giovedì 2 novembre 2023

Note per una rilettura di “Viaggio in Italia” (1954) di Roberto Rossellini

1. Rivedere i classici - i film della tua vita, come spettatore e come cineasta – spesso offre l’occasione di nuove riletture, o almeno lo stimolo a uno scarto nel dare nuovo senso al testo, al di là del piacere immediato della visione. E’ quanto mi è accaduto recentemente con Viaggio in Italia, uno dei film a cui, da rosselliniano militante, sono più legato; anche per l’ambientazione tutta napoletana: luoghi e atmosfere che conosco bene e che amo.

(Ricorderò, en passant, che solo due volte nei miei film ho inserito citazioni di altri film en hommage. E la prima riguarda appunto Viaggio in Italia: nel mio secondo film, Le occasioni di Rosa, la visita di Rosa e del suo amico alla solfatara è un chiaro riferimento-omaggio al film di Rossellini.)

 


2. Non mi dilungherò sull’importanza di Viaggio in Italia, sulla posizione esemplare che occupa come apertura al cosiddetto cinema moderno. Rinvierò per questo a due articoli: Lettre sur Rossellini di Jacques Rivette e La terre du Miracle di Maurice Schérer, alias Éric Rohmer (Cahiers du Cinéma, 1955). Ho scelto non a caso questi due testi, tra gli altri possibili, perché i due autori saranno di lì a qualche anno tra i protagonisti della Nouvelle Vague, in una ideale continuità di innovazione col cinema di Rossellini.
Va ricordato che il film - considerato il terzo volet della cosiddetta trilogia della solitudine, preceduto da Stromboli e Europa 51 – fu accolto assai male dalla critica italiana, con rarissime eccezioni, addirittura con inviti per il povero Rossellini a cambiare mestiere. Cecità, a volte anche stupidità, della critica ideologica! Furono i francesi per primi a dare al film il giusto rilievo. Successivamente le cose sono cambiate, con l’emergere in Italia, tra gli anni sessanta e settanta, di una nuova generazione di registi e di critici.
Ugualmente non affronterò gli aspetti stilistici del film, per altro ben evidenziati nei due articoli summenzionati. Su questo mi limiterò a dire che qui, più che altrove, attraverso una felice combinazione tra una naturale maîtrise del mezzo e le usuali strategie di improvvisazione, Rossellini riesce a offrirci un testo filmico compatto e al tempo stesso libero, di totale eleganza e pienezza espressiva, da cui il rinnovato piacere della visione.

A questo proposito va altresì ricordato l’apporto del direttore della fotografia Enzo Serafin (con Aldo Tonti e Luciano Trasatti per alcune sequenze, operatore alla macchina Aldo Scavarda). Scrive Gianni Rondolino:

… pare che egli si fosse attentamente informato da Serafin, che era stato direttore della fotografia dei primi film di Antonioni, delle possibilità tecniche dell’illuminazione a luce riflessa impiegata in I vinti e delle caratteristiche del famoso piano-sequenza del ponte in Cronaca di un amore (che Rossellini amava molto). (G. Rondolino, 1989)

Ma per tornare al mio progetto, quello che invece vorrei tentare è un abbozzo di analisi strutturale del film (che andrà eventualmente precisata e approfondita) in una chiave warburghiana, ispirandomi cioè a Aby Warburg, il grande storico dell’arte tedesco, e in particolare ai suoi studi sulla sopravvivenza dell’antico sia nell’arte del Rinascimento che più in generale nella cultura occidentale.
Come premessa, dirò che Viaggio in Italia va considerato come un film-saggio più che un film-racconto. E su questo condivido in pieno l’opinione di Jacques Rivette:

… c’è ora Viaggio in Italia che, con perfetta nettezza, offre finalmente al cinema, fino ad allora obbligato al racconto, la possibilità del saggio. Il saggio, da più di cinquant’anni, è la lingua stessa dell’arte moderna; è la libertà, l’inquietudine, la ricerca, la spontaneità…

Viaggio in Italia è (cito sempre Rivette):

… saggio metafisico, confessione, giornale di bordo, diario intimo…

3. Comincerò con una significativa dichiarazione di Ingrid Bergman tratta da un’intervista col critico Robin Wood (la ricavo da: Peter Brunette, 1987):

Viaggio in Italia era anche per mostrare Pompei. Adorava Pompei. Conosceva tutto sull’argomento. Cercava solo una storia in cui inserire Pompei e i musei e Napoli e tutto ciò che rappresenta Napoli, da cui è sempre stato affascinato, perché la gente di Napoli è diversa da quella di Roma e Milano. Voleva mostrare tutte quelle grotte con le reliquie e le ossa e i musei e la pigrizia (laziness, sic!) di tutte le statue.

Dunque, stando alla testimonianza della moglie, cioè di uno dei suoi intimi, l’intento primario di Rossellini era quello di documentare l’antico, e il sacro, presente a Napoli, vale a dire il suo fondo arcaico, ancora così vivo. Del resto, come ho sempre sostenuto, nella struttura antropologica della città, i vari strati culturali non si sono cancellati col trascorrere delle relative vicende storiche, ma si sono sovrapposti restando attivi. E’ questo che conferisce quel carattere particolare, unico, a Napoli, che qualsiasi visitatore può percepire, anche se non ne comprenda le ragioni. E al fondo di questa stratificazione c’è l’ostinata persistenza dell’arcaico e del sacro che, perfino quando si esprime nelle forme cristiane, non perde nulla della sua eredità pagana.
 
4. Com’è noto, il film nasceva, con la collaborazione di Vitaliano Brancati alla sceneggiatura, come un adattamento del romanzo Duo (1934) di Colette. Come tale il film fu proposto a George Sanders nel ruolo del co-protagonista. Successivamente venne fuori che i diritti del romanzo erano già stati venduti, così Rossellini e Brancati riscrissero un trattamento che conservava dei tratti narrativi del romanzo (che per altro finiva in tragedia), modificando anche l’elemento del vecchio amore della protagonista, con riferimento forse al racconto The dead di James Joyce (è solo un caso che il cognome dei due coniugi nel film sia proprio Joyce?).
Sanders reagì male a questo cambiamento, tanto più che le abitudini e lo stile delle riprese di Rossellini erano agli antipodi degli standard iperprofessionali di Hollywood ai quali era abituato. Per dirne una, Rossellini dava i dialoghi agli attori solo la sera prima del giorno in cui si sarebbero girate le scene, per evitare che si macerassero troppo sul testo e perdessero di spontaneità. Ma non basta. Sul set improvvisava e girava pochi ciak. Per l’intero film furono utilizzati poco più di 15.000 metri di negativo 35mm. Poteva accadere che a volte si prendesse una vacanza dal set per andare in costiera a fare pesca subacquea. L’umor nero di Sanders si ingigantì, tanto che fu chiamata la moglie, Zsa-Zsa Gabor, e si dice che facesse lunghe telefonate al suo analista o psicoterapeuta che fosse.
E’ interessante notare questa contrapposizione, sul set, tra il “nordico” Sanders e il “mediterraneo” Rossellini, che fa da specchio a quello che è il nucleo centrale del film, come vedremo. In effetti Rossellini accortamente sfrutta il mood polemico e negativo dell’uomo e dell’attore Sanders trasferendolo al personaggio, facendone uno dei suoi tratti distintivi, anche nei bruschi cambiamenti.
Quanto a Ingrid, l’approccio è più complesso. Altrove, in un mio vecchio saggio, Rossellini filosofo e santo (Salvatore Piscicelli, 2002), ho sostenuto che ci sono film di Rossellini che si potrebbero definire dei documentari sull’attore che interpreta un personaggio in un dato contesto; lo sono quelli che ha girato con la Bergman e la Magnani, due donne che ha amato. Nel confermare questa notazione, aggiungo che qui Rossellini filma un quadruplice sguardo: il suo sulla donna amata, quello di Ingrid come suo alter ego che osserva i luoghi dell’antico e le strade di Napoli, quello della “svedese” Bergman sugli stessi luoghi, e infine quello di Katherine il personaggio. Naturalmente questi diversi piani si intrecciano e si sovrappongono, producendo quindi anche zone di ambiguità. Anche questo approccio non convenzionale agli attori fa parte della natura saggistica del film.

5. Diamo un po’ di numeri, premettendo che il lavoro è stato svolto su un file video di circa 85 minuti, trascrizione della copia restaurata dalla Cineteca di Bologna nel 2012.
Il plot del film è piuttosto semplice e lineare. Una coppia benestante di coniugi inglesi, Katherine e Alexander Joyce, si recano a Napoli per vendere una villa ricevuta in eredità da uno zio defunto. Durante questo soggiorno emerge con sempre maggiore evidenza un sentimento di reciproca estraneità tra i coniugi e la crisi si approfondisce fino a sfociare nella decisione di divorziare una volta rientrati a Londra. Nel finale, tuttavia, assistiamo a una (provvisoria) riconciliazione tra Katherine e Alex.
Nel raccontare questa storia, Rossellini introduce delle sequenze di varia durata (dai 3 ai 7 minuti circa), che documentano le visite della protagonista a diversi luoghi turistici, testimonianze dell’antico e del sacro che ancora persiste a Napoli. Definiamo queste sequenze extra-diegetiche, in quanto non concorrono all’avanzamento del plot né a una sua ulteriore definizione. Ne conto cinque: il Museo archeologico, l’antro della Sibilla e il tempio di Apollo, la solfatara, il cimitero delle Fontanelle, gli scavi di Pompei. Sommandone le durate, arriviamo a circa 21 minuti e mezzo, vale a dire un quarto dell’intero film. Se poi includessimo alcuni dei percorsi in macchina di Katherine verso i luoghi turistici, anch’essi chiaramente extra-diegetici, nonché almeno in parte la sequenza finale, con la processione e il miracolo, si arriverebbe a circa metà del film. Annoto che andrebbe considerato come elemento extra-diegetico anche il permanente tessuto sonoro della città fatto di pezzi di canzoni, lacerti di dialoghi, grida ecc. che avvolge quasi tutte le sequenze del film.
Si comprende dunque, da questi semplici calcoli, quanto rilievo abbiano, anche solo sul piano quantitativo, queste sequenze di “documentazione”. Si direbbe davvero che la vicenda narrata, nella sua semplicità e quasi nella sua ovvietà, sia un semplice pretesto per dare spazio agli aspetti arcaici della città. A mio parere, nell’insieme, queste sequenze costituiscono il vero asse portante della struttura del film.

