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giovedì 9 novembre 2023

Rossellini filosofo e santo

A complemento del post precedente, dedicato a una rilettura di Viaggio in Italia, mi è sembrato utile riproporre qui questo testo del 2002, di non facile reperibilità, dove espongo il mio punto di vista sull'opera complessiva di Rossellini, sulla sua personalità, sulla sua visione.                                                    

Sul set di "Blaise Pascal" - Roma 1971

Rossellini filosofo e santo

Mi rendo conto che può suonare piuttosto provocatorio accostare queste due parole - filosofo e santo - a un uomo come Roberto Rossellini, un borghese dalla turbolenta vita sentimentale, amante delle macchine sportive (ha posseduto anche una Ferrari rossa) e piuttosto disinvolto, almeno all'apparenza, in fatto di politica e morale. Ma spero di poter dimostrare che, parlando del suo cinema, le metafore della filosofia e della spiritualità siano le più adeguate a capirne il senso profondo. Ovviamente occorre intendersi sulle parole. Uso il termine filosofo nell'accezione classica: un cercatore di verità, qualcuno che mira al senso ultimo delle cose e che investe il proprio lavoro con una costante interrogazione, nella quale il dubbio, e le conseguenti deviazioni, sono un elemento fondamentale. La parola santo allude invece alla ricerca di una coerenza e di un'assolutezza in un lavoro effimero, per sua natura, come il cinema.

Il filosofo

Rossellini ha una visione metafisica del cinema, una visione di stampo nettamente idealistico. Per comprendere questa affermazione, che non ha nulla di spregiativo, occorre considerare innanzitutto il suo metodo di lavoro.
Nel cinema di Rossellini si parte sempre da un'idea, dietro ogni film c'è un'idea generatrice: può essere uno spunto narrativo, più spesso una semplice immagine, un sentimento, o un'idea in senso proprio; in ogni caso, si tratta di un nucleo ispiratore che preesiste come imago puramente mentale. Un esempio classico: quando Rossellini va a Berlino per realizzare Germania anno zero ha in mente nient'altro che un'immagine, o meglio una breve sequenza di immagini: la passeggiata del bambino tra le rovine della città; tutto il film si svilupperà, nella sua lunga gestazione, a partire da questa.    

                           
Germania anno zero (1948)

La fedeltà a tale nucleo ispirativo è fondamentale nello sviluppo del film, che si traduce sì nella messa a punto di una sceneggiatura (anche se Rossellini non l'ha mai considerata come una struttura rigida e compiuta, un copione da eseguire), ma soprattutto si misura con tre ordini di problemi.
Innanzitutto, l'adesione al contesto in cui si gira il film. Rossellini ha sempre attribuito un'enorme importanza ai luoghi (le cosiddette location): Berlino, la costiera amalfitana, l'isola di Stromboli, il delta del Po in Paisà, la Roma di Roma città aperta, la Napoli di Viaggio in Italia; sono luoghi estremamente significativi, elementi vivi del film, non mera tela di fondo, scenari inerti dentro cui far muovere i personaggi.
In secondo luogo, il lavoro sull'attore. Rossellini non amava gli attori, lo ha confessato in diverse interviste, e non li amava perché pensava che il loro mestiere, la loro arte finiva comunque per sovrapporre una tecnica a qualcosa di preconcettuale, a un lavoro che per lui doveva svolgersi fondamentalmente sul terreno dell'intuizione. Per questo motivo ha utilizzato spesso interpreti non professionisti. Ma in ogni caso, professionisti o non professionisti, si trattava per lui di scavare nella persona dell'interprete, di mettere in rapporto la sua verità umana con quella del personaggio.
Infine, la centralità del set, ovvero del luogo e del momento delle riprese. Al di là di ciò che prescrive la sceneggiatura, per Rossellini il regista deve possedere in massimo grado una capacità di osservazione e di ascolto di quella complessa realtà che è il set - complessa interazione tra l'attore, la storia, il personaggio e l'ambiente -, in maniera tale da cogliere ciò che vi germina spontaneamente.
Se il lavoro svolto su questi tre piani è efficace, come per magia, improvvisamente, la realtà sboccia nel giardino artificiale del cinema. C'è una sorta di epifania del reale, qualcosa di abbastanza ineffabile (di metafisico, appunto), per la quale Godard una volta, parlando di India, ha trovato una definizione magnifica, lo splendore del vero:

India è il contrario di tutto il cinema abituale: l’immagine non è altro che il complemento dell’idea che la provoca. India è un film di una logica assoluta, più socratico di Socrate. Ogni immagine è bella non perché sia bella in sé… ma perché è lo splendore del vero, e perché Rossellini parte dalla verità. (1)
                                                  

India (1959)

In realtà, quello che interessa Rossellini è che questo splendore del vero si manifesti almeno in un momento del film. Confessò in un'intervista del 1952 di non amare le scene di raccordo; per lui, tutte le tensioni di un film, tutte le sue linee devono confluire in un punto nodale; è lì che accade quel manifestarsi primigenio e assoluto della realtà.

Ogni film che realizzo mi interessa per una data scena, per il finale che, magari, ho già in mente. In ogni film vedo l’episodio cronachistico - come potrebbe essere la prima parte di Germania anno zero, o l’inquadratura di Europa 51 che mi ha visto girare - e il fatto. Tutta la mia preoccupazione non è che di arrivare a tale fatto. Gli altri, gli episodi cronachistici, mi rendono come balbettante, come distratto, estraneo. Sarà una mia incompletezza, non dico di no, ma devo confessare che un episodio che non è di capitale importanza mi infastidisce, mi stanca, mi rende addirittura, se si vuole, impotente; io non mi sento sicuro che nell’episodio decisivo. (2)

Quando si parla di epifania del reale, di splendore del vero, per continuare a usare la metafora godardiana, bisogna fare una grande attenzione: Rossellini non ambisce al realismo, non gli interessa riprodurre la realtà così com'è, magari nella sua dimensione storico-sociale. E’ chiaro che in lui l’attenzione per i contenuti del film è molto forte, ma altrettanto forte è la consapevolezza che l’unica realtà vera che si dà davanti alla macchina da presa è quella del set. Al di là della storia e dei personaggi, al di là di ogni verosimiglianza del racconto, l’unica realtà vera, concreta, presente davanti all'obiettivo della macchina da presa è quella dell’attore in quanto persona, è quella dei luoghi fisici.
Ci sono film di Rossellini che si potrebbero definire dei documentari sull’attore che interpreta un personaggio in un dato contesto. Lo sono, a mio parere, tutti quelli che ha girato con Ingrid Bergman e anche con Anna Magnani, due donne che ha amato molto, credo. Dietro la costruzione del film, prima e dopo la costruzione del film, c’era l’idea di filmare una persona vera da lui amata - quindi con un’implicazione personale molto forte -, lì, sul set, nella sua viva concretezza di persona, al di là del personaggio.                              

L'amore (1948)

In questo quadro il rapporto di Rossellini con la tecnica cinematografica - con quello che definiamo la macchina-cinema, l’apparato tecnico-produttivo - è duplice, ma non contraddittorio. Da un lato egli attribuisce un’enorme importanza alla tecnica, perché è nella capacità propria del cinema di riprodurre specularmente il reale che può aver luogo il miracolo dello splendore del vero; dall’altro sente la necessità di superarla. E' interessato a tutte le innovazioni tecniche, e soprattutto a quelle che contribuiscono a ridurre i filtri tra lo sguardo del regista e ciò che è davanti alla macchina da presa; ma - a differenza di un Kubrick, tanto per fare un esempio - non feticizza la tecnica, ma semplicemente se ne serve, la considera un puro strumento.
Dunque possiamo parlare di un'idea che si traduce in un esercizio dell'attenzione, dell’intuito e dell’improvvisazione nella realtà viva del set, che a sua volta si traduce nell'esercizio di uno sguardo, di un vedere. E' la sovranità di questo sguardo, quando si dà, che determina il farsi del cinema come manifestarsi del reale; la tecnica ne è un puro veicolo.

