lunedì 17 giugno 2024

"La magnifica ossessione: il cinema di Salvatore Piscicelli". Una nuova recensione



Carla Apuzzo e Salvatore Piscicelli con Marco Ferreri a Poitiers 1980

(Questa foto merita una spiegazione. Corre appunto l’anno 1980 e con Carla siamo a Poitiers - dove era in corso una rassegna di cinema italiano - e stiamo spiando Marco Ferreri che viene intervistato da un giornalista francese sul nostro film "Immacolata e Concetta". A Ferreri il film era piaciuto molto e voleva distribuirlo in Francia con la sua società. Presentato nell’agosto del 1979 al Festival di Locarno, dove aveva vinto il Leopardo d'Argento, fu poi selezionato per la Semaine de la Critique del Festival di Cannes: insolitamente, perché presentavano solo opere inedite. Ci sarebbe piaciuto uscire in Francia sotto l'egida del grande Marco, ma i diritti del film furono poi acquisiti da Les Grands Films Classiques, un distributore d'éssai che peraltro fece un ottimo lavoro.)



martedì 11 giugno 2024

Note sparse su Kenji Mizoguchi e il suo cinema


1. Un film documentario. Verso la metà degli anni Settanta Kaneto Shindo scrive, produce e dirige un film documentario dal titolo: Aru eiga-kantoku no shōgai Mizoguchi Kenji no kiroku (Kenji Mizoguchi: La vita di un regista di cinema, 1975). Shindo - il celebre autore di Hadaka no Shima (L’isola nuda, 1960) e di Onibaba (1964) – conosceva bene l’autore di Ugetsu per essere stato il suo assistente verso la fine degli anni Trenta e aver lavorato nel reparto di scenografia del colossal Genroku Chūshingura (I 47 Ronin, 1941-42), un film di propaganda militarista realizzato da Mizoguchi durante la Seconda Guerra Mondiale. Il documentario è prezioso perché all’epoca erano ancora vivi molti dei collaboratori di Mizoguchi e Shindo riesce a raccogliere ben trentanove interviste ad attori e attrici, sceneggiatori, produttori e tecnici. L’immagine che viene fuori di Mizoguchi è duplice e direi stridente. Da un lato infatti Shindo conferma la sua stima e direi il suo attaccamento al grande regista, di cui riconosce la statura e l’importanza, dall’altro però non nasconde gli aspetti sgradevoli e problematici della sua personalità. In ogni caso il film offre diverse testimonianze di grande rilievo e notevoli spunti di riflessione.

Mizoguchi è universalmente riconosciuto come un regista che privilegia i personaggi femminili. In una sorprendente intervista del febbraio del 1950 afferma invece che fu in realtà lo studio, la Nikkatsu, a imporgli di girare film sulle donne. Fu una scelta commerciale, dice. Poi, col tempo, il suo interesse si approfondì. Vi torneremo. Molte interviste ad attori e attrici ricordano il fatto che Mizoguchi non dava alcuna indicazione su come recitare un certo personaggio o una certa scena. Dovevano arrivarci da soli, in un percorso di immedesimazione. Da qui le lunghe estenuanti prove a cui li sottoponeva, con spirito sadico. Frequenti gli scoppi di pianto e in generale una condizione di inadeguatezza e di paura, finché non scattava, quando scattava, l’approvazione del maestro. Ma c’erano anche i licenziamenti su due piedi, davanti a tutta la troupe, dopo tre giorni di prove da lui ritenute inadeguate: e si trattava magari di un attore o di un’attrice di primo livello. Altri ricordano che trovando innaturali le battute sulla bocca degli attori, costringeva lo sceneggiatore a riscriverle, con grande disappunto degli attori medesimi, costretti a mandare a memoria le nuove battute, che venivano scritte su una lavagna a beneficio di tutti. Qualcuno ricorda che Mizoguchi aveva dedicato l’intera vita al cinema e si aspettava lo stesso dagli altri. Era sempre il primo ad arrivare sul set e non si muoveva mai dalla postazione di regia. Per svuotare la vescica utilizzava una bottiglia da urina, cioè un pappagallo, quello che usano in ospedale i pazienti allettati. E Kaneto Shindo ce lo mostra con un bell’inserto in tutta la sua flagranza! Il colmo del grottesco. Del resto qualcun altro ricorda che il grande regista amava frequentare i bordelli e l’ambiente delle geishe. C’è molto di giapponese in questa totale mancanza di ipocrisia.

Tuttavia il film contiene anche testimonianze di maggiore interesse sul piano del cinema. Nel film Chikamatsu monogatari le scene d’amore sono basate sulle stampe erotiche (shunga). Ce lo ricorda lo specialista di Ukiyo-e Yoshikazu Okamoto. Lo Ukiyo-e è un tipo di stampa artistica fiorente tra la fine del Seicento e l’inizio del Novecento, tra periodo Edo e periodo Meiji, sono immagini del cosiddetto “mondo fluttuante” che ebbero successo anche in Occidente con artisti come Utamaro (a cui Mizoguchi dedicò un film) o Hokusai. Okamoto fornì al regista molto materiale del genere, che fu di ispirazione per diverse scene, in particolare per il già citato Chikamatsu monogatari e per Shin Heike monogatari.

