lunedì 20 maggio 2024

La magnifica ossessione. Il cinema di Salvatore Piscicelli. L'introduzione di Alberto Castellano


E’ uscito il 16 maggio 2024 un volume di saggi sul mio cinema:
La magnifica ossessione. Il cinema di Salvatore Piscicelli, a cura di Alberto Castellano, Martin Eden Editore 2024. Il libro segue una retrospettiva completa - da poco conclusa - con dibattiti e analisi dei miei film organizzata dall’Accademia di Belle Arti di Napoli per il terzo anno del corso di cinema e audiovisivo tenuto dal professor Luigi Barletta.
Riproduco qui di seguito l’introduzione del curatore nonché la lista dei saggi, e dei rispettivi autori, raccolti nel volume.

Introduzione
Cercando nella forma uno sguardo politico
sul cinema e sul mondo


Quando si parla di Salvatore Piscicelli non si può non pensare subito a Jean-Luc Godard per le suggestive analogie professionali, per le sofisticate assonanze dal punto di vista critico-teorico e della pratica cinematografica. Godard, si sa, prima di esordire come regista nel 1954 con alcuni cortometraggi, aveva svolto un’intensa attività di critico cinematografico a partire dai primi anni ‘50 quando cominciò a scrivere saggi e articoli sui Cahiers du cinéma, per poi continuare con vari articoli, interviste, note, recensioni anche per altri giornali francesi (quotidiani, settimanali, riviste specializzate) fino agli anni ‘80. In quel periodo si gettavano le basi teoriche di quella che sarebbe stata la più grande stagione del cinema francese, intorno alla rivista si incontrarono quelli che sarebbero stati i protagonisti della Nouvelle Vague, Godard appunto, Truffaut, Chabrol, Rivette, Rohmer; ispirati da André Bazin fondatore dei Cahiers e padre spirituale del movimento.

Anche Salvatore Piscicelli prima di esordire dietro la macchina da presa con Immacolata e Concetta nel 1980, ha scritto tanto di cinema dal 1970 su riviste, pubblicazioni della Mostra del Cinema di Pesaro, l’Avanti! e altri quotidiani e settimanali e ha continuato, in maniera sporadica, fino al 2016 come testimonia il volume che raccoglie i suoi scritti (1) . I due autori quindi condividono l’intreccio tra la teoria e la prassi, tra l’approccio critico al cinema e il fare cinema. Quello che scrive Adriano Aprà nella presentazione del fondamentale libro da lui curato che raccoglie gli scritti del cineasta francese («Godard-critico è un cineasta in fieri, così come Godard-cineasta è un critico in fieri, scrivere film sulle pagine dei Cahiers o filmare critiche su pellicola Eastman è il segno di un medesimo atteggiamento di fronte al cinema: le parole proliferano in immagini e suoni, le immagini e i suoni rimandano alle idee che li provocano e di cui non sono altro che il complemento») (2) , vale in parte anche per Piscicelli visto che tutti i suoi film in maniera più evidente o più mimetizzata rimandano in qualche modo alle sue analisi critiche, alle sue riflessioni teoriche.

Le analogie però si fermano qui. Intanto perché Godard e Piscicelli – pur condividendo un amore sconfinato per il cinema, una passione cinefila totale, la vocazione alla citazione-omaggio – si sono espressi con strategie comunicative e prospettive narrative diverse. L’autore di Pomigliano è molto lontano dalla riflessione metalinguistica godardiana, anche se ogni suo film contiene in filigrana una riflessione sul cinema del passato, un riferimento ai film degli autori che più amati (Fassbinder, Sirk, Mizoguchi, Ozu, Rossellini) e soprattutto perché l’autore francese si è mosso nel periodo ‘50-’60, in un contesto culturale e un sistema cinematografico che dal punto di vista intellettuale, istituzionale, di strutture (la famosa Cinémathèque française) facevano lievitare idee, scambi, interazioni fra i vari cineasti. Piscicelli invece si è mosso in un contesto e in un periodo (quello degli anni ‘80) ben diversi, ingaggiando una donchisciottesca battaglia solitaria senza farsi scoraggiare dalla difficoltà per un autore indipendente di fare cinema senza farsi stritolare dal meccanismo perverso dei finanziamenti ministeriali-privati-televisivi destinati in gran parte al cinema commerciale, ai film di genere “usa e getta”. E forse anche per questo la stampa, la critica, gli editori gli hanno negato lo spazio e l’attenzione che merita(va) anche quando dopo i primi
folgoranti film si era già conquistato uno spazio importante, che lo fece individuare come il maestro degli autori della sua generazione e di quella
successiva, come il padre spirituale e morale dei cosiddetti “vesuviani”, i registi napoletani delle varie (presunte) nouvelle vague.

Del resto lui si ritagliò prepotentemente uno spazio tra le infinite rappresentazioni possibili di Napoli e della napoletanità, rivendicò subito un modo diverso di raccontare la città, i suoi linguaggi, le sue degradazioni e le sue pulsioni violente. Fece irruzione con storie forti e spigolose che non cercavano il consenso e non scaturivano da una programmatica intenzione di scandalizzare o provocare il dibattito politico, ma dalla genuina tensione a trasgredire linguaggi e stereotipi con soluzioni formali audaci e messe in scena originali e sofisticate. S’impose subito come autore di talento e personalità, non per le implicazioni sociologiche o le ripercussioni retoriche. Oltre tutto non operava in un contesto storico-politico “vantaggioso” e l’uscita dei suoi film non era accompagnata dalle fanfare multimediali.

Era ora insomma che si rendesse il dovuto omaggio a Piscicelli con una retrospettiva articolata e completa e una monografia, che sono state rese possibili grazie all’iniziativa dell’Accademia di Belle Arti di Napoli, in particolare del corso di Cinema e audiovisivo del professor Luigi Barletta
che, sfidando residui di preconcetti e disinteresse, ha allestito la rassegna dei film di Piscicelli rivolta agli studenti della settima arte attraverso visioni, incontri e dibattiti con il regista stesso, suoi collaboratori e vari attori. Questo volume nato proprio a corredo dell’iniziativa si è presentato come un’occasione unica per un risarcimento totale dell’autore. Che pure nel corso degli anni ha avuto un’accoglienza spesso entusiastica da parte della critica, i suoi film hanno fatto registrare giudizi lusinghieri. Ma si trattava di approfondire, sviscerare, collegare, ricondurre i tasselli della sua produzione a una visione globale del cinema, a una ricomposizione complessiva del suo sguardo profondo, insolito, realistico senza fare realismo, a volte tenero a volte spigoloso, a volte poetico a volte duro. Paradossalmente ciò che ha reso tutto questo meno complicato è proprio una filmografia scarna, un’esiguità dei film girati, una dilatazione del tempo tra un film e l’altro che rendono Piscicelli il più autore degli autori, il suo rifiuto fisiologico-psicologico di fare un film dietro l’altro, la tendenza a trasformare la non prolificità in un modus operandi che gli ha consentito di ritagliarsi zone di riflessione, spazi significanti (a differenza di tanti autori o presunti tali che al contrario credono che è la quantità di film girati a generare una qualità che dà loro la patente autoriale).

E allora la squadra di saggisti e critici che costituisce l’ossatura del libro aveva l’obiettivo (credo raggiunto) di attraversare in lungo e in largo il cinema di Piscicelli, intercettando da angolazioni, culture, formazioni diverse le riflessioni connesse al cinema dell’autore. E i quindici saggi (dieci sui singoli film e cinque di carattere più generale) costituiscono altrettante tappe di un percorso artistico complesso, anche perché il fil rouge che lega i vari film non è d’immediata decifrazione, non ha l’evidenza espositiva che contraddistingue spesso altri autori. In linea con la politique des auteurs sull’asse Cahiers-Bazin, Piscicelli di volta in volta ha cambiato genere, contesto, tipologie, sempre all’insegna di un cinema “politico”, indipendente, di chi si è mosso all’interno di un sistema che non ha ripudiato con rigidità ideologica, ma riuscendo ad esprimere le sue idee, a raccontare le sue storie con budget quasi sempre risibili, con autoproduzioni che gli hanno consentito una libertà espressiva che i finanziamenti ministeriali o altri gli avrebbero negato.