L’orientamento di questa metafisica rosselliniana potrebbe sembrare apparentemente - per quanto riguarda i contenuti - di carattere umanistico-cristiano, ma in realtà questa lettura, che è quella corrente, non è a mio parere corretta. Rossellini ha sempre detto che l’obiettivo del suo cinema era l’uomo, ma l’uomo in una chiave più ampia, in una dimensione che diventa poi cosmica in un film come India. In ogni caso si tratta di un umanesimo segnato da una particolare e forte presa di posizione morale. Ecco cosa dice in un'intervista del 1963:

[La posizione morale] è, prima di tutto, una posizione fatta d’amore. Dunque di tolleranza, di comprensione. Quindi anche di partecipazione. […] La vera posizione morale è la tenerezza. (3)

Fate ben caso alle parole. Sono insolite per un regista, ma estremamente significative. Una posizione morale fatta d’amore e quindi di tolleranza, di comprensione e perfino di tenerezza, vuol dire uno sguardo di partecipazione, un entrare dentro le cose. Il nucleo essenziale del suo cinema sta esattamente qui: nella capacità di mettersi in contatto empatico con quello che filma, mantenendo al tempo stesso una certa distanza; la distanza di chi vuole vedere le cose fino in fondo, come sono, senza pre-concetti e senza pre-visioni. Questo tipo d’approccio è il vero segreto di Rossellini e quello che spiega, a mio parere, l’eccezionale riuscita di tanti suoi film.
Quest'amore, questa tenerezza, questa empatia fanno pensare al concetto buddista di compassione; così come l'idea della realtà che deve manifestarsi al cinema nella sua immediatezza, nella sua spontaneità, nella sua germinazione, non è lontana dall'estetica zen. Più che di umanesimo cristiano, parlerei perciò di una sorta di religiosità laica, venata di suggestioni provenienti dalle religioni orientali, dall’induismo, dal buddismo: non è un caso che Rossellini, nella seconda metà degli anni '50, approdi in India e ci resti per un lungo periodo, e dall’India porti una serie di documentari e un film straordinario, che è appunto India ("bello come la creazione del mondo", scrive Godard), un film sul cosmo, sull’intreccio tra l’uomo e il cosmo, un film profondamente indiano.
Questa ispirazione filosofico-religiosa sostanzia tutto il suo cinema. Farò un altro esempio: la sequenza finale di Germania anno zero. L’interpretazione più corrente vede in quel finale qualcosa di assolutamente nichilistico, uno sguardo di disperazione totale sull’Europa uscita dalla guerra. Questa disperazione c'è, ma occorre andare oltre. Dice Rossellini:

Il finale di Germania anno zero è apparso chiaro: era una vera luce di speranza, si accendeva la speranza. E il gesto che il bambino fa di suicidarsi è un gesto di abbandono, è un gesto di stanchezza con il quale esso si lascia alle spalle tutto l’orrore che ha vissuto e al quale ha creduto perché ha agito secondo una morale precisa […]; e lui si abbandona a questo grande sonno che è la morte, e da lì nasce il nuovo modo di vita, il nuovo modo di vedere, l’accento di speranza e di fede nel futuro, nell’avvenire e negli uomini. (4)
                                                      
Germania anno zero (1948)
                          