Utamaro - Tre donne
Ma la testimonianza più bella è quella di Kazuo Miyagawa, uno dei grandi direttori della fotografia del cinema giapponese del Novecento, che lavorò con i maggiori registi dell’epoca e collaborò con Mizoguchi in otto film, quasi tutti gli ultimi della sua carriera, tra il 1951 e il 1956, anno della sua morte. Miyagawa racconta la scena del viaggio in barca sul lago Biwa del film Ugetsu monogatari. Ci siamo ispirati, dice, alla scuola meridionale di pittura cinese, famosa per i delicati grigi dell’inchiostro diluito. Probabilmente si riferisce alla nota scuola Ma-Xia del XIII secolo, famosa appunto per l’uso di inchiostri fortemente diluiti per ottenere sfondi nebbiosi. Era molto difficile, aggiunge, e non ci siamo riusciti appieno. Quando abbiamo stampato il negativo, risultò piatto. Non siamo riusciti a ottenere un grigio profondo e caldo, bisognava sovrasviluppare il negativo di un paio di stop (parliamo di pellicola monocroma). Lo sapevo per esperienza, bisognava effettuare le riprese in condizioni di bassa illuminazione e il più vicino possibile al tramonto. Ma al di là del rammarico del tecnico, chi ha visto una buona copia del film sa che la scena è bellissima, con la barca che entra ed esce dalle nebbie fluttuanti.
Ugetsu monogatari
Queste due testimonianze ci danno conferma dell’influenza delle arti tradizionali sul cinema di Mizoguchi. E’ quando si trasferisce a Kyoto con la Nikkatsu, dopo il terremoto di Tokyo del 1923, che egli scopre il teatro (
Noh, Kabuki, Bunraku, Shimpa, danza) e la pittura (Ukiyo-e, pittura cinese, pittura su rotolo) e queste scoperte, a mano a mano che il suo stile matura, vanno a influenzare i suoi film.
Saikaku ichidai onna
2. Mizoguchi e le donne. Secondo il critico Tadao Sato, la biografia di Mizoguchi influenzò significativamente il suo cinema. Nelle precarie condizioni della famiglia, dovuti ai fallimenti del padre, la sorella maggiore di Kenji, Suzu, di tre anni più anziana di lui, all’età di dieci anni fu messa a servizio, per aiutare la famiglia, presso una delle tre più famose case di geishe di Nihonbashi, la Mikawaya; di fatto fu venduta . Qualche anno dopo, quando le fu conferito il titolo di Hangyoku (“mezzo gioiello”, un gradino sotto il titolo di geisha), divenne l’amante del Visconte Tadamasa Matsudaira , di nove anni più vecchio di lei, che le assegnò una casa ad Asakusa. Rimase subito incinta ma abortì per proteggere l’onore della famiglia del Visconte. A quel tempo il matrimonio di un aristocratico doveva essere approvato dal ministro della Casa Imperiale e sposare una geisha era assolutamente proibito. Negli anni successivi Suzu partorì al Visconte quattro figli. Nel frattempo questi sposò una donna di famiglia aristocratica e dalla residenza ufficiale visitava occasionalmente la concubina. Nel 1913 la madre malata, Kenji e il fratello più piccolo Yoshio si trasferirono da lei, che si assunse il peso di sostenere tutta la famiglia, compreso il padre, che viveva lì vicino, verso il quale Mizoguchi manifestò disprezzo se non odio. Nel 1915 la salute della madre peggiorò, fu ricoverata in ospedale e morì nell’ottobre di quell’anno. Tutte le spese se le assunse Suzu. Nel 1923, dopo il terremoto di Tokyo, dopo aver soggiornato in varie case, approdarono in una abitazione della residenza del Visconte Matsudaira. La madre e la moglie del Visconte trattavano Suzu come uno dei loro dipendenti, senza che vi fossero segni di gelosia da parte della moglie. Fu un periodo difficile per Suzu. Si parlò di andarsene. Lei comunque rifiutò l’elemosina di 50.000 yen per il bene dei figli e decise di rimanere accanto al suo signore, anche se quest’ultimo, carattere debole, non interveniva a difenderla. Nel 1926 la moglie del Visconte morì. Suzu e la famiglia si trasferirono in una casa più grande in stile occidentale. Mizoguchi, che lavorava a Kyoto come regista, quando era a Tokyo abitava a casa di Suzu e non si faceva scrupolo di approfittare di lei. Dopo la guerra, abolito il sistema nobiliare nel 1947, Suzu e Matsudaira finalmente si sposarono.