6. Ma chiediamoci invece che funzione svolgano nel film. E’ evidente che Rossellini propone una dicotomia tra la città mediterranea, nella sua dimensione arcaica e corporale, e la coppia nordica, dove il ruolo di Katherine è preponderante e centrale poiché Alex, ancorato ai valori capitalistici del lavoro e del dovere, si rifiuta al confronto (ma vedremo che anche lui reagirà all’atmosfera avvolgente della città). Ma, al di là delle reazioni possibili di Katherine nelle diverse stazioni del suo percorso, cosa trasmettono questi luoghi e queste immagini, quale senso attribuire alla loro persistenza? E qui ci soccorrono le ricerche di Aby Warburg.

L’eredità dell’antico offre attraverso il ricordo storico l’esperienza di una partecipazione mondana passionale attiva e passiva che appartiene alla psiche sociale complessiva dell’età moderna in maniera altrettanto essenziale come i ricordi dell’infanzia appartengono alla vita dell’adulto. Pur senza memoria cosciente i valori formativi tramandati determinano l’espressione del nostro stile espressivo. (Cit. in Claudia Cieri Via, 2011)

Per lo storico dell’arte tedesco la persistenza dell’antico si manifesta essenzialmente nelle forme espressive e gestuali del pathos (Warburg usa il concetto di Pathosformel, formule del pathos), che possono essere assimilate al dionisiaco. Si viene così a creare una polarità (che non è una dicotomia) tra pathos ed ethos, con tutto ciò che implicano queste due sfere, la prima legata alle forze oscure, riattivate appunto dalla persistenza dell’antico, la seconda al logos, che rinvia all’apollineo, esaltato dalla razionalità moderna.

(L'accostamento, avanzato da diversi studiosi, tra il concetto di Pathosformel e quello di archetipo in Jung, è problematico, essendo il primo di carattere decisamente storico e avendo il secondo un fondamento inconscio di carattere univarsalistico [Agamben, 1975]. Andrebbe invece indagata più a fondo una possibile affinità, nei due studiosi, della nozione di polarità, che è centrale anche nel pensiero di Jung.)

Scrive Warburg:

I critici della religione, i filologi e gli psicologi ci hanno insegnato da lungo tempo che l’esperienza demoniaca che trascina all’espressione non inibita appartiene alla cultura greca quanto la serenità olimpica. (A. Warburg, 2008)

E, per quanto riguarda la sfera del sacro, è pur vero che:

...la civiltà delle macchine distrugge ciò che la scienza naturale derivata dal mito ha faticosamente conquistato: lo spazio per la preghiera, trasformatosi poi in spazio per il pensiero [ ... ]. (A. Warburg – E. Cassirer, 2003)

Dunque la sfida è, scrive Georges Didi-Huberman:

… come conquistare il logos muovendo dal pathos? Come fare in modo che il logos non dimentichi nulla del pathos e, al contrario, arrivi a pensarlo antropologicamente e fenomenologicamente?” (cit. in C. Cieri Via, 2011)

Sono concetti che il mediterraneo Rossellini potrebbe certamente sottoscrivere, alla luce di quella visione del mondo in cui, soprattutto nella fase finale della sua vita, si intrecciano illuminismo ed enciclopedismo, come ho cercato di mostrare nel mio saggio sopra citato.

7. Ma c’è di più. La sopravvivenza dell’antico trova la sua massima espressione nelle immagini. Nel 1927, un paio d’anni prima di morire, Warburg avvia un progetto denominato Mnemosyne Atlas in cui, abbandonando la scrittura, fa delle immagini il principale strumento comunicativo, e dove le fotografie “erano disposte su pannelli di tela neri a simulare, attraverso un processo di montaggio, lo sfondo della pellicola cinematografica.” (C. Cieri Via, 2011).

Si legge sul sito della Rivista di Engramma, che ha dedicato ampio spazio al lavoro di Aby Warburg:

Mnemosyne è un atlante figurativo (Bilderatlas) composto da una serie di tavole, costituite da montaggi fotografici che assemblano riproduzioni di opere diverse: testimonianze di ambito soprattutto rinascimentale (opere d’arte, pagine di manoscritti, carte da gioco, etc.); ma anche reperti archeologici dell’antichità orientale, greca e romana; e ancora testimonianze della cultura del XX secolo (ritagli di giornale, etichette pubblicitarie, francobolli).
Nel Bilderatlas, che contiene un migliaio di fotografie sapientemente composte e assemblate, le immagini sono oggetto privilegiato di studio in quanto sono un modo immediato di ‘dire il mondo’. L’immagine è il luogo in cui più direttamente precipita e si condensa l’impressione e la memoria degli eventi. Dotate di un primordiale potere energetico di evocazione, in forza della loro vitalità espressiva le immagini costituiscono i principali veicoli e supporti della tradizione culturale e della memoria sociale, che in determinate circostanze può essere “riattivata e scaricata”. Nell’Atlante la giustapposizione di immagini, impaginate in modo da tessere più fili tematici attorno ai nuclei e ai dettagli di maggior rilievo, crea campi di energia e provoca lo spettatore a un processo interpretativo aperto: “la parola all’immagine” (zum Bild das Wort). (Link nei libri citati)

E qui mi viene in mente l’icastica sentenza di Benjamin: “La storia si frantuma in immagini, non in storie”. (Walter Benjamin, 2000)

In questo lavoro la fotografia gioca un ruolo chiave in quanto medium plastico generale a cui tutte le figure sono ridotte prima di essere disposte nello spazio del pannello, come ha scritto un altro studioso di Aby Warburg:

L’Atlas non si limita a descrivere la migrazione delle immagini attraverso la storia delle rappresentazioni ma le riproduce. In questo senso si basa su una modalità cinematografica, la quale, usando le figure, ha lo scopo non di articolare significati ma di produrre effetti. (Philippe-Alain Michaud, 2007)

E ancora:

I pannelli di Mnemosyne funzionano come schermi sui quali i fenomeni prodotti in successione dal cinema sono riprodotti simultaneamente.

Non è un caso che lo stesso autore accosta l’Atlas di Warburg alle Histoire(s) du cinéma di Jean-Luc Godard, in quanto condividono lo stesso metodo compositivo.

Non è azzardato dunque, dal mio punto di vista, considerare le sei sequenze di cui sopra, per analogia, come una sorta di pannello di un rosselliniano Atlante di Mnemosyne. I personaggi Katherine e Alex, gli attori Bergman e Sanders vengono messi a confronto con certe sequenze di immagini per verificarne gli effetti. E siccome questa verifica non può essere fatta a priori, cioè codificata in una sceneggiatura, il processo delle riprese deve restare aperto all’osservazione obiettiva delle reazioni dei personaggi-attori – dove le espressioni fisiche (del pathos) non sempre coincidono con la verbalizzazione delle stesse - nonché all’improvvisazione. Dal lato dello spettatore questo procedimento consente la possibilità di letture diverse, non esauribili in un senso univoco. Esattamente come nell’Atlante di Warburg, dove l’accostamento tra le immagini produce percorsi ed echi appunto inesauribili, e reversibili, di senso.
Rossellini crede alla forza simbolica e mitica dell’antico e del sacro – che a Napoli si manifesta con un’evidenza e una potenza maggiore che altrove – e crede, come Warburg, che la polarità tra pathos (l’antico) e ethos (legato alla razionalità moderna) - laddove si attivi, per così dire, positivamente, vale a dire che il logos riesca a non dimenticare nulla del pathos, come si diceva più sopra - possa condurre a un nuovo orientamento (altro concetto chiave di Warburg) nelle diverse sfere della vita umana, pratica intellettiva e spirituale, nel mondo visibile e in quello invisibile. Da qui questa sorta di esperimento (saggio) applicato ai due personaggi-attori nordici.

8. Osserviamo più da vicino le stazioni del percorso di Katherine e poi di Katherine e Alex. Fino al minuto 25 circa del film (col folgorante inizio del veloce camera-car in soggettiva sulla via Appia) non vi sono elementi extra-diegetici. Ci viene presentata la coppia, l’inizio delle schermaglie e l’ambiente della villa dello zio nell’aspro paesaggio dominato dalla sagoma del Vesuvio (in realtà vediamo il Monte Somma che nasconde il cono). Viene evocato Charles Lewington, l’amico poeta di Katherine che ha fatto la guerra a Napoli e poi è morto (e del quale Alex crede che la moglie fosse innamorata). E sono proprio i versi del poeta (“temple of the spirit/no longer bodies/but pure ascetic images”) che Katherine assume come chiave di lettura “spiritualistica” delle sue visite. Sarà presto smentita.

La prima stazione è la visita al Museo archeologico. Rossellini filma con eleganza e limpida aderenza le statue greco-romane nella loro nudità come fossero corpi vivi e filma le reazioni della donna, quasi sempre di disagio. Filma gli imperatori, crudeli e amanti del piacere, il satiro, (“divinità pagana molto pericolosa”), il fauno ubriaco che dorme saporitamente (“il sonno è una cosa meravigliosa”), la Venere “more mature” che piace all’anziano cicerone, quasi una greve galanteria nei confronti di Katherine. 