Uno dei punti di forza del cinema piscicelliano sono le ambientazioni, le location che l’autore non ha mai trattato come sfondo ma quasi come
(co)protagoniste delle storie. E i vari saggi con impostazioni esegetiche diverse – da quelli sui singoli film a quelli che più in generale esaminano le sue scelte innovative, il rapporto delle figure femminili con la dimensione paesaggistica, la comparazione tra Immacolata e Maria Capasso, alla lunga intervista fatta da Luigi Barletta nella quale l’autore parla per la prima volta del suo cinema e non solo, a tutto campo, senza condizionamenti giornalistici – restituiscono un autore che passa con disinvoltura dall’entroterra agricolo di Immacolata e Concetta alla periferia off limits di Le occasioni di Rosa, dal caos metropolitano di Blues metropolitano alla periferia degradata di Baby Gang, dalla zona flegrea di Rose e pistole agli interni borghesi di Regina, Il corpo dell’anima, Alla fine della notte, Vita segreta di Maria Capasso, all’ambientazione volutamente indefinita di Quartetto.

Attraversare in lungo e in largo il cinema di Piscicelli, che è l’intento di questa monografia, significa incrociare i suoi personaggi così diversi ma che riconducono tutti a un senso deleuziano, significa intrecciarli nell’ottica di un intellettuale che ha inteso il cinema come naturale protesi espressiva, come fisiologico prolungamento del suo percorso e della sua formazione, come possibilità di dare forma alle sue sotterranee attrazioni – con citazioni raffinate spesso mimetizzate – per l’antropologia strutturalista e per molte declinazioni del post-strutturalismo, dai concetti di simulacro, simulazione, seduzione di Klossowski alla sessualità foucaultiana, dalla psicoanalisi freudiana-lacaniana al decostruzionismo di Derrida.

Alberto Castellano

1. Piscicelli S., L’imitazione della vita. Scritti di cinema 1970-2016,
a cura di Gino Frezza, Meltemi Editore, Milano, 2018.
2. Godard J. L., Il cinema è il cinema, a cura di Adriano Aprà,
Garzanti Editore, Milano, 1981. 

 

Lista dei testi

Introduzione
Cercando nella forma uno sguardo politico
sul cinema e sul mondo

di Alberto Castellano

Piscicelli tra melò e innovazione
di Sandro Dionisio

Abitare i luoghi del disagio
di Fabrizio Croce

Da Immacolata a Maria o della curva discendente
dell’autonomia dello spirito
di Paola Pagliuca


Le occasioni di Salvatore
di Valerio Caprara

Come vedo il cinema (e il mondo)
Intervista a Salvatore Piscicelli
di Luigi Barletta

La disgregazione del mondo rurale cancellata
dall’universo industriale

di Mario Franco

Donna Rosa e i suoi due mariti
di Fabio Zanello

Napoli cambia senza cambiare: il Vesuvio sta in
Tennessee perché Piscicelli è come Altman

di Francesco Della Calce

I corpi, il desiderio e la morte in scena
di Achille Pisanti

L’innocenza (perduta) della Nomenland
di Goffredo De Pascale

Le lacrime di Eros
di Gino Frezza

Un quartetto per due telecamere
di Adriano Aprà

Un road movie lungo i sentieri dell’anima
di Armando Andria

Per una vita migliore a qualunque costo
di Giancarlo Giacci

L’altra Napoli di Carla Apuzzo
(e Salvatore Piscicelli)

di Gina Annunziata


giovedì 4 aprile 2024

Dal "Ma" al "Mu". Le inquadrature “still-life” o “a vuoto” nel cinema di Yasujiro Ozu

                                                

                                                          “La forma è vuoto, il vuoto è forma.”
                                                                          Sutra del Cuore
 

Uno dei tratti caratteristici della scrittura cinematografica di Yasujiro Ozu (1903-1963) – uno dei grandi del cinema giapponese e del cinema mondiale in generale  – è costituito dall’uso assai frequente di inquadrature "still-life" o “a vuoto”, nel senso che escludono quasi sempre la presenza umana (e quando ci sono figure umane – bambini che vanno a scuola, persone che vanno al lavoro – fanno parte per così dire del paesaggio), di cui proporrò la definizione di “inquadrature ma”. Si tratta di scorci di interni, case uffici bar, o di esterni, con elementi tipici della città, strade ciminiere treni stazioni, ovvero di paesaggi naturali, di campagna o di mare. A volte, con grande suggestione, sono semplici oggetti, una lampada un vaso un cuscino; a volte costituiscono la “coda” di un’inquadratura. Sono presenti di solito all’inizio e/o alla fine di una scena, spesso anche all’interno della scena, e quasi sempre aprono e chiudono l’intero film. Capire la valenza di questo elemento dello stile di Ozu può essere la chiave per comprendere e penetrare più a fondo nel cinema, così suggestivo e singolare, di questo grande cineasta.

Inquadrature simili, in quanto piani di transizione o inserti, sono presenti in moltissimi film, sia orientali che occidentali, ma il caso di Ozu ha una doppia singolarità: da un lato la ricorrenza massiccia e sistematica di queste inquadrature, dall’altro l’ampia gamma di funzioni che assolvono all’interno di una scena e nell’intero film.  Questo ci obbliga a pensare a un uso strutturale di questo elemento in quella che potremmo definire con Donald Richie la “sintassi” del suo cinema (Richie, 1963). Inoltre, come vedremo più avanti, queste inquadrature, al di là della loro evidenza filmica, aprono a uno spazio e a un tempo “altro”, che ha a che fare con la sfera filosofica e culturale.

Singolare, in ogni caso, è la “sintassi” del cinema di Ozu, o se volete il suo stile o la sua scrittura. Quando gira il suo primo film, nel 1927, e per tutto il periodo muto, Ozu esplora vari generi ed è fortemente influenzato, anche sul piano tecnico, dal cinema occidentale, da quello americano in particolare. Successivamente, grosso modo a partire dalla metà degli anni Trenta, comincia a definire un suo stile personale di ripresa che affina e depura sempre di più e che trova il suo culmine probabilmente in Tarda primavera (Banshun, 1949), per dispiegarsi poi nella dozzina di film che realizza fino al 1962. Secondo il critico Noel Burch (Burch, 1979), il punto più alto del cinema di Ozu, e dunque del suo stile, va collocato tra il 1934 e il 1942, con film quali Storia di erbe fluttuanti (Ukikusa monogatari, 1934), Una locanda di Tokyo (Tōkyō no yado, 1935), Figlio unico (Hitori musuko, 1936, suo primo film sonoro), Fratelli e sorelle della famiglia Toda (Toda-ke no kyōdai, 1941), C’era un padre (Chichi Ariki, 1942). Secondo altri critici, il culmine va collocato più avanti, in alcuni film del dopoguerra quali ad esempio Tarda primavera (Banshun, 1949), Viaggio a Tokyo (Tokyo monogatari, 1953), Erbe fluttuanti (Ukigusa, 1959), Tardo autunno (Akibiyori, 1960), L'autunno della famiglia Kohayagawa (Kohayagawa-ke no aki, 1961). Ma al di là dei giudizi critici, che si possono condividere o meno, ciò che accomuna tutti questi film è appunto lo stile maturo del regista, sempre più depurato, sempre più, per così dire, ascetico.

Intanto Ozu riduce le tematiche dei suoi film sostanzialmente a una sola, la famiglia e i rapporti all’interno di essa, in particolare tra genitori e figli, spesso conflittuali, nel quadro delle trasformazioni che intervengono nella società giapponese dopo la sconfitta nella seconda guerra mondiale. Anche il plot narrativo si riduce al minimo, quasi un semplice pretesto in funzione di quello che lo interessa di più, rivelare il carattere dei personaggi (Richie, 1963). Da qui anche il ricorso, spesso spericolato, alle ellissi, che contribuiscono alla contrazione del plot. D’altra parte emerge con più forza l’influenza della cultura tradizionale giapponese, soprattutto negli aspetti formali, a partire dal Buddismo Zen (su questo ci soffermeremo più avanti). Ma è sul piano della tecnica cinematografica che lo stile maturo si manifesta con più evidenza. Le inquadrature sono statiche e frontali, i movimenti di macchina sono quasi del tutto aboliti, abolita è la punteggiatura con i vari tipi di dissolvenze, resta il semplice taglio; il punto di vista della macchina da presa è posto in basso, all’altezza dell’occhio di una persona seduta sul pavimento (ma spesso più in basso). Questo comporta una sorta di appiattimento dell’immagine, una riduzione della profondità verso la bidimensionalità, che l’avvicina alla pittura tradizionale. Quasi a contrasto, lo spazio del set è sfruttato a 360 gradi. Ozu si rifiuta di sottostare al divieto di scavalcare l’asse (che consente la corretta direzione degli sguardi tra gli attori), tipica del cinema occidentale, cosicché è come se gli attori si rivolgessero alla macchina da presa e lo spettatore si ritrovasse al centro dello spazio, con un effetto straniante. Ancora, le inquadrature usate sono quelle primarie: campo largo, campo medio, mezza figura, primo piano, mai primissimo piano. Il montaggio le unisce secondo un principio di circolarità, principio che governa anche il film nel suo insieme. Qui quello che conta è il ritmo, in termini musicali, il tempo.