E’ stato notato che diversi personaggi dei suoi film sono modellati su membri della sua famiglia. A detta dello stesso Mizoguchi, in Naniwa ereji, il personaggio di Yunzo Murai, padre di Ayako, che sfrutta la figlia impunemente, riflette fin nei dettagli la figura del padre del regista, che lo considerava un fallito, persona inutile alla società. Quanto al Visconte Matsudaira, sembrerebbe all’origine di personaggi aristocratici senza spina dorsale, indecisi, senza carattere come il signore di Saikaku ichidai onna o l’imperatore di Yokihi. Quanto alle figure femminili, esse sono al centro di quasi tutta la cinematografia di Mizoguchi.

Saikaku ichidai onna
Tadao Sato sostiene che c’è un solo tema nel cinema di Mizoguchi, almeno all’inizio: come una donna, oppressa dalla società feudale, fa i conti col proprio destino. All’interno di questa configurazione generale, la figura della donna che si sacrifica per l’uomo è uno dei temi, di origine autobiografica, più sentiti dal regista (per fare un esempio, citerò il bellissimo Zangiku monogatari). C’è in lui come un senso di colpa, non solo nei confronti della sorella, che viene sacrificata per il benessere della famiglia, ma anche per il proprio comportamento nei confronti delle donne che chiama a una sorta di espiazione. Lo sappiamo frequentatore di bordelli, uno che ha avuto molte amanti, a dispetto del matrimonio. Questa voglia di espiazione era poi smentita dai fatti. Era difficile cambiare stile di vita. Secondo Kaneto Shindo, era interessato al denaro per mantenere una vita dissoluta.

Più tardi compaiono nel suo cinema figure femminili che si ribellano alla società che le opprime, del resto anche in Giappone emergevano spinte alla liberazione delle donne. Questo rispecchiamento tra biografia e società da un lato, e film dall’altro, non ci dice molto sull’essenza del suo cinema, ci offre però un parziale ritratto dell’uomo, le cui singolarità si inscrivono anche negli aspetti più superficiali della prassi del cinema. Piuttosto è interessante osservare un’altro rispecchiamento, quello tra l’uomo Mizoguchi e una figura tipica del cinema giapponese (già presente nel kabuki), il “matinée idol”, così come ce la presenta Tadao Sato.

Una premessa. Nel cinema americano degli anni Venti e Trenta in particolare, con matinée idol si indica una star, maschile, di bellissima presenza, di solito impegnata in ruoli romantici, amata fanaticamente dai suoi ammiratori. L’esempio tipico di quell’epoca è Rodolfo Valentino. Tadao Sato utilizza questa nozione anche per il cinema giapponese, dove i ruoli principali si dividono in due categorie: un uomo forte e affidabile che non si crea legami (tachiyaku, come nel teatro kabuki) e all’opposto un uomo frivolo e inaffidabile, ma bello, specializzato in scene d’amore, appunto un matinée idol. Le sceneggiature venivano scritte tenendo in mente questi ruoli distinti. Un esempio tipico di matinée idol lo troviamo nel già citato Zangiku Monogatari, nel personaggio dell’attore salvato dal sacrificio della giovane cameriera, personaggio interpretato da Hanayagi Shotaro, il più famoso onnagata, vale a dire un uomo che interpreta un ruolo femminile, vuoi in teatro che al cinema.