Emergono alcuni temi: l’eros, innanzitutto, poi la crudeltà, il gusto del piacere, la pigrizia. Tutt’altro che “pure ascetic images”, come più tardi Alex farà notare a Katherine con una punta di sarcasmo. Katherine coglie l’emergere di eros, e infatti è turbata dalla “lack of modesty”, dall’impudicizia, e non tarda a stabilire un’equivalenza tra gli uomini antichi e quelli di oggi, accomunati dalla crudeltà e dalla ricerca del piacere.
L’atmosfera di erotizzazione prosegue nella sequenza a casa del duca di Lipoli, dove i grevi corteggiamenti di alcuni ospiti sembrano non dispiacere a Katherine. Ritorna anche il tema della pigrizia, “il dolce far niente”. Dicono che i napoletani siano tutti indolenti, argomenta una donna, ma può essere indolente un naufrago? Noi siamo naufraghi, dobbiamo lottare tanto solo per stare a galla.

Il contrasto tra i coniugi si acuisce. Alex decide di andare a Capri “a divertirsi”.

La seconda stazione è l’antro della Sibilla. Nel tragitto in macchina che la porta al sito, Katherine incrocia un funerale, con tanto di carro barocco trainato da cavalli, e due donne incinte, preludio ai temi della vita e della morte. Ma prima Rossellini introduce un riferimento ironico, quando la guida racconta che lì, sulla spiaggia dell’Acropoli, dove sbarcò Enea, durante l’ultima guerra sbarcarono gli inglesi. La Sibilla governa ambiguamente vita e morte ma anche il destino degli amanti. Katherine vi oppone ancora i versi “ascetici” del suo amico, quasi un mantra per tenere distante l’eros, la violenza e la morte. Che invece la guida turistica le ricorda subito, mostrandole come i saraceni avrebbero legato ai buchi su una parete una bella donna come lei (“tutti gli uomini sono uguali”, commenta lei). 

L’ascesa al tempio di Apollo non placa il turbamento della donna: da lì si vede il mare e incombe la sagoma di Capri, dove Alex è andato a “divertirsi”. Di ritorno a casa, odio e gelosia… col commento ironico della canzone Luna caprese.

A Capri l’atmosfera erotizzante della città coinvolge anche Alex, col suo goffo tentativo di seduzione di una donna.

9. La terza stazione è la solfatara. Durante il tragitto, immagini di coppie felici e di donne con bambini nei passeggini. La guida le mostra il fenomeno della ionizzazione, con i fumi che si levano dappertutto. E’ come un gioco, Katherine si diverte ma la guida le ricorda subito che le potenze ctonie sono pericolose e distruttive, mostrandole il “pocket Vesuvio” con la danza dei lapilli. Fu proprio una immane pioggia di lapilli a seppellire Pompei.

Intanto a Capri fallisce il tentativo di Alex con la donna.
A casa, in un momento di relax riflessivo, a una domanda di Natalia (la donna che, con il marito Tony, sovrintende alla villa) Katherine risponde che no, Napoli non se la immaginava così. Natalia la invita a visitare le Fontanelle, per mostrarle “la vera Napoli”. Katherine è diffidente, sente già aleggiare l’ombra della morte.
Alex rientra a Napoli, patetico incontro con una prostituta. Rientro a casa, algido rapporto tra i due coniugi.

Quarta stazione, le Fontanelle. Durante il tragitto, Katherine e Natalia osservano molte donne incinte. Con le ossa e i teschi di centinaia e centinaia di defunti, le Fontanelle sono un luogo di morte ma anche un luogo di pietà, un luogo del sacro e un luogo di vita. E’ infatti qui che Natalia viene a pregare per chiedere la grazia di avere un figlio. Vita e morte sono sempre intrecciate. Difficile leggere sul volto di Katherine l’effetto di questa visione, al di là del turbamento.

Quando Katherine e Alex si incontrano a casa, è di nuovo scontro. L’improvvisa decisione di divorziare. E qui irrompe Tony con l’invito ad andare a Pompei, dove faranno un calco dentro il vuoto lasciato da un corpo umano nella lava.

Quinta stazione, Pompei, la città morta. Nell’area dei nuovi scavi si effettua il calco iniettando il gesso nel vuoto. Emergono due figure umane, un uomo e una donna, colte nel momento stesso della morte. Forse marito e moglie, che hanno trovato la morte insieme, dice Tony. Morti che tornano a una sorta di provvisoria vita, in realtà un memento di un destino comune.  

Estremo turbamento di Katherine, che scoppia a piangere. E’ come se questo turbamento fosse la sommatoria delle emozioni dalle ultime visite e forse anche dalle precedenti. Demolita la visione ascetica dell’amico poeta, Katherine si ritrova smarrita davanti alle potenti immagini di morte con le quali è costretta a confrontarsi. 

A cosa porterà questo smarrimento? C’è da aggiungere che anche Alex sembra in parte colpito in questa circostanza, ma poi passa di nuovo a un atteggiamento sarcastico. Come è breve la vita, dice Katherine. Per questo dovremmo godercela, ribatte Alex. Ed è l’unica, banale conclusione cui possono arrivare i due coniugi, che lasciano il sito in macchina.

Sesta stazione, la processione e il miracolo. Qui il sacro si dispiega nella forma tradizionale della processione, con grande partecipazione di popolo, di ogni età e di ogni estrazione, e poi nel miracolo, l’uomo che alza le stampelle e cammina. Katherine e Alex sono presi dalle loro diatribe, dalle reciproche contestazioni, sordi e in fondo entrambi sprezzanti verso quella gente che fa della fede la sua forza. 

Poi la folla li travolge ed è la paura di perdersi forse che produce anche per loro un piccolo miracolo, con la decisione di rinunciare al divorzio e di riprovare a stare insieme. Una finale inatteso, improvviso, e certamente provvisorio nella dinamica del film, una sorta di falso “happy end”. 

10. Dunque quali effetti produce il confronto con la sopravvivenza dell’antico, dell’arcaico e del sacro di quella città unica nel suo genere che è Napoli?
Riassumendo, da questo breve excursus si comprende che Rossellini mette in campo i temi di fondo legati a questa persistenza: l’eros, il corpo, la violenza, il piacere, le potenze ctonie della terra, la vita e la morte nel loro intreccio sostanziale, la pietà, la fede, il miracolo. E ce li presenta variandoli liberamente, qua e là punteggiati da spunti ironici. Ne emerge anche il suo peculiare metodo: il dispiegamento dell’Atlante, del potente palinsesto di immagini da un lato, e l’osservazione attenta delle reazioni dei personaggi-attori dall’altro.

Su quest’ultimo punto si potrebbe dire che il confronto della coppia borghese nordica con l’arcaico e il sacro fallisce. Nel caso di Alex per un sostanziale rifiuto a mettersi in gioco. Per Katherine c’è l’ostacolo iniziale di un approccio “spiritualistico” ma poi, messa davanti alla durezza dei contenuti che la città le propone, la donna vi oppone le sue reazioni pregiudiziali, quindi si smarrisce, subentra l’angoscia e la sofferenza. (In termini junghiani, si potrebbe dire che i due coniugi rifiutano il confronto con la loro Ombra.) E’ solo nel momento clou del miracolo che la coppia, nella paura di perdersi, coglie un modesto risultato nella provvisoria riconciliazione, che si genera più che altro da un meccanismo difensivo contro l’irrazionalità di quella fede così assoluta. In termini warburghiani, Alex e Katherine non riescono a incorporare nell’ethos i contenuti del pathos, la polarità resta tale, non si attiva, e dunque viene a mancare un orientamento verso una nuova dimensione della vita.

E’ una lettura possibile, sulla base delle suggestioni di Aby Warburg, ma in realtà il film non offre mai risposte univoche, come si è già detto. Osservando gli sguardi e i gesti di Katherine-Ingrid e di Alex-Geroge, ascoltando i loro dialoghi, c’è sempre un’eccedenza che sconsiglia conclusioni affrettate e appunto univoche. Il regista, filmandoli, non è a sua volta alla ricerca di un senso monosemico, dettato da un copione, non cerca l’inquadratura “buona”, ma piuttosto è interessato alla ricerca di significanti polisemici, registra le discrepanze, le ambiguità, il non detto. La macchina da presa diventa come una sonda volta a estrarre dagli attori-personaggi le molteplici e contraddittorie reazioni, consce e inconsce, all’apparato figurale e a consegnarcele nella loro opacità e al tempo stesso nella loro evidenza, nella loro flagranza. Tocca allo spettatore attivarsi per operare la propria personale lettura. E’ la soggettività del suo sguardo che dà senso, di volta in volta, e con possibili molteplici variazioni, al film.

Nel 1962 Umberto Eco teorizzava la nozione di “opera aperta” (Umberto Eco, 1962). Otto anni prima, in sintonia con le precedenti e coeve più avanzate esperienze artistiche, Rossellini elaborava una metodologia radicale di apertura della prassi e delle forme cinematografiche che avrebbe avuto un’influenza decisiva nei decenni a venire. Sta in questo, soprattutto, la “modernità” di Viaggio in Italia di cui parlavano Rivette e Rohmer.