Queste scelte hanno come conseguenza una decisa formalizzazione del testo filmico, che si può immaginare come uno spazio artificiale, costruito con perizia da artigiano (Richie, 1963), dentro cui si muovono però personaggi che rappresentano esseri umani con i loro sentimenti. Ma qui occorre precisare. La lingua giapponese, come molte altre, distingue tra animato (umano e/o animale) e inanimato e si dà il caso che i personaggi romanzeschi o comunque di finzione hanno la marca dell’inanimato (Barthes, 1970). Mentre tutta la nostra arte si sforza di conferire "vita" e "realtà" ai personaggi della finzione, l’arte giapponese, sottolinea Barthes, gli sottrae per statuto l'alibi referenziale per eccellenza: quello della cosa viva. Questo spiegherebbe, nel nostro caso, il carattere di superficie dei personaggi di Ozu, anche una loro certa ieraticità. Come dice Tadao Sato, i personaggi di Ozu si comportano sempre come se stessero in pubblico e quindi osservati, e la ripresa dal basso e frontale conferisce ad essi, come a tutto il profilmico, “una qualità cerimoniale” (cit. in Burch, 1979). E tuttavia, come sappiamo, nei film di Ozu c’è una forte carica di emozioni e di sentimenti, questi personaggi ci commuovono. Come può accadere? Il fatto è che l’autentica espressione di sentimenti ed emozioni avviene per via indiretta, nel non detto, nell’allusione, quando si apre uno spazio e un tempo in cui si verifica una sorta di diluizione e di sospensione del senso. Ed è qui che le inquadrature “a vuoto” svolgono la loro funzione fondamentale, come vedremo. Del resto, più in generale, è proprio l’opposizione tra pienezza del senso e sospensione del senso a marcare la dicotomia di base tra cultura occidentale e cultura giapponese. Nei film di Ozu non manca certo l’esposizione del senso. Conflitti e svolte narrative sono rese esplicite quasi sempre nei dialoghi, così accurati (e si sa quanta importanza attribuiva Ozu alle sceneggiature, elaborate a lungo e in reclusione col fedele Kogo Noda, che restavano sostanzialmente immutate durante le riprese, diversamente da Mizoguchi, che le faceva riscrivere per intero sul set, con disappunto degli attori), mentre l’espressione delle emozioni ha luogo nella sfera dell’implicito.

Le inquadrature “a vuoto” sono state definite in vario modo dai critici: inquadrature di raccordo, inquadrature “still-life”, inquadrature tendina (“curtain shots”, Naubu Keinosuke), inquadrature cuscino (“pillow shots”). Quest’ultima è di Noel Burch (Burch, 1979), elaborata in analogia a “pillow words” (makura kotoba), un dispositivo tipico della poesia waka classica, parole o frasi associate ad altre parole o frasi a creare legami per associazione di significati e di suoni. L’analogia è suggestiva ma non del tutto adeguata. Io mi permetto di proporre la definizione di “inquadrature ma”, o “piani ma” (“ma shots”). Non per il gusto di introdurre un’ulteriore, quanto inutile, variante, ma piuttosto perché la nozione di ma è la più indicata a spiegare la funzione di questo tipo di inquadrature, restando strettamente all’interno della cultura giapponese.                                                     

Ideograma MA

Ma si può tradurre alla lettera come intervallo, spazio, pausa. Fa riferimento alla nozione di “spazio negativo” applicabile alle arti tradizionali giapponesi, dove lo spazio vuoto ha la stessa rilevanza delle altre parti. In architettura è lo spazio vuoto tra due elementi strutturali. Nelle arti marziali indica la distanza di sicurezza tra i due contendenti, nell’ikebana lo spazio intorno ai fiori, che ha la stessa importanza dei fiori stessi. Nella pittura è lo spazio bianco sul foglio a dare rilevanza agli oggetti ritratti. E così via. Una definizione più generale del ma è la seguente: il senso giapponese del luogo, di solito considerato come avente una componente sia temporale che spaziale. Il ma infatti informa tutta la vita dei giapponesi, dal rapporto con gli spazi, ad esempio la casa, al rapporto tra le persone, ed è presente in molte frasi idiomatiche, sia indicanti luoghi (ad esempio Cha no ma, la stanza del tè, o Madori, la disposizione delle stanze nella casa) che eventi temporali (ad esempio Maniau, fare in tempo o venire incontro al tempo, Mamonaku, non c’è tempo, presto, subito).

Da questo succinto excursus (che chiunque può approfondire con una semplice ricerca sul web) si comprende come la nozione di ma sia la più adeguata a descrivere le inquadrature “a vuoto”, e l’uso che ne fa Ozu, in quanto mette in luce la loro doppia valenza, spaziale e temporale, e àncora il suo cinema all’interno delle arti tradizionali giapponesi.

Le “inquadrature ma” (IM) svolgono, come si diceva, molte funzioni, anche in rapporto alla diegesi. Possono indicare lo spazio geografico entro cui avrà luogo la narrazione; possono anticipare l’ambiente in cui si svolgerà una scena; possono avere una valenza metaforica o simbolica. Si prestano quindi a letture multiple. Ma in ogni caso la funzione più generale, la più importante, è quella di sospendere il flusso diegetico. La momentanea messa in parentesi della diegesi con l’esclusione della presenza umana implica una visione del mondo non antropocentrica, che è l’opposto della visione occidentale. E’ come se Ozu volesse ricordarci che ogni vicenda umana non può essere compresa se la separiamo dal contesto della natura, del mondo delle cose: da esso prende le mosse e ad esso ritorna, in un processo di costante mutamento, che è la legge universale dell’impermanenza. Così spesso l’inizio di un film ci presenta una più o meno graduale transizione dal mondo inanimato alla sfera vivente della diegesi.

Prendiamo l’inizio di Erbe fluttuanti. Sono quattro IM per un totale di poco più di un minuto e mezzo:
- il faro con l’imbocco del porto e una bottiglia in primo piano
- il faro inquadrato tra barche tirate in secca
- ancora il faro tra baracche di pescatori e una barca che esce dal porto
- l’imbocco del porto con il faro sullo sfondo e a destra lo scorcio di una costruzione con una cassetta della posta                                                                                                             



Segue un interno dove un gruppo di persone discutono dell’imminente arrivo di una compagnia di teatro. Inizia la diegesi. Dopo questa scena torna una IM simile alla prima, ancora con l’imbocco del porto, il faro e in primo piano un palo (sempre elementi verticali). Di seguito siamo sulla barca che conduce la compagnia alla cittadina costiera.

Le quattro IM dell’inizio possono essere lette a vari livelli. Intanto segnalano la collocazione geografica della storia, una cittadina di mare: una funzione legata alla diegesi. Inoltre, il porto col faro è luogo di partenze e di arrivi, con connotazioni nostalgiche. Tutto il film è all’insegna della nostalgia (è un remake di un altro film di Ozu del 1934). L’intera sequenza è fortemente stilizzata, con l’insistenza sul faro e sugli elementi verticali, e preannuncia la stilizzazione geometrica che governa la struttura narrativa del film (Tomasi, 2009). Le IM possono essere lette anche in chiave pittorica, il cinema di Ozu è pieno di inquadrature magnificamente composte, che si possono godere in quanto tali. Infine, questa lunga sospensione (un minuto e mezzo è un tempo lungo al cinema) a inizio film, col suo carattere contemplativo, è come una lunga presa di respiro volta a svuotare la mente prima di inoltrarci nel film.

Esaminiamo brevemente un paio di finali di film.