Zangiku monogatari
Per identificare Mizoguchi con un matinée idol Sato racconta un celebre episodio. Nel 1925 ebbe una relazione, che si rivelò tempestosa, con una certa Yuriko Ichijo, una yatona, come si diceva a Kyoto, una per metà cameriera e per metà prostituta. Un giorno Yuriko lo ferì con un rasoio alla schiena. L’incidente, riportato dai giornali, causò uno scandalo e Mizoguchi, che stava girando Akai yūki ni terasarete, fu cacciato e sostituito da Genjiro Saegusa. Yuriko fu arrestata e subito rilasciata grazie alla difesa di Mizoguchi. Se ne andò a Tokyo e il regista la seguì temendo che si suicidasse. La rintracciò che faceva la cameriera in un albergo. Si sistemarono in un ryokan, in un quartiere frequentato da artisti. Mizoguchi appariva come un giovane indifeso, senza pretese, puro e bello, di cui le donne potevano innamorarsi, esattamente come un matinée idol. Anche se, a differenza del protagonista di Chikamatsu monogatari, non pensò al doppio suicidio per amore della donna. Un giorno un musicista gli disse: sei troppo giovane per diventare il suo magnaccia, ti conviene tornare al tuo lavoro, la dimenticherai presto. E Mizoguchi, un po’ vigliaccamente, seguì il suo consiglio. Yuriko, che non poteva permettersi il ryokan, tornò a prostituirsi da qualche parte. Per anni il regista si vantò di quella ferita, quasi fosse l’emblema della sua aderenza allo spirito femminile. Diceva: Non puoi capire le donne se non hai una come questa, alludendo alla cicatrice.
Chikamatsu monogatari
3.
Il metodo Mizoguchi. L’attore viene prima. Normalmente un regista inizia a impostare una scena elaborando una sorta di découpage, suddividendola in inquadrature (primo piano, campo lungo ecc.), con relativi tempi e movimenti, al quale poi si adeguano attori e tecnici. Il metodo Mizoguchi inizia invece dall’attore. Una volta costruito o definito il set, l’attore comincia a provare e solo dopo si decide la lunghezza delle inquadrature o le migliori posizioni della macchina da presa. Mentre l’attore prova, Mizoguchi consente infatti anche al cameraman di fare le sue prove, cercando la migliore interazione con l’attore, diventando, come quest’ultimo, parte attiva del processo creativo. All’attore Mizoguchi non dà, come si è detto, alcuna indicazione su come interpretare un certo personaggio o recitare una certa scena. Devi immedesimarti con i sentimenti del personaggio, diceva all’attore, e recitare di conseguenza, col corpo e col cuore, devi diventare l’incarnazione delle emozioni del personaggio. Lo racconta molto bene in una intervista del 2013 Kyoko Kagawa, splendida interprete di Osan in Chikamatsu monogatari. Talvolta spingeva l’attore a documentarsi con libri ed altro, come ricorda Kinuyo Tanaka, sua attrice feticcio, a proposito del primo film con Mizoguchi, Naniwa onna, per il quale la spinse a leggere libri tecnici sul bunraku, vedere spettacoli e immergersi in quella atmosfera. Questa impostazione implicava prove lunghe ed estenuanti e quelli che non reggevano questo trattamento, come si è già detto, venivano licenziati. All’attore che chiedeva lumi, egli rispondeva con la stessa domanda: stai riflettendo? Questo metteva pressione sull’attore e lo spingeva a dare il meglio di sé.
Kinuyo Tanaka in Saikaku ichidai onna
A partire da questa impostazione che privilegiava la performance dell’attore, derivavano altre scelte tecniche, innanzitutto il piano sequenza o comunque le inquadrature lunghe. Nel momento in cui l’interprete raggiunge la giusta espressione delle emozioni, è bene dargli il tempo di esprimerla, prolungarla perfino quando è possibile. Suddividerla in varie inquadrature significherebbe distruggerla. Consequenziale a questa, un’altra scelta, la profondità di campo, quindi l’uso degli obiettivi grandangolari. Questo è un punto chiave. Mizoguchi dava grande importanza all’interazione tra gli attori, per cui in una scena a due cercava di tenere in campo entrambi gli attori o comunque di far sentire la presenza dell’altro appena fuori campo. Sosteneva che recitare da solo è diverso dal recitare alla presenza dell’altro. In questo contesto era escluso l’uso dei primi piani. Per altro verso, proprio a causa di tutte queste scelte, il montaggio perdeva di importanza. Per realizzare queste inquadrature lunghe usava spesso la gru (dolly), in alcuni film per il settantacinque per cento del tempo. La gru gli consentiva di (in)seguire l’attore o gli attori più facilmente per creare delle sequenze di grande eleganza articolando i vari piani del décor e governando sapientemente le entrate e le uscite di campo (qui siamo molto vicini alla pittura su rotolo). Era questo il punto di arrivo del lungo lavoro di prove del cameraman, e infatti Tadao Sato non esita ad attribuirlo a Kazuo Miyagawa. Il cui lavoro sulla fotografia in bianco e nero, va detto, merita una menzione speciale. (Per inciso, sembra che si debba a Miyazawa l’invenzione della tecnica del salto della sbianca (nella stampa a colori un procedimento che trattiene elementi dell’immagine del bianco e nero aggiungendoli all’immagine a colori, ottenendo più contrasto e meno saturazione del colore), approdata anche da noi alla fine degli anni Settanta allo stabilimento della Technicolor di Roma con il tecnico Ernesto Novelli e il direttore della fotografia Vittorio Storaro, forse con una formulazione diversa. Il mio film
Le occasioni di Rosa è stato stampato con questa tecnica.)

Un altro collaboratore di rilievo di Mizoguchi è stato lo scenografo Hiroshi Mizutani, che ha disegnato i set di molti suoi film. Mizutani costruiva i set come una scena teatrale, il che spesso poneva dei problemi a Niyagawa. Mizoguchi non era abituato a discutere con lo scenografo quando iniziava la preparazione, né dava un’occhiata ai piani che il tecnico gli sottoponeva o faceva delle ispezioni sul set. Ma quando il lavoro era terminato, avanzava richieste a volte irragionevoli. Col tempo, comprendendo lo stile di lavoro del regista, Mizutani veniva incontro alle sue aspettative allestendo bellissimi set. Anche in questo caso Mizoguchi faceva suo il lavoro di un tecnico senza intervenire nel processo.