Libri e saggi citati
 
 - Jacques Rivette, Lettre sur Rossellini, Cahiers du Cinéma, n. 46, aprile 1955
 -
Maurice Schérer (Éric Rohmer), La terre du Miracle, Cahiers du Cinéma, n.47, maggio 1955
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Gianni Rondolino, Rossellini, UTET, 1989
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Peter Brunette, Roberto Rossellini, Oxford University Press, 1987
- Colette, Duo, 1934
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James Joyce, The Dead, in Dubliners, 1914
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Salvatore Piscicelli, Rossellini filosofo e santo, Bianco e Nero, marzo-aprile 2002, anche in: Salvatore Piscicelli, L’imitazione della vita, Meltemi, 2018
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Claudia Cieri Via, Introduzione a Aby Warburg, Laterza, 2011
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A. Warburg, L’antico italiano nell’epoca di Rembrandt, in Opere II, La rinascita del paganesimo antico ed altri saggi (1919-1929), Aragno, 2008
-
Giorgio Agamben, Aby Wargurg e la scienza senza nome (1975), Aut-Aut 199-200, gennaio-aprile 1984
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Aby Warburg – Ernst Cassirer, Il Mondo di ieri – Lettere, a cura di Maurizio Ghelardi, Aragno, 2003
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Rivista di Engramma (on line) (https://engramma.it/eOS/core/frontend/eos_atlas_index.php?id_articolo=4089#ancora%20pagina%20atlas)
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Walter Benjamin, Opere Complete IX. I “passages” di Parigi, Einaudi, 2000
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Philippe-Alain Michaud, Aby Warburg and the Image in Motion, Zone Books, 2007
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Umberto Eco, Opera aperta. Forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee, Bompiani, 1962

Scheda filmografica
Viaggio in Italia

Regia: Roberto Rossellini
Soggetto e sceneggiatura: Roberto Rossellini, Vitaliano Brancati
Fotografia: Enzo Serafin; Aldo Tonti, Luciano Trasatti (per alcune sequenze)
Operatore alla macchina: Aldo Scavarda
Scenografia: Piero Filippone
Costumi: Fernanda Gattinoni (per Ingrid Bergman)
Autore del commento musicale: Renzo Rossellini
Canzoni napoletane: Giacomo Rondinella
Suono: Eraldo Giordani
Montaggio: Jolanda Benvenuti
Assistenti alla regia: Marcello Caracciolo di Laurino, Vladimiro Cecchi
Negativi e positivi: Tecnostampa – F.lli Genesi

Interpreti: Ingrid Bergman (Katherine Joyce), George Sanders (Alexander Joyce), Paul Müller (Paul Dupont), Maria Mauban (Marie, la ragazza dalla gamba ingessata), Anna Proclemer (la prostituta), Leslie Daniels (Tony Burton), Natalia Ray (Natalia Burton), Tony La Penna (Bartolo), Jackie Frost (Judy), Lyla Rocco (signora Sinibaldi), Bianca Maria Cerasoli (amica di Judy), Lucio Caracciolo, Marcello Caracciolo

Direttori di produzione: Marcello d’Amico, Mario Del Papa
Ispettori di produzione: Mimmo Salvi, Pietro Notarianni
Produzione: Roberto Rossellini per Sveva Film, Adolfo Fossataro per Junior Film, Alfredo Guarini per Italia Film, Société Générale de Cinématographie, Ariane, Francinex Parigi
Distribuzione: Titanus
Origine: Italia-Francia, 1954
Durata: 85 minuti
Uscita sugli schermi: Cinema Mignon, Milano, 7 settembre 1954
























mercoledì 2 agosto 2023

Chiesa di Santa Bibiana: “opera prima” di Bernini architetto

La piccola chiesa che si intravede dietro il verde degli alberi, soffocata dalle propaggini sud-orientali della stazione Termini, lungo via Giolitti, nel quartiere Esquilino, è intitolata a Santa Bibiana, martire cristiana del IV secolo d. c. Al di là delle modeste apparenze, questo edificio religioso rappresenta una sorta di incunabolo del barocco romano.

Quest’area era nota nell’antichità come Horti Liciniani in quanto vi sorgeva un complesso di edifici, con parchi e bagni, appartenenti al colto imperatore Licinio Egnazio Gallieno, amico di Plotino, che regnò dal 253 al 268, prima col padre Valeriano e poi da solo. Secondo il Liber Pontificalis, papa Simplicio nel 468 fece erigere proprio in quest’area una chiesa dedicata alla martire, ma un’antica tradizione sposta la costruzione a circa un secolo prima, 363, ad opera della matrona romana Olimpina. Nel 1224 papa Onorio III restaurò l’edificio, annettendovi un monastero femminile, poi soppresso e demolito. Nel 1624, a seguito del rinvenimento delle reliquie della santa, papa Urbano VIII Barberini ordinò un rifacimento della chiesa e affidò l’incarico a Gian Lorenzo Bernini, all’epoca ventiseienne. Ecco come doveva apparire la chiesa nel Seicento, a dar fede a una stampa di Giovan Battista Falda del 1669.

Quando mette mano al progetto, per quella che a tutti gli effetti era la sua prima commissione come architetto, Bernini, a dispetto della giovane età, è già uno scultore affermato, e basterebbe citare le opere che scolpì per il cardinale Scipione Borghese dal 1618 al 1625: Enea, Anchise e Ascanio, Il ratto di Proserpina, il David, Apollo e Dafne. Ma come architetto era ai primi vagiti, e sappiamo che gli ci vollero degli anni per acquisire sicurezza in quest’arte.

L’intervento più significativo fu la costruzione della facciata. Per quanto riguarda l’interno, l’artista lasciò intatta la struttura antica della chiesa, con le belle colonne di spoglio provenienti da diversi edifici dell’antichità. Chiuse le finestre della navata centrale, aprì due cappelle in fondo alle navate laterali e infine eliminò l’abside costruendo un nuovo presbiterio, dove in una nicchia collocò la sua statua della santa.


E’ una facciata a portico quella di Santa Bibiana. L’ordine inferiore presenta tre archi separati da pilastri con lesene a capitello ionico, quello superiore è ugualmente tripartito, con due finestre laterali ma con un’edicola centrale (che è il vero elemento di spicco della facciata), aperta a loggia, dove sono accentuati i pilastri, i piedritti, che reggono la trabeazione del timpano, con l’effetto di staccarla dalla superficie e di conferirle un moto verticalizzante. E’ un modulo, questo della facciata a portico, che appartiene a un preciso filone classico-manieristico. Si pensi alla facciata della Basilica di Santa Francesca Romana di Carlo Lombardi (1615) o, qualche anno dopo Santa Bibiana, alle facciate di San Gregorio al Celio e di Santa Caterina a Magnanapoli, entrambe di Giovan Battista Soria.

Ecco come la descrivono Maurizio e Marcello Fagiolo dell’Arco: “La facciata-portico è una scatola volumetrica semplicissima, compatta, squadrata. Non ha la presunzione d’una chiesa, ma vuole atteggiarsi come un casino suburbano di villa signorile. L’unico accento ecclesiastico è l’edicola centrale che si trasforma in loggetta delle benedizioni: ma senza pretese, senza sfarzo. Una stereometria silenziosa, fondata sulle basi serene di un classicismo romano-rinascimentale. E pensare che proprio negli stessi anni Bernini lavorava al trionfale Baldacchino di San Pietro, il frontespizio dell’architettura barocca!”

I giudizi degli storici dell’arte non concordano. Al parere nettamente negativo di Paolo Portoghesi (“un’opera debole e irrisolta”) e di Anthony Blunt (“una secchezza di trattamento sorprendente per un virtuoso della scultura”) fa eco quello positivo di Rudolf Wittkower (“un nuovo, ardito ed individuale punto di partenza”). Più sfumato quello di Cesare Brandi: “…rispetto all’architettura manieristica c’è anzi una riattivazione, sia pure misurata, dello scaglionamento prospettico…” Con riferimento specifico al trattamento dell’edicola centrale. E quello di Maurizio e Marcello Fagiolo dell’Arco (“in questo incunabolo dell’arte berniniana, vibra qualche fremito lineare e strutturale”).

La statua di Santa Bibiana

All’interno, come s’è detto, Bernini opera pochi interventi, il principale dei quali è il nuovo presbiterio, una sorta di arco trionfale anch’esso di impostazione classica, con la nicchia che ospita la statua della santa. Qui apre una lunetta il cui effetto è un controluce che si riverbera sulla scultura.

Questa statua è la prima opera pubblica di soggetto sacro dell’artista. A dimostrazione del prestigio raggiunto come scultore, Bernini ricevette un compenso di 600 scudi, più del doppio di quanto gli era stato pagato da Scipione Borghese per il David. La santa, con un braccio posato sulla colonna del martirio, è colta in un momento di rapimento estatico, con la mano destra sollevata e un accenno di movimento della gamba destra mentre con l’altra mano regge la palma, simbolo del martirio. 

Il modello iconografico del volto (sguardo rivolto al cielo, bocca appena socchiusa) viene dai celebri dipinti di sante di Guido Reni, uno standard per il Seicento. Qui l’espressione della santa ha un che di pacato e di sereno, quasi di fiduciosa attesa, come se la sua visione fosse già oltre il martirio. E si noterà la differenza con altri due capolavori più tardivi, l’Estasi di Santa Teresa in Santa Maria della Vittoria (1645-1652) e l’Estasi della Beata Ludovica Albertoni in San Francesco a Ripa (1671-1674), di soggetto analogo, dove la soluzione espressiva è, giustamente, assai più drammatica.

Una statua drappeggiata richiede da parte dell’esecutore una competenza di alto livello e Bernini si dimostra perfettamente attrezzato al compito. Il panneggio ha una grande evidenza naturalistica, è ricco di sottigliezze, con straordinari effetti di luminismo pittorico. Le pieghe, arriva a scrivere Brandi, “costituiscono un partito plastico autonomo e quasi non hanno più a che fare con la configurazione del corpo sottostante.” Altre volte Bernini utilizzerà il drappeggio in chiave espressiva e quasi narrativa, ma qui l’esecuzione non è inferiore a quella di altri capolavori (vedi sopra). Scrisse il figlio Domenico nella biografia dedicata al padre: “...di questa sua opera si pregiò poi sempre in modo il Bernino anche nella sua più provetta età, che fu solito dire, Non haver’esso fatta quella Statua, ma la Santa medesima essersi da sé medesima scolpita, et impressa in quel marmo.”