Questa lettura, che rovescia l'interpretazione nichilistica, deve farci capire che in questo finale qualcosa accade: nel gesto del bambino che si suicida, dopo quel percorso così significativo tra le rovine della città, c’è un salto e una rottura. Nel momento in cui il bambino si abbandona al nulla, segnala uno scarto. Il nulla, la morte - intesa come ritorno al grande cosmo cui tutti apparteniamo (tutti: uomini, animali, cose, anime e corpi…) - è un momento di superamento della vecchia dialettica speranza-disperazione, positività-negatività, bene-male. Con quel gesto, il bambino compie un atto filosofico, quello di annullare le contraddizioni e quindi di consentire un ripartire da zero – del resto il film si chiama Germania anno zero, da qualcosa occorrerà ripartire. Occorrerà ripartire dal superamento di una dicotomia tutta interna alla vita se viene vista come il semplice scenario dell’incontrarsi degli uomini e non una parte, forse piccola, di qualcosa di più grande, di questa visione cosmica del mondo e dell’appartenenza a questo mondo di uomini, animali, piante, sassi…
Una visione di questo tipo rimanda a una linea filosofica che va da Schopenhauer a Leopardi a Nietzsche - dove l’analisi disperata della realtà non è cedimento alla disperazione, ma tentativo di scavalcarla, di scavalcarne i termini stessi che la producono.

Il santo

La carriera di Rossellini è stata determinata dall’istintività delle scelte, da una certa casualità, dagli accadimenti della vita, dagli amori innanzitutto, da mille circostanze, con deviazioni e ritorni indietro. Del resto, egli non concepiva il lavoro come separato dalla vita, è sempre rimasto – dice lui – un giovanotto che aveva voglia di divertirsi. Malgrado ciò, è possibile rintracciarvi un filo non solo logico, ma di straordinaria coerenza.
Quando Rossellini arriva al cinema, la prima cosa che lo seduce è la tecnica; i primi film sono di carattere documentaristico; più precisamente, di carattere naturalistico: filma insetti, pesci… C’è una testimonianza molto divertente di Federico Fellini che lo ricorda mentre gira un documentario intitolato Il ruscello di Ripasottile:

Così, gironzolando per gli studi, entrai in uno dei capannoni deserti e in un angolino, in fondo, in un traffico silenzioso e discreto di tre o quattro persone, c’era Rossellini, inginocchiato sotto dei piccoli riflettori. Mi avvicinai in punta di piedi: dentro un piccolo recinto fatto di reti e di cordine c’era una tartaruga, due sorci, e tre o quattro bacherozzetti. Stava girando un documentario sugli insetti, facendo un’inquadratura al giorno, molto complessa, laboriosa, con grande pazienza. Erano mesi che girava. (5)

Questo è il ritratto di Rossellini agli esordi, con questo approccio quasi da cinema delle origini, da pioniere del cinema. C’è questo primato, questa fascinazione della tecnica e questa voglia di esplorare un mezzo che, lo comprenderà piano piano, può diventare uno strumento rivelatore della realtà.
Successivamente, il suo apprendistato avviene attraverso due o tre film che sono stati definiti di propaganda fascista. Molto si è detto in proposito, ma vale la pena di ribadire che Rossellini in realtà è rimasto sostanzialmente estraneo alle preoccupazioni politiche (la sua è stata sempre una posizione individualistica e fondamentalmente anarchica); quello che lo interessava in questi film era il lavoro con il comandante De Roberto e con l’ottimamente attrezzata équipe del Ministero della Marina, che gli hanno consentito di cimentarsi non solo con l’acquisizione della tecnica, ma anche con il lavoro sugli attori.