Nel documentario di Kaneto Shindo vi sono varie testimonianze di una sorta di disinteresse di Mizoguchi verso il lavoro dei suoi collaboratori, cui in parte ho accennato sopra. Nel recensire il DVD Criterion di Ugetsu, nel cui pacchetto era compreso il film di Shindo, la redattrice della rivista Cinéaste Catherine Russell scriveva: “ A quanto pare il grande regista non ha mai guardato in macchina o ha contribuito al disegno delle luci; ha maltrattato gli attori senza mai dirigerli; ha riscritto la sceneggiatura su base quotidiana; delegava tutte le ricerche e la pianificazione delle scenografie, insistendo sulle modifiche solo dopo che tutto era stato costruito e delegava tutte le decisioni sulla magnifica colonna sonora al compositore e ai suoi assistenti alla regia.” E si chiedeva stupita come mai, malgrado ciò, Mizoguchi abbia ottenuto risultati così alti come in Ugetsu, premiato alla Mostra di Venezia con il Leone d’argento nel 1953. Al di là delle evidenti esagerazioni di alcune testimonianze, la risposta ce la offre Tadao Sato con parole precise, pienamente condivisibili: “La regia di Mizoguchi era caratterizzata dall’abilità di attingere alle idee dei membri della sua troupe e di cristallizzarle nella propria visione composita.”

Kinuyo Tanaka e Kenji Mizoguchi a Venezia
4. Mizoguchi e il realismo. La prima fase del cinema giapponese è caratterizzata da due elementi assenti nelle altre cinematografie, vale a dire il benshi e l’onnagata. Il benshi era un commentatore che, collocato ai lati dello schermo, raccontava lo svolgimento dell’azione e interpretava le situazioni e i personaggi dei film muti. Di derivazione teatrale, in particolare dal Bunraku, l’esistenza del benshi testimonia l'alto grado di opacità che doveva avere, per il pubblico indigeno, lo spettacolo cinematografico: un'opacità che esigeva la traduzione del senso ignoto delle immagini nel codice più formalizzato e più accessibile, e cioè la lingua. La figura del benshi assunse un grande rilievo, alcuni di essi divennero molto popolari e quando il cinema muto tramontò, provarono a resistere ma ovviamente fallirono.

Gli onnagata sono attori di sesso maschile che interpretano ruoli femminili. Il loro uso nel cinema deriva dal kabuki, dove è istituzionalizzato. Gli onnagata posseggono tecniche specifiche, assai sofisticate, anch’esse derivate dal teatro. Diversi onnagata hanno raggiunto una vasta popolarità e quando questa pratica è stata dismessa, spesso gli onnagata si sono trasformati in matinée idol, cioè, come abbiamo visto, in attori di ruoli romantici. La fine degli onnagata e del benshi, che coincide più o meno con la fine del cinema muto, apre il cinema giapponese al realismo. Si tratta sempre comunque di elementi realistici innestati nella forma del melodramma tradizionale, spesso shimpa film, tratti da copioni di questa forma di rinnovamento del kabuki.

Il realismo come idea di poetica fa parte della visione del cinema che ha Mizoguchi, come ci attestano le poche dichiarazioni sul tema. Essa si esprime in vari tentativi ma emerge più chiaramente nel 1936 con Naniwa ereji e Gion no kyodai e prosegue poi negli anni. Ma in realtà l’istanza realistica nel suo cinema è innestata come uno degli elementi che concorrono a un complesso processo di formalizzazione sovradeterminato dalle pratiche artistiche tradizionali, in particolare il teatro e la pittura; come ho cercato di dimostrare in un mio saggio del 1972, La pratica formale in Kenji Mizoguchi, composto dopo la visione di una retrospettiva di dieci film presso l’Istituto Giapponese di Cultura di Roma nella primavera del 1971.

Tuttavia l’istanza realistica risuona costantemente nel cinema del maestro, emergendo anche nei jidai-geki (film storici) oltre che nei gendai-geki (film di ambientazione contemporanea). Un esempio dei primi è Sansho dayu del 1954. Basato su un racconto di Ogai Mori, a sua volta ispirato a un “folk tale” buddista di tradizione orale. Mizoguchi e il suo sceneggiatore Yoshikata Yoda sottraggono alla storia buona parte dei risvolti leggendari e religiosi per conferire al film un carattere di realismo storico dentro il quale si esalta la denuncia della pratica della schiavitù nel Giappone medievale. Questa impostazione, molto cara a Mizoguchi, non contrasta col fatto che il film è uno dei più formalizzati, uno di quelli in cui lo stile maturo di Mizoguchi, ricco di risonanze teatrali e pittoriche, si manifesta esemplarmente.