E’ da sottolineare un dettaglio, una finissima natura morta di erbe ai piedi della santa. Qui sarebbe da individuare l’apporto di uno dei principali collaboratori di Bernini, il carrarese Giuliano Finelli, scultore dotato di grande abilità tecnica. In quegli stessi anni Finelli collaborò all’esecuzione di Apollo e Dafne, proprio per le parti del fogliame, di più ardua difficoltà. Nel 1629 Finelli ruppe con Bernini e iniziò una carriera da indipendente: tra i motivi addotti fu anche il mancato riconoscimento dell’importante ruolo svolto nell’esecuzione di quel gruppo marmoreo. Su questa, come su altre vicende simili (vedi la rottura con Borromini), si può leggere con profitto la monografia dello studioso americano, ed ex gesuita, Franco Mormando (Bernini, his life and his Rome, 2011), dove viene documentato il lato oscuro della personalità e delle vicende biografiche del grande artista e smontato l’alone agiografico che da sempre, a partire dalla biografia del figlio Domenico, ha circondato la sua figura.

Gli affreschi di Pietro da Cortona

Ma Santa Bibiana ci riserva un’altra sorpresa, e cioè la presenza di un’opera pittorica di un altro grande protagonista del barocco romano, Pietro da Cortona. La decorazione pittorica della chiesa era stata affidata ad Agostino Ciampelli, che peraltro era cognato di Bernini. Fiorentino, Ciampelli, già alla soglia dei sessanta, era legato alla tradizione controriformistica, propugnatore di una pittura di tipo devozionale ormai superata. Egli, con altri della sua scuola, affrescò la parete destra della navata centrale con scene della vita della santa. Per la parete sinistra, sempre con scene della vita della santa, fu chiamato successivamente il giovane Pietro da Cortona.

Pietro Berrettini (detto da Cortona) si era trasferito a Roma dalla natia cittadina toscana nel 1612, all’età di quindici anni. Qui si formò studiando i monumenti antichi e la pittura coeva di Guercino, Lanfranco, Rubens. Grazie al mecenatismo dei fratelli Sacchetti, ebbe modo già a partire dal 1920 di farsi notare nell’ambiente cardinalizio. Si impose poi anche come architetto (ricordiamo la chiesa dei santi Luca e Martina ai Fori o Santa Maria della Pace), ma si considerò sempre innanzitutto un pittore. 

Gli affreschi di Pietro da Cortona
 

Prima che a Santa Bibiana, Pietro aveva avuto modo di misurarsi con la tecnica dell’affresco nella Villa Muti a Frascati e, tra il 1622 e il 1623, nella galleria di Palazzo Mattei. Ma sono gli affreschi di santa Bibiana a costituire il primo punto di maturazione di “uno stile virile, audace e vivo” (Wittkower). Il dinamismo delle figure, la costruzione drammatica della scena, gli effetti di chiaroscuro, l’attenzione allo sfondo antico e ai dettagli: sono tutti elementi che saltano agli occhi, e lasciano intravedere un futuro, ancor più vigoroso sviluppo del suo stile. 

Gli affreschi di Agostino Ciampelli

E’ di Pietro da Cortona anche la tela con Santa Dafrosa nella cappella in fondo alla navata sinistra.

 

Di lì a qualche anno, a partire dal 1633, Pietro realizzerà l’opera cardine della pittura barocca, l’enorme straordinario affresco del salone di Palazzo Barberini, il Trionfo della Divina Provvidenza, imponendosi, con Bernini e Borromini, come uno dei grandi protagonisti del barocco romano.

 

Libri citati:

Paolo Portoghesi, Roma barocca, 1966

Maurizio e Marcello Fagiolo dell'Arco, Bernini, una introduzione al gran teatro del barocco, 1967

Cesare Brandi, La prima architettura barocca, 1970

Rudolf Wittkower, Arte e architettura in Italia. 1600-1750, 1972

Anthony Blunt, Baroque and Rococo. Architecture and Decoration, 1978

Franco Mormando, Bernini: his life and his Rome, 2011





venerdì 7 luglio 2023

La canzone di Zeza

 

La canzone di Zeza è il primo film da me realizzato, nell’ormai lontano 1976, con la collaborazione di un ristretto gruppo di compagne e compagni. Lo ripropongo qui in omaggio alla memoria di Marcello Colasurdo, il nostro caro amico Marcellone, che ci ha lasciato prematuramente qualche giorno fa.

Questa la scheda filmografica:

La canzone di Zeza

Regia e fotografia (16mm, colore) Salvatore Piscicelli e Giampiero Tartagni; in collaborazione con: Adriana Bellone, Cristina Ruiz, Nieves Zenteno; interpreti: Marcello Colasurdo (Zeza), Luigi Cantone (Pulcinella), Ugo Basile (Vicenzella), Matteo D'Onofrio (Don Nicola), Pasquale Terracciano (Sarchiapone); produzione: L’Officina cinematografica; origine: Italia; anno: 1976; durata: 36’.

In un cortile della vecchia Pomigliano, il Gruppo Operaio 'E Zezi mette in scena La canzone di Zeza, uno spettacolo cantato e danzato, interpretato da soli uomini (nei ruoli femminili en travesti), che tradizionalmente si rappresentava per le strade e nei cortili durante il carnevale. Lo spettacolo termina con il canto collettivo di Bandiera rossa.

Girato il 7 marzo 1976 alla Masseria di Visone – Pomigliano d’Arco.

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La canzone di Zeza è un esempio di teatro popolare, probabilmente di origine seicentesca, legato ai riti di passaggio stagionali segnati dal Carnevale. Da Napoli si è poi diffuso nelle varie province della Campania.

Il Gruppo Operaio ‘E Zezi, fin dalla fondazione nel 1974, lavorò al recupero di questa e di altre forme espressive popolari come rivendicazione di una inalienabile identità storico-culturale di origine contadina in contrapposizione alla cultura capitalistica determinata dalla presenza nel territorio dell’industria (Alfa Romeo, Avio, Alfasud), con l’intento di usarle come strumento di lotta sociale e politica.

Il video qui presentato è stato trascritto dall’unica copia in 16 mm esistente del film e purtroppo non è esente da difetti: sganci, piccoli tagli, rigature, in particolare nei primi minuti. Malgrado ciò, mi è sembrato interessante riproporlo come documento della temperie sociale di una fase storica, gli anni Settanta del Novecento, sulla quale forse occorrerebbe riaprire una riflessione.





mercoledì 21 giugno 2023

San Carlo alle Quattro Fontane e Sant’Andrea al Quirinale: due facce del barocco romano

Una domenica mattina della primavera del 1968 (se la memoria non m’inganna sulla stagione) uno sparuto gruppo di studenti del corso di storia dell’arte della Facoltà di lettere e filosofia della Sapienza di Roma entrano nel vasto cortile dell’edificio che ospita l’Archivio di Stato (un tempo sede dell’università). E’ prevista una lezione in loco su Sant’Ivo alla Sapienza di Francesco Borromini tenuta dal titolare del corso, Cesare Brandi (alla Facoltà di lettere i corsi sono due, l’altro è tenuto da Giulio Carlo Argan). Tra quel manipolo di ventenni in jeans, con barbe e capelli lunghi, e il sessantenne docente, elegantissimo in un completo chiaro, il contrasto non potrebbe essere più stridente. Ma in verità noi studenti nutrivamo una grande stima per quel professore: per le sue lezioni, esemplari per chiarezza e dottrina, e anche per quelle visite fuori programma, che dovevamo soltanto alla sua generosità. Mi è rimasta impressa nella memoria, in particolare, quella a Sant’Ivo perché Brandi si dilungò sul concetto di interno dell’esterno ed esterno dell’interno, caratteristico della sua analisi dell’architettura di Borromini.

Cesare Brandi

Fu allora, in quel turbolento 1968 e grazie soprattutto agli insegnamenti di Cesare Brandi, che nacque il mio interesse, e dovrei dire la mia passione, per il barocco romano e in particolare per Borromini; un interesse per nulla estraneo al mio lavoro creativo. Negli ultimi quarantacinque anni, da quando abito al quartiere Monti, molte volte, talora dopo lunghissimi intervalli, ho attraversato via Nazionale e risalito via delle Quattro Fontane, da solo o in compagnia, per visitare le due chiese, distanti poco più di centocinquanta metri l’una dall’altra, frutto del genio di due artisti del tutto antitetici tra loro, per carattere, personalità, stile, poetica, visione del mondo e riconoscimento sociale. Scrivo queste note, a mo’ di promemoria, su sollecitazione di un paio di amici che mi hanno accompagnato in una delle mie più recenti escursioni.

Voglio anche ricordare che venticinque anni fa ho avuto il piacere di filmare, con la complicità di Saverio Guarna, l’Estasi di Santa Teresa di Bernini e il magnifico chiostrino del San Carlo. La sequenza, qui riprodotta in bassa definizione, fa parte del film Il corpo dell’anima (1999), protagonista Roberto Herlitzka, che racconta tra l’altro la storia di uno scrittore che lavora a una sceneggiatura sulla vita di Teresa d’Avila.

 

 

San Carlo alle Quattro Fontane

Il complesso del San Carlino (sottoposto a un lungo lavoro di restauro tra il 1986 e il 2006) sorge all’angolo sud-ovest dell’incrocio tra via delle Quattro Fontane e via del Quirinale (l’antica via Pia). 


Furono i padri trinitari spagnoli a offrire a Borromini la prima commissione da architetto indipendente dopo la rottura con Bernini, sotto il quale aveva lavorato sia in San Pietro che a Palazzo Barberini. Lo spazio era angusto ma Borromini lo sfruttò ingegnosamente. Si iniziò con gli alloggi per i monaci, poi fu la volta del chiostro (1635). La prima pietra della chiesa fu posta nel 1638, i lavori si conclusero nel 1641, la consacrazione avvenne nel 1646. La facciata è di molto posteriore. Fu l’ultimo lavoro (1665) a cui pose mano l’artista e fu terminato dal nipote Bernardo dopo la sua morte.