L'autunno della famiglia Kohayagawa termina con il funerale del capofamiglia Manbei. Tutta la sequenza è strutturata intorno all’immagine della ciminiera che fuma dell’impianto di cremazione, inquadrata in campo lungo e in campo più stretto. L’immagine ricorre per ben sei volte. Sono inquadrature legate alla diegesi in quanto soggettive dei membri della famiglia. All’interno della sequenza c’è un breve intermezzo, con due figure estranee alla trama (l’uomo è Chishu Ryu, un cameo) che sciacquano uno straccio sulla sponda del fiume e osservano la ciminiera: “Sarebbe triste se fosse un giovane”, dice la donna, “Ma nuove vite sostituiranno quelli che muoiono”, ribatte l’uomo, “Come è saggia la natura”, conclude la donna. E’ un commento che traduce il facile simbolismo della ciminiera nei termini di una saggezza ovvia nella sua semplicità. Infine, dopo un’altra inquadratura della famiglia che sfila sul ponte verso il cimitero, Ozu introduce uno scarto conclusivo. Tre IM per un totale di poco più di venti secondi:
- quattro corvi sulla sponda del fiume
- un campo più largo con cinque corvi sempre sulla sponda del fiume
- due corvi appollaiati su delle stele scolpite che gracchiano                                                      

                                                           
                                                           
                                                            

In prima lettura, l’apparire di questi corvi con il loro aspro gracchiare risulta alquanto disturbante e rompe il quieto svolgimento della sequenza precedente. In secondo luogo, il nero corvo, come la ciminiera, può essere associato anch’esso alla morte (nella cultura occidentale è così) ma nella mitologia giapponese è un messaggero divino e nel folklore esso è considerato simbolo, tra l’altro, di buona fortuna e di reincarnazione. In questo modo il mortifero simbolismo della ciminiera viene superato in una prospettiva più ampia e direi più vitale. Cosicché le tre IM si possono considerare come una sorta di correlativo oggettivo dei commenti di semplice saggezza della coppia sul fiume.

Figlio unico è forse il più cupo e desolato dei film di Ozu e uno dei suoi primi capolavori. E’ la storia di una vedova che compie duri sacrifici per mantenere agli studi il figlio, ma quando, dopo tredici anni di lontananza, va a trovarlo a Tokyo, scopre che è sposato con un bambino e vive praticamente in miseria in una desolata periferia. Cocente è la delusione per i sacrifici inutili, appena mitigata dal constatare il carattere generoso del figlio. Tornata in campagna e al duro lavoro, la donna mente all’amica dicendo che ha passato giorni indimenticabili a Tokyo. Segue il finale. La donna si aggira con un secchio nello squallido cortile dell’opificio dove lavora e dorme. Depone il secchio, va a sedersi. Sono cinque inquadrature, ora larghe ora strette, che si concludono con una mezza figura di lei che infine china la testa, triste e stanca. Seguono tre IM conclusive per un totale di circa venticinque secondi:
- uno scorcio del cortile con sul fondo la palizzata che va a chiuderlo
- piano ravvicinato in asse della precedente, stretta sul cancello chiuso
- una palizzata più massiccia, vista dall’esterno, d’infilata, che occupa quasi l’intero fotogramma

                                                          
                                                           
                                                            

Sono immagini non “belle”, occlusive, oppressive, immagini di chiusura. Quelle palizzate delimitano lo spazio dell’opificio dove la donna lavora e dorme e lo definiscono come una prigione. Sono la proiezione mentale della condizione di chiusura in cui è presa la donna. Un’intera vita prigioniera, spesa inutilmente. L’oppressione è totale. Ma su un altro piano di lettura, quelle palizzate ci appaiono come i muri che cerchiamo vanamente di abbattere per uscire dai limiti delle nostre vite; ma sono anche il muro contro il quale dovremmo sederci a meditare per realizzare quel vuoto che ci apre all’accettazione totale della vita com’è. Nel Soto Zen la meditazione si pratica contro il muro; del resto in Cina il primo Patriarca, Bodhidharma, capostipite dello Zen, meditò contro il muro per nove anni.

Esaminiamo ora il funzionamento di una IM all’interno di una scena, con un esempio tratto da Tarda primavera, storia di un padre vedovo che per spingere la figlia a sposarsi fa finta di volersi risposare a sua volta. Siamo verso la fine del film. Somiya e Noriko, padre e figlia, fanno un ultimo viaggio insieme a Kyoto, prima del matrimonio di lei, ormai deciso. Ma noi sappiamo che Noriko ha molti dubbi, il suo più profondo desiderio sarebbe di rimanere accanto al padre. Nel ryokan dove alloggiano, i due si accingono a dormire. Noriko si rammarica di aver definito immorale il matrimonio dell’amico del padre Onodera con una donna più giovane e dice di aver pensato la stessa cosa a proposito del presunto matrimonio del padre. Ma Somiya non sembra ascoltare quest’ultima battuta. L’improvviso addormentarsi del padre forse le impedisce di esprimere verbalmente i dubbi sul proprio matrimonio (lo farà la mattina prima della partenza e il conflitto, e l’inevitabile adeguarsi di Noriko, verrà fuori in modo esplicito), ma la carica emotiva che vi è sottesa emerge in una breve successione di inquadrature:
- primo piano di Noriko, testa sul cuscino, che si volta a guardare il padre
- primo piano del padre che dorme
- primo piano di Noriko che distoglie lo sguardo dal padre, ancora con un sorriso sulle labbra
- IM, un angolo della stanza nel semibuio con sullo sfondo ombre di rami dietro gli shoji illuminati e al centro esatto del fotogramma, un vaso
- primo piano di Noriko, il sorriso è scomparso, muove la testa, è pensierosa, inquieta, c’è quasi un preludio di lacrime
- IM, la stessa di prima ripetuta per una decina di secondi, poi stacco su un’altra scena                                                       
                                                              
                                                         
                                                          

Queste due IM sono tra le più iconiche del cinema di Ozu, discusse da molti critici. Escludiamo subito che si tratti di soggettive di Noriko, nulla ce lo fa pensare. Dal punto di vista della grammatica cinematografica occidentale, risultano quindi del tutto incongrue. In quanto a una possibile interpretazione, non mi pare accettabile quella “spiritualista” di Paul Schrader, che scrive: “Il vaso è stasi, una forma che può accogliere emozioni profonde e contraddittorie e trasformarle in espressione di qualcosa di unificato, permanente, trascendente.” (Schrader, 1972) In Ozu tutto è ordinario, quotidiano, non c’è trascendenza, nel senso occidentale del termine. Io credo che in prima istanza le due IM, in particolare la prima, vanno intese nella loro valenza temporale, sia dal punto di vista narrativo (il tempo che consente a Noriko il mutare delle emozioni), sia più in generale come tempo astratto. Scrive Deleuze: “Il vaso di Tarda primavera si inserisce fra il sorriso a fior di labbra della figlia e le sue lacrime nascenti. Vi è divenire, cambiamento, passaggio. Ma la forma di ciò che cambia, non cambia, non passa. È il tempo, il tempo in persona, «un frammento di tempo allo stato puro»: un’immagine-tempo diretta, che dà a ciò che cambia la forma immutabile nella quale si produce il cambiamento.” (Deleuze, 1985) E qui ci accostiamo al punto.

Si è detto che le IM sospendono il flusso della diegesi, in una prospettiva non antropocentrica. L’effetto che Ozu vuole ottenere è simile a quello che induce nell’allievo il Maestro Zen quando gli assegna un koan, che è una specie di indovinello non comprensibile in termini razionali (è una pratica tipica della scuola Rinzai Zen). Masticandolo, per così dire, in lunghe sedute meditative, l’allievo perviene a una sorta di smarrimento, nella sua mente si crea un vuoto, cosicché a un certo momento, attraverso un lampo intuitivo, può cogliere infine la realtà così com’è, al di là delle pastoie intellettuali, di tutte le convenzioni. Satori, la nomina il Buddismo Zen, questa illuminazione improvvisa dove il dualismo di soggetto e oggetto si annulla nell’intuizione unitaria della realtà. Essenziale dunque è la nozione di vuoto, Mu (dal cinese Wu) nel Buddismo Zen. Mu significa letteralmente: no, senza, nulla. E’ il vuoto da cui nasce tutto, il vuoto primigenio produttivo. E’ la condizione mentale che apre all’intuizione della realtà, all’accettazione.                                                          

Ideogramma MU

Torniamo al vaso di Tarda primavera. Ozu vuole indurre nello spettatore un momento contemplativo, con i limitati mezzi del cinema, una pausa, una sospensione che gli consenta di aderire al sottotesto delle emozioni, delle vibrazioni dei sentimenti, e lo fa creando appunto dei vuoti nella diegesi, dei momenti Ma che ci fanno accedere al Mu. Questa valenza contemplativa soggiace a tutte le IM di tutti i film, quale che sia la loro funzione accessoria. Ed è tanto più vero nel caso di Tarda primavera, che è il suo film più pregno di riferimenti al Buddismo Zen e alle arti giapponesi ad esso legate, dalla cerimonia del tè al teatro Noh.