Sansho dayu
In maniera più esplicita emerge l’istanza realistica in un gendai-geki, Akasen chitai, del 1956, ultimo film del regista, sul quale mi voglio soffermare. Tratto in parte da un romanzo della scrittrice Yoshiko Shibaki, sceneggiatura di Masashige Narusawa, e ambientato a Tokyo, nel distretto Yoshiwara, il distretto a luci rosse (il titolo originale vuol dire appunto “distretto a luci rosse”, laddove in occidente il film è stato distribuito con il moralistico titolo di The street of shame, La strada della vergogna), il film incorpora nella finzione un elemento di stretta attualità politica, vale a dire la discussione al parlamento giapponese di una legge che aboliva la prostituzione, e cioè le case chiuse. Si da il caso che due mesi dopo l’uscita del film la legge fu approvata e poiché il film aveva avuto un grande successo, si disse che aveva contribuito a questa approvazione. Nella finzione, invece, la legge viene respinta, con grande gioia dei tenutari. In effetti il film si presenta come una sorta di studio sociologico sulla miseria della condizione femminile all’interno di una casa chiusa, cioè di un bordello. Mizoguchi ritorna su una tematica già in parte affrontata in passato, in un contesto, quello del bordello, che egli ben conosceva per esserne stato un frequentatore abituale. Il tono è da commedia drammatica, con punte fortemente drammatiche. Il film è pieno di elementi dal forte realismo, nulla viene nascosto della violenza e dello squallore della vita in una casa chiusa.

Sono cinque le protagoniste di questo film corale e il loro destino è quasi sempre fallimentare. Yumeko è una vedova che si è prostituita per crescere il figlio, ma quest’ultimo, una volta diventato adulto, si vergogna a tal punto da ripudiarla. Lei, per la delusione, impazzisce. Yorie va sposa al gestore di un negozio di zoccoli ma scopre che il marito voleva soltanto una cameriera e una lavorante a buon mercato, per cui ritorna al bordello. Non meno triste è la storia di Hanae, che si prostituisce per sostentare il marito gravemente malato e il figlioletto. A un certo punto vengono sfrattati e lei è costretta a fare ulteriori debiti per andare avanti. E’ la coppia di gestori del bordello (il cui nome è ironicamente Dreamland!) a praticare i prestiti usurari, che finiscono per tenere vincolate le donne. L’unica a cavarsela è la furba Yasumi, che sfrutta gli aspiranti fidanzati per farsi consegnare ingenti somme e pratica anche lei il prestito usurario. Sfruttando la credulità del proprietario di un negozio di futon, ne rileva il controllo e può uscire dal bordello e mettersi in proprio.

Anomalo è il quinto personaggio, Mickey (il soprannome è quello del personaggio di Disney che da noi è Topolino), interpretato splendidamente da Machiko Kyo, che in Ugetsu interpretava la donna-fantasma che seduceva il vasaio. Questa giovane donna, completamente occidentalizzata, si è fatta prostituta per ribellarsi all’ipocrisia del padre borghese. Mickey è protagonista di almeno due magnifiche sequenze. La prima, esilarante, è il suo ingresso nella casa accompagnata da un magnaccia. Si guarda intorno, si mette a ballare cantando: “Sono io la nuova Venere”. Poi vede un uomo, lo afferra per portarselo a letto, ma scopre subito che è un inserviente della casa. 

Machiko Kyo in Akasen chitai
La seconda è ben più drammatica. Il padre viene a trovarla annunciando che la madre è morta e che lui si è risposato. Poiché a Kobe, dove vivono, si è risaputo che lei fa la prostituta, egli pretende che la ragazza ritorni per ristabilire la facciata in modo da consentire alla sorella un buon matrimonio e al fratello un buon impiego. Per tutta risposta la ragazza lo trascina a letto: “Compra il corpo della figlia di un uomo d’affari: 1500 yen. L’ultimo grido in fatto di depravazione.” Il padre si sottrae disgustato e lei lo caccia, per commentare infine: “Un melodramma disgustoso. Vado a farmi un bagno e a vedere un film con Marilyn.” Al di là della pregnanza narrativa, della forza drammatica della provocazione della ragazza, su un altro piano tutto il personaggio di Mickey è di carattere metalinguistico, ci segnala che si tratta di un film, che siamo dentro il gioco del cinema.
Akasen chitai
E cioè già nella dimensione formale del film. Ambientato quasi interamente in interni e per gran parte nel bordello, in spazi stretti affastellati di oggetti a rendere forse il senso di soffocamento di quelle vite (lo scenografo è un abituale collaboratore di Mizoguchi, Hiroshi Mizutani), il film non offre al regista e al suo direttore della fotografia Kazuo Miyagawa la possibilità di utilizzare quegli elementi di linguaggio che li avevano resi famosi anche in Occidente. E tuttavia Miyagawa muove la macchina da presa con una tale efficacia ed eleganza, con movimenti ora veloci ora lenti, giocando sulle entrate e le uscite di campo, sfruttando gli elementi del décor per sottolineare i rapporti tra i personaggi, aderendo pienamente al gioco della storia ma al tempo stesso fungendone da sguardo esterno. Insomma la macchina da presa diventa quasi un personaggio del film in quanto puro sguardo. Si aggiunga una stranissima musica, di tipo elettronico, firmata da Toshiro Mayuzumi, spesso giocata a contrasto con le immagini, rispetto alle quali non è mai davvero a commento. Insomma siamo ancora una volta di fronte a un’opera che, pur inglobando un’autentica istanza realistica, si presenta anch’essa come fortemente formalizzata.