Tralasciamo per ora la facciata e iniziamo la visita dal chiostrino. Ecco come lo descrive Brandi: “Nel chiostro l’ascendenza manieristica è solo apparente: già è cominciata l’opera di disgregazione del codice classico. I capitelli dorici non hanno abaco: è come riassorbito nella trabeazione, ma anche questa è abbreviata. Le colonne del piano superiore recano basi ottagonali. Il chiostro che ha pianta rettangolare, per il lungo, mostra gli angoli scantonati, ma la scantonatura si rigonfia, come se, di dietro, qualcosa premesse. Insomma, in questa prima opera, che ad uno sguardo distratto può apparire immobile elegante e fredda, si avverte già la tematica spaziale borrominiana: l’interazione continua ed in atto di interno e di esterno. Una fascia avvolgente e pressante forza, si direbbe nei punti più deboli, il diaframma costituito dall’involucro architettonico, ma una pressione interna la contiene: l’equilibrio deve apparire instabile…” (C. Brandi, La prima architettura barocca, 1970, pag. 77-78).


Notiamo un altro particolare: nel piano superiore i pilastrini della balaustra, con il rigonfiamento normalmente in basso, si alternano rovesciandosi l’uno dopo l’altro con un effetto che qualcuno ha definito di “movimento tremolante”. Nell’insieme la forma architettonica regola anche il gioco dell’ombra e della luce. E qui voglio citare Argan: “… è evidente il contrasto tra il primo ordine, in cui i pieni predominano sui vuoti, ed il secondo, in cui il vuoto predomina nettamente sul pieno. In basso, l’alternativa di colonne affiancate e di archi non ha altro scopo che di accentuare fortemente la luminosità dei risalti contro l’ombra profonda del portico; in alto, le colonnine solcano coi fusti luminosi l’ariosa penombra della loggia.” (G. C. Argan, Borromini, 1955-1978, pag. 61). La leggerezza di questa loggia, notavo in certi giorni di accentuata luminosità del cielo, la fa apparire più eterea e come se oscillasse, quasi a staccarsi dalla solida struttura dell’ordine inferiore per involarsi verso l’alto. Un effetto di verticalizzazione (di subida, come lo definisce spesso Brandi, credo mutuando il termine dalla mistica spagnola), così frequente nelle architetture di Borromini.

Entriamo nella chiesa. La prima cosa che colpisce è la suprema eleganza di questo interno tutto bianco con piccoli tocchi dorati. E va subito notato che qui, come quasi sempre nelle fabbriche di Borromini, i materiali usati sono umili: mattoni, intonaco, stucco. E’ la forma che rende preziosa la materia.

La pianta della chiesa è ellittica, con l’entrata e l’altare maggiore ai vertici dell’asse lungo. Borromini giunge a questa forma per via geometrica. Scrive Virgilio Spada, un padre oratoriano amico e sostenitore del nostro artista: "Sí come la melodia delle voci nasce da’ numeri, così la bellezza delle fabbriche professa [il Borromini] nascer parimente da’ numeri, e che tutte le parti habbino una tal proportione, che un’apertura di compasso, senza mai muoverlo, le misuri tutte." Anche questo modo di procedere crea una cesura con la tradizione classica, codificata sugli antichi nei trattati rinascimentali (casomai Borromini attinge ispirazione direttamente dall’architettura antica, ad esempio Villa Adriana, e forse l’unico architetto classico-manierista da cui trae spunti è Michelangelo, per il quale nutriva una vera e propria venerazione). La concezione antropomorfica è definitivamente abbandonata.  

In Sant’Ivo alla Sapienza (altro magnifico capolavoro) si parte da una stella a sei punte, ottenuta sovrapponendo due triangoli, che diventa un esagono che struttura l’intero complesso. Nel San Carlino, Borromini parte da due triangoli equilateri affiancati e da lì muove per arrivare a una forma ellittica. (Si noti che il triangolo è anche simbolo della Trinità e che il doppio triangolo a sua volta è un potente simbolo di complementarità e opposizione: acqua e fuoco, maschile e femminile, natura umana e divina di Cristo.) Anche qui, come nel chiostro, utilizza elementi del codice classico ma li rovescia, li disloca, li ricompone, spesso elevando a funzione portante elementi decorativi e viceversa, nel quadro di un progetto che nasce da una sorta di furor creativo (l’espressione è di Argan) dove immaginazione e tecnica si fecondano a vicenda.

Borromini articola i muri in eleganti curvature, alternando nicchie e colonne appena incassate, con il capitello composito dove inverte la voluta della foglia d’acanto arrotolandola all’interno, come a chiudere la colonna in se stessa e ad anticipare la cesura dell’architrave. L’effetto complessivo è nettamente percepibile: ritmo e movimento. Lo sguardo dell'osservatore è portato a cogliere la molteplicità degli elementi che concorrono a generare quest'effetto ma al contempo l'unità dell'insieme, e infatti l'occhio si volge naturalmente verso l'alto, verso l’ampia trabeazione, anch’essa movimentata con grande libertà, e infine verso la cupola che si eleva oltre una sorta di corona che la fa arretrare ulteriormente e dove Borromini recupera la purezza dell’ellissi. L’interno della cupola è decorato con una serie di forme complesse che rimpiccioliscono verso l’alto, così da farla apparire, con effetto illusionistico, più alta di quanto non sia. Ancora un moto verticalizzante, una subida, come si è visto a proposito del chiostrino. Dalla cupola proviene quasi unicamente la luce, vale a dire da finestre poste alla base e dalla lanterna in cima.

 

A proposito della funzione della luce nelle architetture di Borromini, Cesare Brandi fa notare una opposta interpretazione da parte degli studiosi (C. Brandi, Struttura e architettura, 1967-1971, pag. 77-78-79). Hans Sedlmayr parla di “una luce omogenea, diffusa, pallida” (Die Architektur Borrominis, 1930, pag. 92). Al contrario Argan introduce la nozione di luminismo come elemento essenziale dello stile borrominiano e istituisce un parallelo con la pittura di Caravaggio: “La luce, da qualità dello spazio, si muta in qualità della forma…” (Borromini, 1955-1978, pag. 59).

In realtà la lezione di Argan è da accogliere per gli esterni, come si è già visto nel caso del chiostrino, e in particolare per le facciate, dove la luce mette in rilievo i profili delle sagome, animando così le superfici. E’ per questo motivo che, secondo un altro studioso, il Guidi, Borromini accentua i risalti delle facciate quando sono esposte a nord, di modo che la luce radente possa conferirvi ugualmente un rilievo luminoso. Ma per gli interni sembra più valida la lezione dello studioso austriaco. Come nel San Carlino. Qui si è colpiti, scrive Brandi, “dalla immaterialità di quella luce...”. E ancora: “E’ una luce chiara e sospesa nell’aria come un tenue pulviscolo, ma più simile a qualcosa che evapora che a cosa che si posi. L’ombra nasce ugualmente indistinta, con la qualità di un crepuscolo invernale, e cresce lentamente verso la luce come una insensibile marea. E’ una luce triste, a San Carlino, e a Propaganda Fide, perché volutamente innaturale, repressa, data a dosi minime… Niente dei colpi di luce berniniani, delle fantasmagoriche esplosioni come nella Cattedra di San Pietro, o nelle saette della Santa Teresa. La luce, nel Borromini, deve essere ridotta alla controllata luminosità che la qualità spaziale dell’architettura esige.” Per parte mia, non definirei quella del San Carlino come una luce triste ma piuttosto come una luce quietamente pacificata, che invita alla contemplazione e alla meditazione, e che talvolta, in certe circostanze atmosferiche, può diventare calda e confortante. Altrove, nel già citato volume sulla prima architettura barocca, Brandi segnala giustamente un’eccezione a questa “controllata luminosità” e cioè Sant’Ivo alla Sapienza, dove, grazie ai grandi finestroni della cupola, la luce si fa “trionfale” e riempie “tutto l’invaso come ne fosse la propria sostanza” (pag. 93-94).

Anche la cripta, accessibile da una porta sulla parete di sinistra, merita una visita. Scrive Joseph Connors: "In questo luogo adibito a sepoltura per i monaci non vi è alcun ornamento. Una visita alla cripta schiarisce la mente, come una passeggiata nella tersa aria notturna dopo una cena inebriante.Qui meglio che in qualsiasi luogo lo spettatore sazio di stimoli può vedere la cristallina geometria che governa il movimento delle pareti sovrastanti." (Citato da Paolo Portoghesi in Storia di San Carlino alle Quattro Fontane, 2001, pag. 170.)

 

L’esterno della cupola è poco visibile dalla strada ma Brandi ci conferma che “è immaginata in modo ascensionale; è una subida, non meno di quella di Sant’Ivo.”(La prima architettura barocca, pag. 83).

"La facciata di San Carlino, qualunque sia la direzione di provenienza... fin da lontano si presenta ai nostri occhi come un oggetto plastico di inattesa intensità, che si appoggia alla quinta stradale improvvisamente animandola, spezzandone la inerzia ma non la continuità." (P. Portoghesi, ivi, pag. 105-106). Costruita in travertino (purtroppo sottoposta a costante degrado dovuto allo smog), è divisa in due ordini, ciascuno spartito da colonne. In quello inferiore la superficie è ondulata in tre parti concavo-convesso-concavo, in quello superiore in tre parti concave. Si potrebbe vedere in queste forme una "scelta simbolica della oscillazione dell'onda, del respiro, delle manifestazioni più elementari del movimento e della vita." (Portoghesi, ivi.)

Nell’insieme, la facciata è molto movimentata; il che confermerebbe, essendo esposta verso nord, l’osservazione del Guidi a cui accennavo più sopra. Da notare la disposizione in diagonale delle colonne, cioè dei capitelli e delle basi, probabilmente ispirata a Michelangelo, che contribuisce al dinamismo delle superfici. Sull’ordine superiore, terminato dal nipote Bernardo, vi sono contrastanti pareri tra gli studiosi, sui quali non mi addentro qui per ragioni di spazio. Nell’insieme è una facciata che a me dà l’impressione di una massiccia, forte presenza, come a contrasto con il piccolo, ovattato interno.