Che l’interpretazione in termini di Mu delle due IM di Tarda primavera sia la più vicina alle intenzioni di Ozu lo dimostrano due fatti. Il primo è che non a caso il vaso – dove quello che conta non è l’argilla di cui è fatto ma il recipiente, il vuoto che si crea all’interno – è una delle metafore più ricorrenti nella letteratura buddista per spiegare la nozione di vuoto. Il secondo è che la IM del vaso, dopo il cut, è seguito da due inquadrature, una più larga e una più stretta, di un giardino Zen. I cosiddetti giardini Zen (che i giapponesi chiamano karesansui, “natura secca”) sono presenti in molti templi di questa scuola e si ispirano anch’essi alla nozione di vuoto, di Mu.

Io sono convinto che Ozu operi su questa materia in piena consapevolezza. Ignoro se fosse un adepto, ma la sua conoscenza del Buddismo Zen è nota. Egli sa anche che trasporre elementi alti di questa grande scuola di filosofia nelle forme del cinema comporta grandi limiti, che sono quelli propri del mezzo, i cui prodotti si fruiscono in condizioni sostanzialmente effimere. Non per caso egli vi inserisce qua e là qualche nota ironica. Vedi proprio l’inizio di Tarda primavera, dove Noriko e la zia, in attesa dell’inizio della cerimonia del tè, in quella che dovrebbe essere un’atmosfera di raccoglimento, discutono prosaicamente dell’adattamento a un bambino di un pantalone e della necessità di metterci le pezze al culo. La dimensione ironica, giocosa, comica è molto presente nei film di Ozu del periodo muto, ma non manca spesso anche nelle opere della fase più matura e austera del suo cinema.

Quanto al Mu, è superfluo ricordare che sulla stele tombale  di Ozu, a Kamakura, nel recinto dell’Engaku-ji, un tempio Zen, non è inciso il suo nome bensì appunto l’ideogramma del Mu.

Libri e saggi citati
- Donald Richie, Yasujiro Ozu: The Syntax of His Films, Film Quarterly, 1963
- Noel Burch, To the Distant Observer, University of California Press, 1979
- Roland Barthes, L’Empire des signes, Éditions du Seuil, 1970
- Dario Tomasi, Ozu Yasujiro, Il castoro cinema, La nuova Italia, 2009
- Paul Schrader, Trascendental Style in Film, University of California Press, 2018 (prima ed. 1972)
- Gilles Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, Einaudi, 2017 (ed. originale 1985)


mercoledì 7 febbraio 2024

"S/Z" di Roland Barthes (1970)

Questa breve recensione risale al 1970 e fu scritta poco dopo l’uscita in Francia del libro (l’edizione italiana vedrà la luce solo nel 1973, presso Einaudi). Essa fa parte di un piccolo gruppo di testi da me redatti tra il 1969 e il 1970, quando ero ancora all’università. Non avendo come oggetto il cinema, sono stati esclusi dalla raccolta di scritti pubblicata dall’editore Meltemi nel 2018 (Salvatore Piscicelli, L’imitazione della vita. Scritti di cinema 1970-2016). La pubblico qui per due motivi. Il primo: rendere un omaggio indiretto a Roland Barthes, uno dei più importanti studiosi della seconda metà del Novecento, la cui lezione, oggi purtroppo un po’ dimenticata, considero ancora valida. Negli ultimi mesi ho ripreso in mano alcuni suoi libri e mi si è rinnovato il piacere per l’acutezza delle sue analisi e per la scrittura, tersa e brillante, che conferisce ai suoi saggi, al di là del valore scientifico, una straordinaria qualità letteraria. Il secondo motivo è strettamente personale: perché testimonia la mia attenzione, fin da quei lontani anni, a un certo tipo di impostazione teorica che attraversa tutto il mio lavoro come un fil rouge. Per verificare questa continuità basterà leggere, su questo blog, il mio ultimo scritto di critica, dedicato a Viaggio in Italia di Rossellini.



Roland Barthes, S / Z, Parigi 1970, Editions du Seuil

Colpisce, innanzitutto, in quest’ultimo libro di Barthes, una paradossale sproporzione: duecento e più pagine di analisi su un testo che ne conta appena trenta (la novella di Balzac Sarrasine): sproporzione significativa, che definisce la durata di un'impresa che è analitica e teorica insieme, e che si inscrive nel più ampio spazio dei tentativi volti all’edificazione (collettiva) di quella che lo stesso Barthes chiama "una teoria liberatrice del Significante".

Per due caratteristiche l’approccio di Barthes al testo balzachiano differisce da quello solito degli analisti del racconto: da un lato, il rifiuto di sottomettere il testo, nella sua specificità, nella sua differenza, a una struttura narrativa generale e astratta (la Copia di tutti i racconti del mondo); dall’altro, il rifiuto di arrestare il gioco della catena significante del testo per chiuderlo in una struttura ultima, per fondare una verità.

Soffermiamoci sul primo punto. La decisione di sottomettere il testo al "paradigma infinito della differenza" pone il problema del suo valore. La valutazione fondatrice che allora si impone, valutazione legata necessariamente alla pratica della scrittura, distinguerà tra un testo scrittibile (scriptible) e un testo leggibile (lisible). In che senso lo scrittibile (ciò che oggi può essere scritto, ri-scritto) è un valore? Risponde Barthes: "Perché la posta in gioco del lavoro letterario (della letteratura come lavoro), è di fare del lettore, non più un consumatore, ma un produttore del testo".

Il testo scrittibile è il testo integralmente moderno; il testo classico è il testo leggibile. Semplici prodotti, e non produzioni, i testi leggibili formano la gran massa della letteratura. Come distinguerli? Una seconda operazione si impone: l’interpretazione. "Interpretare un testo, non vuol dire dargli un senso (più o meno fondato, più o meno libero), ma al contrario apprezzare di quale plurale esso è fatto".

La nozione di plurale definisce un testo che non soggiace al modello rappresentativo: testo reversibile, dalle reti significanti multiple e aperte, "galassia di significanti, non struttura di significati". Per un tale testo, ideale, non valgono la grammatica o la logica del racconto. Ma, ordinariamente, ci si trova di fronte a testi moderatamente plurali.

E' in quest'area che si situa la novella balzachiana oggetto dell'analisi. Barthes spezza l'intero testo in 561 frammenti o lessie (unità di lettura), analizzate in un puntuale commentario: il testo parla e viene parlato nel gioco multiplo dei codici che ha messo in moto (al lettore il piacere di apprezzare le straordinarie capacità analitiche dell'Autore). Il risultato non è la fissazione di un senso ultimo (è la seconda caratteristica dell'approccio barthesiano di cui si parlava più sopra), ma il dispiegamento di una fitta rete di notazioni, collegate tra loro da una serie di riflessioni teoriche. E’ su questo piano del discorso che Barthes riesce a disegnare, al di là dell’analisi specifica, i contorni del testo antico o classico e, di riflesso, di quello moderno (da questo punto di vista il testo barthesiano assume spesso la forma della preterizione: forse perché il testo moderno può solo sopportare l'allusione?). In questo doppio movimento, con questo spessore, S / Z s'inserisce magistralmente in quel settore della critica francese che ha per protagoniste riviste come Tel Quel, e che persegue con accanimento la trasformazione radicale del sapere critico sui testi.