Akasen chitai ha una conclusione toccante. E’ arrivata al bordello Shizuko, una ragazza ancora molto giovane, quasi un’adolescente. La truccano perché sembri più bella. Deve prostituirsi per mandare soldi alla madre. E’ Mickey che la conforta. “Non ci si può fare nulla”, le dice, “ma non lasciare che questo ti rattristi troppo. Tante ragazze lo fanno gratis, quelle sceme. Forza, guarda come faccio io.” Shizuko osserva lei e le altre, osserva come fanno ad attirare i clienti, poi, mezzo nascosta dalla porta (e da qui Miyazawa inquadra in primo piano), con un’espressione tra il timido e lo spaventato, abbozza anche lei un richiamo, timidissimo: “Ehi…” Ma poi, come intimorita dalla sua stessa voce, si ritira dietro la porta e su questo primo piano, tenerissimo e terribile, un fondu al nero chiude il film. A dimostrazione del fatto che ha un fondamento l’aver accreditato al cinema di Mizoguchi anche un carattere di “realismo umanistico”.

Yasuko Kawakami in Akasen chitai

Libri, saggi e film citati

- Tadao Sato, Kenji Mizoguchi and the Art of Japanese Cinema, Berg Publishers, Oxford – New York

- Catherine Russell, DVD Reviews: Ugetsu, Cinéaste, Vol. 31, No. 3 (Summer 2006)

- Salvatore Piscicelli, La pratica formale in Kenji Mizoguchi, Cinema Sessanta, n. 87/88, gennaio-aprile 1972 (ristampato in: Salvatore Piscicelli, L’imitazione della vita. Scritti di cinema 1970-2016, Meltemi Editore 2018)

- Aru eiga-kantoku no shōgai Mizoguchi Kenji no kiroku (Kenji Mizoguchi: La vita di un regista di cinema, 1975), scritto, prodotto e diretto da Kanedo Shindo

- Performance, intervista video con Kyoko Kagawa, presente negli “Extras” del DVD Criterion Collection di Sansho dayu

mercoledì 5 giugno 2024

La magnifica ossessione. Il cinema di Salvatore Piscicelli: una recensione

 

 

Alla fine della notte. Con Ennio Fantastichini
 

E’ uscita sul magazine online iKonoPlast una recensione del libro La magnifica ossessione: il cinema di Salvatore Piscicelli a firma del critico cinematografico Claudio Trionfera. La riproduco qui di seguito.


Bebop metropolitano

Salvatore Piscicelli, l’intuizione e il suo sviluppo

Quando si parla e si scrive di Salvatore Piscicelli non si può fare a meno di pensare al concetto di nuovo e di spiazzante, in parte di destabilizzante e sicuramente seduttivo ma anche spigoloso. Insomma la scoperta è sempre dietro l’angolo, senza preavviso e senza compromessi. È uscito un bel libro su Piscicelli. Si intitola La magnifica ossessione: già, articolo determinativo a parte, proprio come il film di Douglas Sirk del ’54, dunque settant’anni fa, in una scelta non casuale perché Sirk è uno dei tanti nomi cui quello di Piscicelli è stato collegato in alcuni versanti del suo lavoro. Quanti riferimenti: anche i più diversi fra loro ma sempre piuttosto attendibili come quelli della posizione intermedia fra neorealismo e mélo e altro ancora. E oltre. A me viene in mente uno status oscillante fra Roberto Rossellini e Pedro Almodóvar (ci sarebbe anche Pier Paolo Pasolini) e così rispondo a un’altra ossessione, un po’ meno magnifica, che spinge la critica a cercare sempre e comunque una classificazione di genere e corrente o una prossimità autorale. In effetti sono semplificazioni necessarie. Ma mi piace anche dire un’altra cosa: che Salvatore Piscicelli rassomiglia soprattutto a se stesso, al frutto del suo impegno di critico cinematografico prima ancora che di regista e sceneggiatore. Perché il primo ha generato i secondi e i secondi non potevano essere frutto altro che del primo. In una elaborazione molto originale, sia nella fase creativa, sia in quella espressiva. Alberto Castellano ha curato il libro che esce coi tipi di Martin Eden, bel formato, 254 pagine, costa 15 euro e naturalmente vale molto di più. Dentro, dopo un motto proprio di Sirk e la intro di Castellano medesimo, c’è una saggistica cospicua, quindici brani di riflessione critica, un’intervista rivelatrice che ha attimi di zenith, una galleria fotografica, una necessaria filmografia e il resto dell’opera densa. Ciascuno degli interventi, tutti profondi, precisi e da leggere con attenzione, si propone in un’area specifica dell’autore: da Immacolata e Concetta in poi in una carriera che oramai s’accosta ai 45 anni, fatta di pause meditate e slanci decisivi, “vesuviana” sì ma a modo suo, destrutturata, realistica e visionaria insieme. A volte con gli andamenti narrativi del bebop. Insomma la rarità fatta regina. Teniamocelo stretto questo autore speciale.