La chiesa riscosse un immediato successo. I trinitari erano soddisfatti. Avevano ottenuto non solo una chiesa bellissima, ammirata da tutti (arrivavano richieste di avere i piani dall’Italia e da fuori), ma un complesso perfettamente funzionale alle loro esigenze, e la spesa era stata assai contenuta. Secondo la testimonianza di fra’ Juan de san Bonaventura, Borromini rinunciò al suo compenso.

 

Sant’Andrea al Quirinale

Muoviamo pochi passi in direzione sud-ovest, avendo dall’altro lato della strada la cosiddetta Manica lunga del Palazzo del Quirinale, per giungere, superato un piccolo giardino, alla facciata di Sant’Andrea al Quirinale.
 

E’ una bella facciata, semplice, quasi austera, a un sol ordine, in travertino. Due pilastri a paraste corinzie reggono un classico timpano triangolare. Un’elegante gradinata semicircolare conduce a un protiro, anch’esso semicircolare, sorretto da due colonne ioniche e sormontato dallo stemma dei Pamphili, dietro il quale c’è un arco finestrato. Qui si addensa l'ombra che anticipa l'interno. Dalla facciata si dipartono due fasce murarie concave (purtroppo accorciate quando fu allargata la strada nell'Ottocento), reminiscenza in miniatura del colonnato di San Pietro, come ad accogliere il visitatore e invitarlo a entrare.

Sant’Andrea al Quirinale appartiene al complesso del Noviziato dei Gesuiti. Quando si decise di demolire la vecchia e inadeguata cappella e di sostituirla con un edificio nuovo, papa Alessandro VII Chigi designò Bernini come architetto. I fondi per la costruzione furono raccolti dal principe cardinale Camillo Pamphili (da qui il vistoso stemma sul protiro). I lavori iniziarono nel 1658 e si protrassero per oltre un decennio, fino al 1670. Bernini fu assistito dal suo aiuto Mattia de' Rossi. Secondo la testimonianza del figlio Domenico, egli considerò questa chiesa come la più riuscita delle sue opere di architettura.

La scelta fu approvata dai gesuiti, con i quali Bernini aveva ottimi rapporti, pur non avendo mai ricevuto commissioni di rilievo dalla Compagnia. E’ noto che l’artista fosse un lettore degli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola e un frequentatore, presso la chiesa madre, delle devozioni della “buona morte”. Sono altresì noti i suoi rapporti con Giovanni Paolo Oliva, famoso predicatore e strenuo sostenitore dell’arte di propaganda, divenuto, dal 1661 al 1681, prima vicario e poi preposito generale della Compagnia; fu lui ad avere un ruolo decisivo nella decisione da parte di Bernini di accettare l’invito di Luigi XIV a recarsi a Parigi nel 1664. Altra sua buona conoscenza tra i grandi gesuiti fu il cardinale Sforza Pallavicino, insigne filosofo e teologo, storico del Concilio di Trento, che promosse la carriera ecclesiastica del figlio dell’artista Pietro Filippo. Di lui è conservato, presso l’Università di Yale, un disegno a sanguigna di Bernini. Entrambi questi personaggi furono coinvolti nella progettazione e nella costruzione di Sant’Andrea al Quirinale, dove poi trovarono sepoltura.

Due cose mi hanno sempre colpito entrando in questa chiesa, innanzitutto lo sfarzo, con quella profusione di marmi policromi e la sovrabbondante decorazione. E poi l’impressione di una struttura saldamente ancorata al terreno, possente pur nelle ridotte dimensioni. 

La pianta è ovale ma qui, a differenza del San Carlino, entrata e altare maggiore sono collocati ai capi dell’asse corto dell’ovale. Questo modello viene introdotto in epoca manieristica, mi riferisco innanzitutto a Sant’Anna dei Palafrenieri, sita in Vaticano, su progetto del Vignola e successivamente a San Giacomo in Augusta, su progetto di Francesco da Volterra, poi terminata dal Maderno. Qui l’obiettivo è di superare lo schema circolare rinascimentale, ispirato agli antichi, con una forma più dinamica. Lo stesso Bernini, anni prima, aveva adottato questa soluzione per la Cappella dei Re Magi a Propaganda Fide (poi demolita, ironia della sorte, da Borromini quando ebbe la commissione della facciata di Propaganda e della nuova cappella).

Lo schema ovale assicura un’espansione laterale dello spazio tuttavia ben definito dai pilastri posti ai capi dell’asse maggiore, intorno ai quali girano le cappelle laterali. L’asse minore è esaltato sia dal gesto trasgressivo dell’arco di facciata che invade la cupola, sia dal presbiterio, più profondo delle cappelle e con una fonte luminosa propria. Qui le quattro colonne scanalate di marmo rosato proveniente da Cottanello e il timpano curvo rotto dalla statua del santo fanno da sontuoso proscenio al presbiterio con la tela del martirio. Tutto lo spazio è vivo e drammatico, teso a inglobare e a superare lo schema circolare classico. Come scrive Brandi: “… l’avere preso come figura di base, quasi, modulare, il cerchio, ma sempre dirottato in ovale, assicura all’interno la solennità del Pantheon, senza la staticità immobile che lo caratterizza.” (La prima architettura barocca, pag. 150).


Dalle misurazioni effettuate dall’architetto Franco Borsi (F. Borsi, La Chiesa di S. Andrea al Quirinale, 1967) risulta che Bernini abbia adottato i rapporti modulari canonici come codificati da Sebastiano Serlio nel suo celebre e appunto canonico trattato. E se questo dimostra che l’architettura di Bernini parte sempre dalla tradizione classica, è anche vero che nelle opere più riuscite, come in questo Sant’Andrea, egli giunge a costruire una spazialità nuova, autenticamente barocca, cercando una fusione tra architettura, scultura e pittura (ne è un esempio anche la Cappella Cornaro che ospita L’estasi di Santa Teresa).

Osserviamo gli effetti luministici della parte bassa dell’invaso. Delle quattro cappelle per lato, le due centrali, col fronte ad arco, hanno una finestra dietro il timpano dell’altare che le soffonde di chiarore, mentre le altre quattro sono in penombra. La cappella dell’altare maggiore regala invece una luminosità più accentuata grazie a una fonte nascosta, che inonda di luce anche la grande tela del Borgognone col Martirio di Sant’Andrea, contornata da un tripudio decorativo. Con la policromia dei marmi, le dorature, le colonne di marmo rosato, il ricco pavimento, questo spazio espanso nell’ellissi offre un magnifico, sontuoso effetto pittorico. Il tutto è immerso nella luce che piove dalle grandi finestre della cupola e dall'arco d'ingresso, cangiante anche qui a seconda dell’ora o delle stagioni.

A differenza del San Carlino, qui la cupola si innesta direttamente sull’architrave della trabeazione. I lacunari (cassettoni) con rosoni ricordano il Pantheon mentre le spesse costolature rinviano a Brunelleschi e Michelangelo. Scrive Brandi: “La cupola ribassata, che appunto non ha grande elevazione, contribuisce a rafforzare il senso di una dilatazione radiale, anche se la decorazione non la rende pesante e oppressiva. (…) La cupola di S. Andrea al Quirinale non è la volta celeste in espansione, ma il contenimento in atto perché l’espansione non avvenga in altezza. L’uso dei rapporti modulari più canonici non ha altro senso che di assicurare chiarezza distributiva all’edificio, con un ritmo solenne, e un’opulenza grandiosa, ma non certo la classicità statica dell’architettura antica.” (C. Brandi, La prima architettura barocca, 1970, pag. 151-152).

Sul timpano della cappella dell’altare maggiore svetta la statua di S. Andrea, opera di Antonio Raggi, cosicché lo sguardo del visitatore può passare dalla tela del Borgognone, che rappresenta il martirio del santo, alla statua che ne illustra la trionfante ascesa al cielo, con un bell’effetto drammatico-narrativo. Sempre ad Antonio Raggi sono da attribuire gli stucchi che decorano la cupola, con un profluvio di angeli e di putti. (Questo scultore fu allievo e uno dei principali collaboratori di Bernini per due o tre decenni. Ticinese come Borromini, collaborò anche con quest’ultimo: sua è la statua di San Carlo Borromeo nella nicchia sopra il portale d’ingresso proprio del San Carlino, nonché il gruppo scultoreo del Battesimo di Gesù dell’altare maggiore di San Giovanni dei Fiorentini, al quale pose mano, tra gli altri, anche Borromini.)

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Per concludere, con qualche formula provvisoria. Schematizzando, si può intendere il barocco in due modi diversi, intrecciati tra loro. Il primo, alla luce della “rettorica” (intesa in senso classico), come “tecnica del persuadere”, e quindi anche come arte della propaganda, assunzione consapevole di un linguaggio volto a insegnare e a educare (vedi le ricerche di Argan, in particolare L’Europa delle capitali 1600-1700, 1964). Il secondo, in chiave più strettamente artistica, come ricerca, nel superamento della crisi manieristica, di una spazialità nuova e di un nuovo immaginario.

A questa ricerca, Borromini e Bernini dànno entrambi un contributo fondamentale, il più alto del secolo, con una distinzione che farò di seguito. Quanto alla prima accezione, essa calza perfettamente all’opera di Bernini, che fu senza dubbio, in campo artistico, il principale strumento della politica culturale del papato nei decenni centrali del Seicento, quando, superata la fase travagliata strettamente controriformistica, intendeva di nuovo affermare la ricchezza, la potenza e il prestigio della Chiesa Cattolica. Non si può dire altrettanto di Borromini, chiuso nella sua ricerca solitaria (e per altro sostanzialmente estraneo al giro affaristico che ruotava intorno alla corte papale, nel quale invece primeggiava Bernini con la sua bottega-impresa), se non facendo riferimento a un certo simbolismo delle forme, ivi compresi elementi decorativi connessi alle committenze. Da questo punto di vista, paradossalmente ma senza azzardare troppo, si potrebbe parlare di una dimensione antibarocca dell’architettura borrominiana.