La molla che fa scattare il lavoro alto di Rossellini è la guerra, è lo shock della guerra. Raccontò che Roma città aperta era nato dalla paura, dall’esperienza vissuta nella Roma occupata, la miseria, la fame, l’orrore, i morti… questo shock ha prodotto Roma città aperta e poi Paisà e poi Germania anno zero, la cosiddetta trilogia della guerra, che è considerata uno dei vertici del neorealismo.
Nel neorealismo c’erano due anime. Una, che potremmo definire zavattiniana, era più legata all’approccio documentaristico, il cosiddetto pedinamento del reale. L'altra era l’anima più marxista, e concepiva il neorealismo come un realismo critico, capace quindi di documentare la realtà non tanto, o non solo, nella sua diretta immediatezza, quanto nella complessità dell’analisi storica e sociale.
Rossellini – anche se ha collaborato con Zavattini e anche se lo si potrebbe schierare, a partire dai suoi film, un po’ nell’uno e un po’ nell’altro orientamento – in realtà non appartiene a nessuno dei due. Lo dirà e lo ribadirà in tutte le polemiche che seguiranno. Da qui una profonda incomprensione con la critica dell'epoca, e in particolare con quella di orientamento marxista, allora dominante. I giudizi negativi si palesano già con Germania anno zero e diventano ancora più aspri con alcuni film successivi: L'amore, Stromboli, Europa 51. Qualche critico parlò addirittura di tradimento degli ideali neorealistici. Rossellini, pur amareggiato, ribadì con assoluta fermezza che il suo neorealismo era null’altro che un punto di vista morale, era l’amore, la tenerezza per gli uomini e per le cose.
A partire da L’amore, che è del '48 ed esce subito dopo Germania anno zero, si apre la fase cosiddetta spiritualista del suo cinema, che finisce più o meno nel '54 con La paura. Quello che ora lo interessa non sono tanto le condizioni sociali, i rapporti di classe, quanto piuttosto la condizione umana, esistenziale, nella sua nudità, nella crisi dei valori che si determina nel dopoguerra. E' una fase feconda ed eclettica. Lasciandosi alle spalle la società, Rossellini si concentra sull'individuo. Tenta l'apologo (La macchina ammazzacattivi, Dov'è la libertà), gira biografie di santi (Francesco giullare di Dio, Giovanna d'Arco al rogo) e la cosiddetta trilogia della solitudine (Stromboli, Europa 51, Viaggio in Italia). Ma se di solitudine si tratta, non è la solitudine dell’uomo in assenza di Dio – una tematica tipicamente cristiana –, ma piuttosto la solitudine dell’uomo che è incapace di mettersi in rapporto con gli altri, con il mondo, con il fondo primigenio che sta dietro a tutte le nostre esperienze. Ecco il peccato che questi film denunciano. Rossellini rivendica la sua laicità ("io faccio anche dei film su gente che crede in Dio, questo non vuol dire che io creda in Dio"), ma la sua ispirazione è segnata ugualmente da un profondo anelito spirituale.
Dopo La paura, Rossellini non lavora per due o tre anni – cosa insolita per lui, che ha sempre lavorato tantissimo – e finalmente va in India, da dove torna con un nuovo film (e una nuova moglie). Con India, l'abbiamo detto prima, la ricerca di Rossellini ("questo viaggio al termine della notte cinematografica", sono ancora parole di Godard) sembra trovare un punto d'arrivo. India è una ricapitolazione ma anche un addio al cinema. Una volta che è arrivato a spostare il discorso su un fondo mitico così alto, così lontano, Rossellini perde interesse per il cinema, anche se farà ancora molti film.
Di lì a qualche anno comincerà a lavorare quasi esclusivamente per la televisione, elaborando un programma fondamentalmente informativo, di carattere didascalico; anche se, di ritorno dall'India, per ironia della sorte, realizza in breve tempo quattro lungometraggi per il cinema, a cominciare da Il generale della Rovere, del '59, che lo rilancia in Italia. Ma non era il cinema che voleva fare. Confesserà più tardi che accettò di dirigerlo soltanto per soldi.
                                           
Il generale Della Rovere (1959)
                