Soffermiamoci sui modi di questo inserimento, su questo rapporto testo-contesto. La distanza tra il testo e il linguaggio che lo parla è una distanza ambigua: misurarla vuol dire dare uno statuto alla critica e al suo oggetto; vuol dire, eventualmente, cancellarla. In Italia circola un luogo comune intorno alla posizione barthesiana quanto a questo problema: si fa sostenere, cioè, a Barthes l'identificazione completa tra critica e testo. Appare invece chiaro, e questo libro ne è la conferma, che l'ambiguità del rapporto tra metalinguaggio critico e linguaggio-oggetto (il testo), è, per Barthes, altra cosa che la loro identificazione. Il problema è innanzitutto storico. Il dibattito sulla nozione di scrittura, e sulle sue implicazioni storiche e teoriche, ha permesso di stabilire che nell'epoca borghese-occidentale (la nostra), segnata dalla preminenza del segno che veicola un senso precostituito, fissato, chiuso (non insisteremo su questo teleologismo linguistico: rimandiamo il lettore interessato agli scritti di Jacques Derrida) l'esplorazione dell’infinità del linguaggio (il dispiegamento, o la messa in scena, dello spazio scritturale) è un'esperienza del limite. La concretizzazione di quest'esperienza (il testo scrittibile), difficilmente, come dice Barthes, la si troverà in libreria. Ma solo questa concretizzazione, questo testo (il cui modello è produttivo e non rappresentativo) sopporta l'identificazione con la critica che lo parla. Si parlerà, allora, di opera-limite: la critica che le parla si dirigerà anch’essa, necessariamente, verso questo limite.

Contro lo scientismo di chi sostiene la scissione statutaria tra il linguaggio della critica e il linguaggio del testo, operando una rimozione della radicale problematicità del loro rapporto (da questo scientismo patologico gran parte della critica italiana che si richiama allo strutturalismo non riesce a guarire); contro l'idealismo facilone di chi crede di saltare i termini dell'esperienza del linguaggio imposti da un'epoca storica; Barthes ha chiara la traiettoria dell’accostamento critico al testo: la critica pone la distanza tra sé e il testo, e ponendola la cancella. Il suo statuto sta in questo movimento doppio e incessante.

giovedì 9 novembre 2023

Rossellini filosofo e santo

A complemento del post precedente, dedicato a una rilettura di Viaggio in Italia, mi è sembrato utile riproporre qui questo testo del 2002, di non facile reperibilità, dove espongo il mio punto di vista sull'opera complessiva di Rossellini, sulla sua personalità, sulla sua visione.                                                    

Sul set di "Blaise Pascal" - Roma 1971

Rossellini filosofo e santo

Mi rendo conto che può suonare piuttosto provocatorio accostare queste due parole - filosofo e santo - a un uomo come Roberto Rossellini, un borghese dalla turbolenta vita sentimentale, amante delle macchine sportive (ha posseduto anche una Ferrari rossa) e piuttosto disinvolto, almeno all'apparenza, in fatto di politica e morale. Ma spero di poter dimostrare che, parlando del suo cinema, le metafore della filosofia e della spiritualità siano le più adeguate a capirne il senso profondo. Ovviamente occorre intendersi sulle parole. Uso il termine filosofo nell'accezione classica: un cercatore di verità, qualcuno che mira al senso ultimo delle cose e che investe il proprio lavoro con una costante interrogazione, nella quale il dubbio, e le conseguenti deviazioni, sono un elemento fondamentale. La parola santo allude invece alla ricerca di una coerenza e di un'assolutezza in un lavoro effimero, per sua natura, come il cinema.

Il filosofo

Rossellini ha una visione metafisica del cinema, una visione di stampo nettamente idealistico. Per comprendere questa affermazione, che non ha nulla di spregiativo, occorre considerare innanzitutto il suo metodo di lavoro.
Nel cinema di Rossellini si parte sempre da un'idea, dietro ogni film c'è un'idea generatrice: può essere uno spunto narrativo, più spesso una semplice immagine, un sentimento, o un'idea in senso proprio; in ogni caso, si tratta di un nucleo ispiratore che preesiste come imago puramente mentale. Un esempio classico: quando Rossellini va a Berlino per realizzare Germania anno zero ha in mente nient'altro che un'immagine, o meglio una breve sequenza di immagini: la passeggiata del bambino tra le rovine della città; tutto il film si svilupperà, nella sua lunga gestazione, a partire da questa.    

                           
Germania anno zero (1948)

La fedeltà a tale nucleo ispirativo è fondamentale nello sviluppo del film, che si traduce sì nella messa a punto di una sceneggiatura (anche se Rossellini non l'ha mai considerata come una struttura rigida e compiuta, un copione da eseguire), ma soprattutto si misura con tre ordini di problemi.
Innanzitutto, l'adesione al contesto in cui si gira il film. Rossellini ha sempre attribuito un'enorme importanza ai luoghi (le cosiddette location): Berlino, la costiera amalfitana, l'isola di Stromboli, il delta del Po in Paisà, la Roma di Roma città aperta, la Napoli di Viaggio in Italia; sono luoghi estremamente significativi, elementi vivi del film, non mera tela di fondo, scenari inerti dentro cui far muovere i personaggi.
In secondo luogo, il lavoro sull'attore. Rossellini non amava gli attori, lo ha confessato in diverse interviste, e non li amava perché pensava che il loro mestiere, la loro arte finiva comunque per sovrapporre una tecnica a qualcosa di preconcettuale, a un lavoro che per lui doveva svolgersi fondamentalmente sul terreno dell'intuizione. Per questo motivo ha utilizzato spesso interpreti non professionisti. Ma in ogni caso, professionisti o non professionisti, si trattava per lui di scavare nella persona dell'interprete, di mettere in rapporto la sua verità umana con quella del personaggio.
Infine, la centralità del set, ovvero del luogo e del momento delle riprese. Al di là di ciò che prescrive la sceneggiatura, per Rossellini il regista deve possedere in massimo grado una capacità di osservazione e di ascolto di quella complessa realtà che è il set - complessa interazione tra l'attore, la storia, il personaggio e l'ambiente -, in maniera tale da cogliere ciò che vi germina spontaneamente.
Se il lavoro svolto su questi tre piani è efficace, come per magia, improvvisamente, la realtà sboccia nel giardino artificiale del cinema. C'è una sorta di epifania del reale, qualcosa di abbastanza ineffabile (di metafisico, appunto), per la quale Godard una volta, parlando di India, ha trovato una definizione magnifica, lo splendore del vero:

India è il contrario di tutto il cinema abituale: l’immagine non è altro che il complemento dell’idea che la provoca. India è un film di una logica assoluta, più socratico di Socrate. Ogni immagine è bella non perché sia bella in sé… ma perché è lo splendore del vero, e perché Rossellini parte dalla verità. (1)
                                                  

India (1959)

In realtà, quello che interessa Rossellini è che questo splendore del vero si manifesti almeno in un momento del film. Confessò in un'intervista del 1952 di non amare le scene di raccordo; per lui, tutte le tensioni di un film, tutte le sue linee devono confluire in un punto nodale; è lì che accade quel manifestarsi primigenio e assoluto della realtà.

Ogni film che realizzo mi interessa per una data scena, per il finale che, magari, ho già in mente. In ogni film vedo l’episodio cronachistico - come potrebbe essere la prima parte di Germania anno zero, o l’inquadratura di Europa 51 che mi ha visto girare - e il fatto. Tutta la mia preoccupazione non è che di arrivare a tale fatto. Gli altri, gli episodi cronachistici, mi rendono come balbettante, come distratto, estraneo. Sarà una mia incompletezza, non dico di no, ma devo confessare che un episodio che non è di capitale importanza mi infastidisce, mi stanca, mi rende addirittura, se si vuole, impotente; io non mi sento sicuro che nell’episodio decisivo. (2)

Quando si parla di epifania del reale, di splendore del vero, per continuare a usare la metafora godardiana, bisogna fare una grande attenzione: Rossellini non ambisce al realismo, non gli interessa riprodurre la realtà così com'è, magari nella sua dimensione storico-sociale. E’ chiaro che in lui l’attenzione per i contenuti del film è molto forte, ma altrettanto forte è la consapevolezza che l’unica realtà vera che si dà davanti alla macchina da presa è quella del set. Al di là della storia e dei personaggi, al di là di ogni verosimiglianza del racconto, l’unica realtà vera, concreta, presente davanti all'obiettivo della macchina da presa è quella dell’attore in quanto persona, è quella dei luoghi fisici.
Ci sono film di Rossellini che si potrebbero definire dei documentari sull’attore che interpreta un personaggio in un dato contesto. Lo sono, a mio parere, tutti quelli che ha girato con Ingrid Bergman e anche con Anna Magnani, due donne che ha amato molto, credo. Dietro la costruzione del film, prima e dopo la costruzione del film, c’era l’idea di filmare una persona vera da lui amata - quindi con un’implicazione personale molto forte -, lì, sul set, nella sua viva concretezza di persona, al di là del personaggio.                              