Negli stessi anni in cui lavorava per il S. Andrea, Bernini progettò e costruì altre due chiese: quella di S. Tommaso da Villanova a Castel Gandolfo e la Collegiata dell’Assunta ad Ariccia. Mentre quest’ultima, per opinione unanime degli studiosi, è annoverata tra le opere riuscite dell’artista, sull’altra il giudizio è generalmente negativo. Scrive Brandi: “Sembra quasi impossibile, se non fosse a causa dei documenti e delle date (1658-1661), che, contemporaneamente a questa insuperabile chiesa di S. Andrea, il Bernini potesse produrre un progetto così disseccato come il S. Tommaso da Villanova… Ma nella realtà del Bernini architetto, a differenza dello scultore, stava questo richiamo classicista, che, ad un certo punto, lo immobilizzava: ...S. Tommaso potrebbe essere di un secolo prima.” (Ivi, pag. 152-153).

Il fatto è che Bernini fu innanzitutto uno scultore, un grande scultore. La sua formazione come architetto fu lenta e assai incerta per almeno un ventennio, come ha notato Brandi; anche per una carenza di approfondite competenze tecniche, come dimostrò l’episodio delle torri campanarie della facciata di San Pietro. Il che non impedisce di riconoscergli capolavori come appunto Sant’Andrea o il colonnato di San Pietro. Al contrario, Borromini era un architetto puro, con competenze da moderno ingegnere, maturate in un lungo tirocinio, prima in ambito ticinese e lombardo e poi, a partire dal 1619, a Roma accanto al Maderno, uno dei massimi architetti della sua generazione, del quale fu il principale collaboratore ed esclusivo disegnatore.Delle ampie competenze e del modo di lavorare di Borromini ci dà viva testimonianza Juan de san Bonaventura: "...perché detto sr. Francesco lui medesimo governa al murator la cuciara; driza al stuchador il cuciarino; al falegname la sega, et l'scarpello al scarpellino; al matonator la martinella et al ferraro la lima."

Bernini opera nel solco della tradizione classica, innestandovi spesso brillanti e talora straordinarie invenzioni spaziali (a prescindere dal decorativismo e dallo scenografismo, che sono altri elementi della sua pratica). Borromini al contrario opera una cesura netta, rivoluzionaria, su quella tradizione (pur continuando a utilizzare elementi del codice classico, talvolta contaminandoli con elementi estranei, gotici o islamici) e inventa una spazialità del tutto nuova, mai vista fino a quel momento. Di questo egli era perfettamente consapevole: "... e prego ricordarsi quando tal volta gli paja, che io m’allontani da i communi disegni, di quello, che diceva Michel Angelo Prencipe degl’Architetti, che chi segue altri non gli va mai innanzi, ed io al certo non mi sarei posto a quella professione, col fine d’esser solo copista, benché sappia, che nell’inventare cose nuove, non si può ricevere il frutto della fatica se non tardi. (In Opus Architectonicum).

Successivamente, tra la fine del Seicento e per tutto il Settecento, fu la lezione di Borromini a imporsi, prima nell’Italia del nord, in particolare in Piemonte, e poi in Europa; laddove il lascito di Bernini non ebbe sviluppi. Con l’avvento del neoclassicismo il barocco si eclissa, ma l’architettura di Borromini, proprio per il suo carattere rivoluzionario, scavalcando l’Ottocento, influenzerà una parte notevole dell’architettura contemporanea tra ventesimo e ventunesimo secolo.

 

La rivalità

La rivalità che oppose i due personaggi è ormai leggenda popolare, alimentata da libri e film. In realtà le scarse fonti disponibili, provenendo dalle opposte fazioni, lasciano dubbi sulla loro attendibilità e quindi non sono tali da consentire di ricostruirla nella sua verità storica. Essa fa capo innanzitutto all’opposta personalità dei due contendenti e alla loro storia personale.

Gian Lorenzo Bernini ritratto dal Baciccia

Gian Lorenzo Bernini, figlio d’arte (suo padre era il noto scultore Pietro), fu uomo brillante, socievole, ma anche irascibile e talvolta violento, capace di muoversi con disinvoltura, e direi con spregiudicatezza, negli ambienti aristocratici e alla corte papale. Ad eccezione di un breve periodo, sotto Innocenzo X, la sua carriera fu un continuo, crescente successo. Fu amico di papi, cardinali, re e regine. Ebbe undici figli.

Francesco Borromini

Per parte sua, Francesco Borromini, che aveva iniziato la sua carriera come un modesto scalpellino, fu un uomo malinconico, nervoso, introverso, anche lui di carattere duro e irascibile. Orgoglioso del proprio lavoro, alieno da ogni compromesso, fu spesso in contrasto con i committenti. Vestiva di nero, alla spagnola, era austero di costumi e non si sposò mai. Qualcuno ha azzardato che fosse omosessuale.  

Opposto, come abbiamo visto, il loro approccio all’arte. In Bernini il punto di partenza è sempre il naturalismo; Borromini riprende, in un certo modo, il neoplatonismo di Michelangelo. Diversa anche la loro religiosità. Più esibita e superficiale quella di Bernini; rigorista e tormentata quella di Borromini.

Quando, nel 1929, alla morte di Maderno, Urbano VIII designò, tra lo stupore generale, il giovane e inesperto Bernini a sovrintendere le due fabbriche più importanti di Roma, San Pietro e Palazzo Barberini, Borromini si trovò a dover lavorare alle sue dipendenze, non senza un qualche disappunto, avendo egli come architetto competenze di gran lunga più solide dell’altro. E’ attestata la sua collaborazione al Baldacchino di San Pietro, in particolare per la copertura. Anche in Palazzo Barberini gli si riconoscono diversi interventi, come la bella scala a spirale ovale dell’ala destra e le due deliziose finestrelle ai lati del piano alto della facciata principale. Borromini ebbe a lamentarsi del trattamento ricevuto dal rivale in quegli anni, e non solo per la parte economica. Uno dei suoi biografi, il Baldinucci, ci riporta la sua rimostranza (poi eliminata nella versione finale del manoscritto): “...non mi dispiace che abbia auto li denari ma mi dispiace che gode l’onor delle mie fatiche.” La rottura si consumò nel 1633. Dopo quella data, Borromini iniziò la sua carriera da architetto indipendente.

Anni dopo, quando scoppiò lo scandalo delle torri campanarie di San Pietro, che portò alla demolizione della prima torre, progettata e parzialmente costruita da Bernini, per le crepe riscontrate nella facciata, Borromini fu tra i critici più accaniti della sua imperizia. Curiosamente, fu proprio Bernini a chiedere a Urbano VIII di conferire a Borromini l’incarico di progettare la chiesa di Sant’Ivo nel palazzo della Sapienza, la cui prima pietra fu posata nel 1643. Ma in realtà la “raccomandazione” risaliva al 1632, cioè prima della rottura. In epoca più tarda, Bernini espresse giudizi severi sul rivale. Significativo quello riportato dallo Chantelou, che lo frequentò in occasione del soggiorno a Parigi: “I pittori e gli scultori nelle loro architetture hanno a norma delle proporzioni il corpo umano, mentre sembra che il Borromini formi le proprie sulle Chimere.”

Opposto anche, ineluttabilmente, fu il destino finale dei due uomini, che erano coetanei, nati a meno di un anno l’uno dall’altro.

Nel 1680 Bernini fu colpito da una paralisi al braccio destro e alla fine di novembre di quello stesso anno si spense nella sua casa di via della Mercede, all’età di 81 anni, lasciando alla famiglia, ai nove figli che gli sopravvissero, un notevole patrimonio, stimato in 400.000 scudi. E’ sepolto in Santa Maria Maggiore.

Borromini morì suicida nel 1667, quando aveva quasi 68 anni, nella sua modesta abitazione nei pressi di San Giovanni dei Fiorentini. Nell’estate di quell’anno si era ammalato, entrando in uno stato di forte ipocondria. Nella notte tra l’1 e il 2 agosto, dopo aver redatto un testamento, oppresso dalla febbre, dall’insonnia e dalla depressione, si ferì mortalmente con la spada. Morì il giorno dopo, giusto il tempo di pentirsi e di dettare un nuovo testamento. Il suo patrimonio fu stimato in 10.000 scudi. Per suo espresso desiderio, fu sepolto accanto al Maderno in San Giovanni dei Fiorentini. 

Nella sua casa, dopo la morte, insieme a un migliaio di libri (di cui purtroppo non abbiamo un elenco), al busto di Michelangelo, a un buon numero di dipinti e di collezioni varie, fu rinvenuto anche un busto di Seneca. Potrebbe, la presenza in effigie dello stoico romano in quella casa (dalla quale si potrebbe dedurre un Borromini lettore di Seneca, oltre che conoscitore di antichità romane) lasciarci immaginare uno sfondo culturale diverso, pur nel quadro di una professata spiritualità cristiana, entro cui interrogare quel suicidio? Mi piace pensarlo.

 

Libri citati:

C. Brandi, La prima architettura barocca, 1970

G. C. Argan, Borromini, 1955-1978

C. Brandi, Struttura e architettura, 1967-1971

H. Sedlmayr, Die Architektur Borrominis, 1930

F. Borsi, La Chiesa di S. Andrea al Quirinale, 1967

G. C. Argan, L’Europa delle capitali 1600-1700, 1964

P. Portoghesi, Storia di San Carlino alle Quattro Fontane, 2001 

F. Borromini, Opus Architectonicum, 1725

Notizie e dati biografici sono tratti da:

Jake Morrissey, Geni rivali. Bernini, Borromini e la creazione di Roma barocca, 2007