Negli anni che seguirono, continuò a realizzare film, e spesso con risultati altissimi (ad esempio, La prise de pouvoir par Louis XIV), ma erano opere che già si collocavano fuori dall'idea di cinema che egli aveva perseguito fino ad India. Del resto la più parte di esse erano destinate alla televisione e si inquadravano in quel programma didascalico che andava elaborando. All'interno di questa nuova visione, occorre aggiungere, la nozione stessa di autore, come soggetto singolare, e quella di opera, come oggetto compiuto, tendono ad affievolirsi (e qui ritorna un motivo tipico della cultura orientale).
Insomma, sembra che, alla fine, Rossellini non abbia più fede nella possibilità che l’arte possa arrivare a cogliere lo splendore del vero. Nel degrado generale dei valori, delle prospettive, egli pensa che occorra ripartire da zero, occorra conoscere, occorra apprendere. Non si tratta di un programma educativo. Per Rossellini, l’educazione impone dei modelli, e l’uomo non deve avere modelli: l’unico modello è la libertà. L’uomo però deve possedere la conoscenza, perché se si conosce il mondo e gli altri uomini allora è possibile amare e mettersi in rapporto empatico con l'esistente.
In questa fase finale della sua vita, illuminismo ed enciclopedismo si intrecciano e danno luogo a una sorta di utopia mediatica di formazione integrale. E ancora una volta ritorna la metafisica, la ricerca impossibile di un'immagine assoluta.

Oggi, a mio modo di vedere, non siamo capaci di fare le immagini ma abbiamo imparato ad arricchire il nostro procedimento mentale, sviluppatosi mediante la parola, con delle illustrazioni. Siamo ancora lontani dalla constatazione, dall’immagine pura che non avrà bisogno di procedimenti dialettici per diventare evidente. Ma l’esercizio delle illustrazioni ci condurrà man mano alla riscoperta dell’immagine essenziale, fondamentale, nella quale sapremo condensare tutta l’informazione necessaria. (6)

Ritorna il mito, che aveva guidato la sua ricerca, di quel momento sovrano in cui la realtà si manifesta nell'empatia conoscitiva e amorosa con l'esistente. E’ un'utopia, che segna appunto il percorso di un santo, di un mistico, oltre che di un filosofo.

Se Rossellini vivesse oggi, sono quasi sicuro che non farebbe film. Forse si occuperebbe di Internet, che in parte realizza un aspetto della sua utopia mediatica. Ma se proprio dovesse fare dei film, credo che sceglierebbe di realizzarli con una piccola telecamera digitale. Anche in questo caso, le nuove tecnologie hanno contribuito a rendere più concreto il suo vecchio sogno di abolire ogni distanza tra lo sguardo del regista e il profilmico. E' per questo - per aver aperto, con le sue opere e con le sue utopie, una prospettiva sul dopo e sull'oltre del cinema - che Rossellini resta il padre della nostra modernità cinematografica.


1. Jean-Luc Godard, India, “Cahiers du Cinéma”, 96, giugno1959; trad. it. in: Il cinema, presentazione scelta dei testi e traduzione di Adriano Aprà, premessa di Pier Paolo Pasolini, Garzanti, Milano, 1971, pp. 149-150.
2. Colloquio sul neorealismo, a cura di Mario Verdone, “Bianco & Nero”, febbraio 1952.
3. Nouvel entretien avec Roberto Rossellini, a cura di Fereydoun Hoveyda ed Eric Rohmer, “Cahiers du Cinéma”, 145, luglio 1963; trad. it. in: Roberto Rossellini, Il mio metodo. Scritti e interviste, a cura di Adriano Aprà. Marsilio, Venezia, 1997 (I ed. 1987), pp. 294-295.
4. Colonna sonora, a cura di Glauco Pellegrini, “Bianco e Nero”, marzo-aprile 1964. Trascrizione dell'omonimo programma televisivo.
5. Federico Fellini, Fare un film, Einaudi, Torino, 1980, p.72.
6. Roberto Rossellini, Utopia Autopsia 1010, Armando, Roma, 1974, p. 207.

(Questo testo è la trascrizione, riveduta, corretta e ridotta dall'autore, di una conferenza tenuta agli allievi della Scuola Nazionale di Cinema il 28 ottobre 1999. Pubblicato sulla rivista "Bianco e Nero", marzo-aprile 2002, è stato ristampato nel volume: Salvatore Piscicelli, L'imitazione della vita, Scritti di cinema 1970-2016, Meltemi, 2018.)