L'amore (1948)

In questo quadro il rapporto di Rossellini con la tecnica cinematografica - con quello che definiamo la macchina-cinema, l’apparato tecnico-produttivo - è duplice, ma non contraddittorio. Da un lato egli attribuisce un’enorme importanza alla tecnica, perché è nella capacità propria del cinema di riprodurre specularmente il reale che può aver luogo il miracolo dello splendore del vero; dall’altro sente la necessità di superarla. E' interessato a tutte le innovazioni tecniche, e soprattutto a quelle che contribuiscono a ridurre i filtri tra lo sguardo del regista e ciò che è davanti alla macchina da presa; ma - a differenza di un Kubrick, tanto per fare un esempio - non feticizza la tecnica, ma semplicemente se ne serve, la considera un puro strumento.
Dunque possiamo parlare di un'idea che si traduce in un esercizio dell'attenzione, dell’intuito e dell’improvvisazione nella realtà viva del set, che a sua volta si traduce nell'esercizio di uno sguardo, di un vedere. E' la sovranità di questo sguardo, quando si dà, che determina il farsi del cinema come manifestarsi del reale; la tecnica ne è un puro veicolo.

L’orientamento di questa metafisica rosselliniana potrebbe sembrare apparentemente - per quanto riguarda i contenuti - di carattere umanistico-cristiano, ma in realtà questa lettura, che è quella corrente, non è a mio parere corretta. Rossellini ha sempre detto che l’obiettivo del suo cinema era l’uomo, ma l’uomo in una chiave più ampia, in una dimensione che diventa poi cosmica in un film come India. In ogni caso si tratta di un umanesimo segnato da una particolare e forte presa di posizione morale. Ecco cosa dice in un'intervista del 1963:

[La posizione morale] è, prima di tutto, una posizione fatta d’amore. Dunque di tolleranza, di comprensione. Quindi anche di partecipazione. […] La vera posizione morale è la tenerezza. (3)

Fate ben caso alle parole. Sono insolite per un regista, ma estremamente significative. Una posizione morale fatta d’amore e quindi di tolleranza, di comprensione e perfino di tenerezza, vuol dire uno sguardo di partecipazione, un entrare dentro le cose. Il nucleo essenziale del suo cinema sta esattamente qui: nella capacità di mettersi in contatto empatico con quello che filma, mantenendo al tempo stesso una certa distanza; la distanza di chi vuole vedere le cose fino in fondo, come sono, senza pre-concetti e senza pre-visioni. Questo tipo d’approccio è il vero segreto di Rossellini e quello che spiega, a mio parere, l’eccezionale riuscita di tanti suoi film.
Quest'amore, questa tenerezza, questa empatia fanno pensare al concetto buddista di compassione; così come l'idea della realtà che deve manifestarsi al cinema nella sua immediatezza, nella sua spontaneità, nella sua germinazione, non è lontana dall'estetica zen. Più che di umanesimo cristiano, parlerei perciò di una sorta di religiosità laica, venata di suggestioni provenienti dalle religioni orientali, dall’induismo, dal buddismo: non è un caso che Rossellini, nella seconda metà degli anni '50, approdi in India e ci resti per un lungo periodo, e dall’India porti una serie di documentari e un film straordinario, che è appunto India ("bello come la creazione del mondo", scrive Godard), un film sul cosmo, sull’intreccio tra l’uomo e il cosmo, un film profondamente indiano.
Questa ispirazione filosofico-religiosa sostanzia tutto il suo cinema. Farò un altro esempio: la sequenza finale di Germania anno zero. L’interpretazione più corrente vede in quel finale qualcosa di assolutamente nichilistico, uno sguardo di disperazione totale sull’Europa uscita dalla guerra. Questa disperazione c'è, ma occorre andare oltre. Dice Rossellini:

Il finale di Germania anno zero è apparso chiaro: era una vera luce di speranza, si accendeva la speranza. E il gesto che il bambino fa di suicidarsi è un gesto di abbandono, è un gesto di stanchezza con il quale esso si lascia alle spalle tutto l’orrore che ha vissuto e al quale ha creduto perché ha agito secondo una morale precisa […]; e lui si abbandona a questo grande sonno che è la morte, e da lì nasce il nuovo modo di vita, il nuovo modo di vedere, l’accento di speranza e di fede nel futuro, nell’avvenire e negli uomini. (4)
                                                      
Germania anno zero (1948)
                          
Questa lettura, che rovescia l'interpretazione nichilistica, deve farci capire che in questo finale qualcosa accade: nel gesto del bambino che si suicida, dopo quel percorso così significativo tra le rovine della città, c’è un salto e una rottura. Nel momento in cui il bambino si abbandona al nulla, segnala uno scarto. Il nulla, la morte - intesa come ritorno al grande cosmo cui tutti apparteniamo (tutti: uomini, animali, cose, anime e corpi…) - è un momento di superamento della vecchia dialettica speranza-disperazione, positività-negatività, bene-male. Con quel gesto, il bambino compie un atto filosofico, quello di annullare le contraddizioni e quindi di consentire un ripartire da zero – del resto il film si chiama Germania anno zero, da qualcosa occorrerà ripartire. Occorrerà ripartire dal superamento di una dicotomia tutta interna alla vita se viene vista come il semplice scenario dell’incontrarsi degli uomini e non una parte, forse piccola, di qualcosa di più grande, di questa visione cosmica del mondo e dell’appartenenza a questo mondo di uomini, animali, piante, sassi…
Una visione di questo tipo rimanda a una linea filosofica che va da Schopenhauer a Leopardi a Nietzsche - dove l’analisi disperata della realtà non è cedimento alla disperazione, ma tentativo di scavalcarla, di scavalcarne i termini stessi che la producono.

Il santo

La carriera di Rossellini è stata determinata dall’istintività delle scelte, da una certa casualità, dagli accadimenti della vita, dagli amori innanzitutto, da mille circostanze, con deviazioni e ritorni indietro. Del resto, egli non concepiva il lavoro come separato dalla vita, è sempre rimasto – dice lui – un giovanotto che aveva voglia di divertirsi. Malgrado ciò, è possibile rintracciarvi un filo non solo logico, ma di straordinaria coerenza.
Quando Rossellini arriva al cinema, la prima cosa che lo seduce è la tecnica; i primi film sono di carattere documentaristico; più precisamente, di carattere naturalistico: filma insetti, pesci… C’è una testimonianza molto divertente di Federico Fellini che lo ricorda mentre gira un documentario intitolato Il ruscello di Ripasottile:

Così, gironzolando per gli studi, entrai in uno dei capannoni deserti e in un angolino, in fondo, in un traffico silenzioso e discreto di tre o quattro persone, c’era Rossellini, inginocchiato sotto dei piccoli riflettori. Mi avvicinai in punta di piedi: dentro un piccolo recinto fatto di reti e di cordine c’era una tartaruga, due sorci, e tre o quattro bacherozzetti. Stava girando un documentario sugli insetti, facendo un’inquadratura al giorno, molto complessa, laboriosa, con grande pazienza. Erano mesi che girava. (5)

Questo è il ritratto di Rossellini agli esordi, con questo approccio quasi da cinema delle origini, da pioniere del cinema. C’è questo primato, questa fascinazione della tecnica e questa voglia di esplorare un mezzo che, lo comprenderà piano piano, può diventare uno strumento rivelatore della realtà.
Successivamente, il suo apprendistato avviene attraverso due o tre film che sono stati definiti di propaganda fascista. Molto si è detto in proposito, ma vale la pena di ribadire che Rossellini in realtà è rimasto sostanzialmente estraneo alle preoccupazioni politiche (la sua è stata sempre una posizione individualistica e fondamentalmente anarchica); quello che lo interessava in questi film era il lavoro con il comandante De Roberto e con l’ottimamente attrezzata équipe del Ministero della Marina, che gli hanno consentito di cimentarsi non solo con l’acquisizione della tecnica, ma anche con il lavoro sugli attori.

