. Nel caso di Boyhood l'effetto di realtà è reso più potente proprio grazie al fatto che il tempo scorre realmente sui corpi degli attori: non ci sono trucchi. Da una sequenza all'altra, senza soluzione di continuità, percepiamo i cambiamenti, che tuttavia, essendo lenti, non ci appaiono clamorosi ma naturali. Come non credere che questa è la vita vera, tanto più che somiglia a milioni di altre vite? E all'obiezione (legittima, la sottoscrivo) che qua e là ci sono nel film zone noiose e anche banali, la risposta è: non è così, noiosa e banale, fin troppo spesso, anche la vita vera?

C'è nel film, ed è questa la sottile emozione che ci trasmette, la malinconia del tempo che passa, della vita che ci scorre tra le dita quasi senza che ce accorgiamo. Tutti dicono che bisogna cogliere l'attimo, io credo che è l'attimo a cogliere noi, dice una ragazza nell'inquadratura finale. Malinconia che può diventare angoscia, come quando la madre (una bravissima Patricia Arquette), di fronte al figlio che lascia la casa definitivamente, scoppia in lacrime e confessa il suo disagio: dopo tutta una vita fatta di figli matrimoni divorzi, cosa resta? Il mio funerale, cazzo! Credevo ci fosse qualcos'altro. - Ma c'è nel film anche la consapevolezza che vale comunque la pena di viverla, la vita, e il modo migliore è stare nel presente, mentre si fa. Così, prima della dissolvenza finale, Mason Jr. risponde alla ragazza: hai ragione, il momento è come se fosse sempre adesso, no? E intanto, negli sguardi e nei sorrisi appena un po' imbarazzati dei due ragazzi, leggiamo che qualcosa sta per nascere, forse un nuovo amore: è la vita che si impone nel tempo presente.


venerdì 6 febbraio 2015

"Il corpo dell'anima" alla sala Trevi



Il 14 febbraio, alle ore 21, alla sala Trevi, vicolo del Puttarello 25 (vicino alla fontana di Trevi), nel quadro dei tradizionali appuntamenti di "cinema e psicoanalisi" organizzati dalla Cineteca Nazionale e dalla Società Psicoanalitica Italiana, si terrà un incontro con Salvatore Piscicelli sul tema della precarietà in amore con la partecipazione degli analisti Fabio Castriota e Carla Dugo Visco. Seguirà la proiezione del film Il corpo dell'anima. L'incontro sarà preceduto dalla proiezione dei film Comizi d'amore di Pier Paolo Pasolini (ore 17) e Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci (ore 18.45). L'ingresso è gratuito per tutti gli eventi.