La molla che fa scattare il lavoro alto di Rossellini è la guerra, è lo shock della guerra. Raccontò che Roma città aperta era nato dalla paura, dall’esperienza vissuta nella Roma occupata, la miseria, la fame, l’orrore, i morti… questo shock ha prodotto Roma città aperta e poi Paisà e poi Germania anno zero, la cosiddetta trilogia della guerra, che è considerata uno dei vertici del neorealismo.
Nel neorealismo c’erano due anime. Una, che potremmo definire zavattiniana, era più legata all’approccio documentaristico, il cosiddetto pedinamento del reale. L'altra era l’anima più marxista, e concepiva il neorealismo come un realismo critico, capace quindi di documentare la realtà non tanto, o non solo, nella sua diretta immediatezza, quanto nella complessità dell’analisi storica e sociale.
Rossellini – anche se ha collaborato con Zavattini e anche se lo si potrebbe schierare, a partire dai suoi film, un po’ nell’uno e un po’ nell’altro orientamento – in realtà non appartiene a nessuno dei due. Lo dirà e lo ribadirà in tutte le polemiche che seguiranno. Da qui una profonda incomprensione con la critica dell'epoca, e in particolare con quella di orientamento marxista, allora dominante. I giudizi negativi si palesano già con Germania anno zero e diventano ancora più aspri con alcuni film successivi: L'amore, Stromboli, Europa 51. Qualche critico parlò addirittura di tradimento degli ideali neorealistici. Rossellini, pur amareggiato, ribadì con assoluta fermezza che il suo neorealismo era null’altro che un punto di vista morale, era l’amore, la tenerezza per gli uomini e per le cose.
A partire da L’amore, che è del '48 ed esce subito dopo Germania anno zero, si apre la fase cosiddetta spiritualista del suo cinema, che finisce più o meno nel '54 con La paura. Quello che ora lo interessa non sono tanto le condizioni sociali, i rapporti di classe, quanto piuttosto la condizione umana, esistenziale, nella sua nudità, nella crisi dei valori che si determina nel dopoguerra. E' una fase feconda ed eclettica. Lasciandosi alle spalle la società, Rossellini si concentra sull'individuo. Tenta l'apologo (La macchina ammazzacattivi, Dov'è la libertà), gira biografie di santi (Francesco giullare di Dio, Giovanna d'Arco al rogo) e la cosiddetta trilogia della solitudine (Stromboli, Europa 51, Viaggio in Italia). Ma se di solitudine si tratta, non è la solitudine dell’uomo in assenza di Dio – una tematica tipicamente cristiana –, ma piuttosto la solitudine dell’uomo che è incapace di mettersi in rapporto con gli altri, con il mondo, con il fondo primigenio che sta dietro a tutte le nostre esperienze. Ecco il peccato che questi film denunciano. Rossellini rivendica la sua laicità ("io faccio anche dei film su gente che crede in Dio, questo non vuol dire che io creda in Dio"), ma la sua ispirazione è segnata ugualmente da un profondo anelito spirituale.
Dopo La paura, Rossellini non lavora per due o tre anni – cosa insolita per lui, che ha sempre lavorato tantissimo – e finalmente va in India, da dove torna con un nuovo film (e una nuova moglie). Con India, l'abbiamo detto prima, la ricerca di Rossellini ("questo viaggio al termine della notte cinematografica", sono ancora parole di Godard) sembra trovare un punto d'arrivo. India è una ricapitolazione ma anche un addio al cinema. Una volta che è arrivato a spostare il discorso su un fondo mitico così alto, così lontano, Rossellini perde interesse per il cinema, anche se farà ancora molti film.
Di lì a qualche anno comincerà a lavorare quasi esclusivamente per la televisione, elaborando un programma fondamentalmente informativo, di carattere didascalico; anche se, di ritorno dall'India, per ironia della sorte, realizza in breve tempo quattro lungometraggi per il cinema, a cominciare da Il generale della Rovere, del '59, che lo rilancia in Italia. Ma non era il cinema che voleva fare. Confesserà più tardi che accettò di dirigerlo soltanto per soldi.
                                           
Il generale Della Rovere (1959)
                
Negli anni che seguirono, continuò a realizzare film, e spesso con risultati altissimi (ad esempio, La prise de pouvoir par Louis XIV), ma erano opere che già si collocavano fuori dall'idea di cinema che egli aveva perseguito fino ad India. Del resto la più parte di esse erano destinate alla televisione e si inquadravano in quel programma didascalico che andava elaborando. All'interno di questa nuova visione, occorre aggiungere, la nozione stessa di autore, come soggetto singolare, e quella di opera, come oggetto compiuto, tendono ad affievolirsi (e qui ritorna un motivo tipico della cultura orientale).
Insomma, sembra che, alla fine, Rossellini non abbia più fede nella possibilità che l’arte possa arrivare a cogliere lo splendore del vero. Nel degrado generale dei valori, delle prospettive, egli pensa che occorra ripartire da zero, occorra conoscere, occorra apprendere. Non si tratta di un programma educativo. Per Rossellini, l’educazione impone dei modelli, e l’uomo non deve avere modelli: l’unico modello è la libertà. L’uomo però deve possedere la conoscenza, perché se si conosce il mondo e gli altri uomini allora è possibile amare e mettersi in rapporto empatico con l'esistente.
In questa fase finale della sua vita, illuminismo ed enciclopedismo si intrecciano e danno luogo a una sorta di utopia mediatica di formazione integrale. E ancora una volta ritorna la metafisica, la ricerca impossibile di un'immagine assoluta.

Oggi, a mio modo di vedere, non siamo capaci di fare le immagini ma abbiamo imparato ad arricchire il nostro procedimento mentale, sviluppatosi mediante la parola, con delle illustrazioni. Siamo ancora lontani dalla constatazione, dall’immagine pura che non avrà bisogno di procedimenti dialettici per diventare evidente. Ma l’esercizio delle illustrazioni ci condurrà man mano alla riscoperta dell’immagine essenziale, fondamentale, nella quale sapremo condensare tutta l’informazione necessaria. (6)

Ritorna il mito, che aveva guidato la sua ricerca, di quel momento sovrano in cui la realtà si manifesta nell'empatia conoscitiva e amorosa con l'esistente. E’ un'utopia, che segna appunto il percorso di un santo, di un mistico, oltre che di un filosofo.

Se Rossellini vivesse oggi, sono quasi sicuro che non farebbe film. Forse si occuperebbe di Internet, che in parte realizza un aspetto della sua utopia mediatica. Ma se proprio dovesse fare dei film, credo che sceglierebbe di realizzarli con una piccola telecamera digitale. Anche in questo caso, le nuove tecnologie hanno contribuito a rendere più concreto il suo vecchio sogno di abolire ogni distanza tra lo sguardo del regista e il profilmico. E' per questo - per aver aperto, con le sue opere e con le sue utopie, una prospettiva sul dopo e sull'oltre del cinema - che Rossellini resta il padre della nostra modernità cinematografica.


1. Jean-Luc Godard, India, “Cahiers du Cinéma”, 96, giugno1959; trad. it. in: Il cinema, presentazione scelta dei testi e traduzione di Adriano Aprà, premessa di Pier Paolo Pasolini, Garzanti, Milano, 1971, pp. 149-150.
2. Colloquio sul neorealismo, a cura di Mario Verdone, “Bianco & Nero”, febbraio 1952.
3. Nouvel entretien avec Roberto Rossellini, a cura di Fereydoun Hoveyda ed Eric Rohmer, “Cahiers du Cinéma”, 145, luglio 1963; trad. it. in: Roberto Rossellini, Il mio metodo. Scritti e interviste, a cura di Adriano Aprà. Marsilio, Venezia, 1997 (I ed. 1987), pp. 294-295.
4. Colonna sonora, a cura di Glauco Pellegrini, “Bianco e Nero”, marzo-aprile 1964. Trascrizione dell'omonimo programma televisivo.
5. Federico Fellini, Fare un film, Einaudi, Torino, 1980, p.72.
6. Roberto Rossellini, Utopia Autopsia 1010, Armando, Roma, 1974, p. 207.

(Questo testo è la trascrizione, riveduta, corretta e ridotta dall'autore, di una conferenza tenuta agli allievi della Scuola Nazionale di Cinema il 28 ottobre 1999. Pubblicato sulla rivista "Bianco e Nero", marzo-aprile 2002, è stato ristampato nel volume: Salvatore Piscicelli, L'imitazione della vita, Scritti di cinema 1970-2016, Meltemi, 2018.)