[Claudio Trionfera]

https://www.ikonoplast.com/ikonoplast-magazine

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lunedì 20 maggio 2024

La magnifica ossessione. Il cinema di Salvatore Piscicelli. L'introduzione di Alberto Castellano


E’ uscito il 16 maggio 2024 un volume di saggi sul mio cinema:
La magnifica ossessione. Il cinema di Salvatore Piscicelli, a cura di Alberto Castellano, Martin Eden Editore 2024. Il libro segue una retrospettiva completa - da poco conclusa - con dibattiti e analisi dei miei film organizzata dall’Accademia di Belle Arti di Napoli per il terzo anno del corso di cinema e audiovisivo tenuto dal professor Luigi Barletta.
Riproduco qui di seguito l’introduzione del curatore nonché la lista dei saggi, e dei rispettivi autori, raccolti nel volume.

Introduzione
Cercando nella forma uno sguardo politico
sul cinema e sul mondo


Quando si parla di Salvatore Piscicelli non si può non pensare subito a Jean-Luc Godard per le suggestive analogie professionali, per le sofisticate assonanze dal punto di vista critico-teorico e della pratica cinematografica. Godard, si sa, prima di esordire come regista nel 1954 con alcuni cortometraggi, aveva svolto un’intensa attività di critico cinematografico a partire dai primi anni ‘50 quando cominciò a scrivere saggi e articoli sui Cahiers du cinéma, per poi continuare con vari articoli, interviste, note, recensioni anche per altri giornali francesi (quotidiani, settimanali, riviste specializzate) fino agli anni ‘80. In quel periodo si gettavano le basi teoriche di quella che sarebbe stata la più grande stagione del cinema francese, intorno alla rivista si incontrarono quelli che sarebbero stati i protagonisti della Nouvelle Vague, Godard appunto, Truffaut, Chabrol, Rivette, Rohmer; ispirati da André Bazin fondatore dei Cahiers e padre spirituale del movimento.

Anche Salvatore Piscicelli prima di esordire dietro la macchina da presa con Immacolata e Concetta nel 1980, ha scritto tanto di cinema dal 1970 su riviste, pubblicazioni della Mostra del Cinema di Pesaro, l’Avanti! e altri quotidiani e settimanali e ha continuato, in maniera sporadica, fino al 2016 come testimonia il volume che raccoglie i suoi scritti (1) . I due autori quindi condividono l’intreccio tra la teoria e la prassi, tra l’approccio critico al cinema e il fare cinema. Quello che scrive Adriano Aprà nella presentazione del fondamentale libro da lui curato che raccoglie gli scritti del cineasta francese («Godard-critico è un cineasta in fieri, così come Godard-cineasta è un critico in fieri, scrivere film sulle pagine dei Cahiers o filmare critiche su pellicola Eastman è il segno di un medesimo atteggiamento di fronte al cinema: le parole proliferano in immagini e suoni, le immagini e i suoni rimandano alle idee che li provocano e di cui non sono altro che il complemento») (2) , vale in parte anche per Piscicelli visto che tutti i suoi film in maniera più evidente o più mimetizzata rimandano in qualche modo alle sue analisi critiche, alle sue riflessioni teoriche.

Le analogie però si fermano qui. Intanto perché Godard e Piscicelli – pur condividendo un amore sconfinato per il cinema, una passione cinefila totale, la vocazione alla citazione-omaggio – si sono espressi con strategie comunicative e prospettive narrative diverse. L’autore di Pomigliano è molto lontano dalla riflessione metalinguistica godardiana, anche se ogni suo film contiene in filigrana una riflessione sul cinema del passato, un riferimento ai film degli autori che più amati (Fassbinder, Sirk, Mizoguchi, Ozu, Rossellini) e soprattutto perché l’autore francese si è mosso nel periodo ‘50-’60, in un contesto culturale e un sistema cinematografico che dal punto di vista intellettuale, istituzionale, di strutture (la famosa Cinémathèque française) facevano lievitare idee, scambi, interazioni fra i vari cineasti. Piscicelli invece si è mosso in un contesto e in un periodo (quello degli anni ‘80) ben diversi, ingaggiando una donchisciottesca battaglia solitaria senza farsi scoraggiare dalla difficoltà per un autore indipendente di fare cinema senza farsi stritolare dal meccanismo perverso dei finanziamenti ministeriali-privati-televisivi destinati in gran parte al cinema commerciale, ai film di genere “usa e getta”. E forse anche per questo la stampa, la critica, gli editori gli hanno negato lo spazio e l’attenzione che merita(va) anche quando dopo i primi
folgoranti film si era già conquistato uno spazio importante, che lo fece individuare come il maestro degli autori della sua generazione e di quella
successiva, come il padre spirituale e morale dei cosiddetti “vesuviani”, i registi napoletani delle varie (presunte) nouvelle vague.

Del resto lui si ritagliò prepotentemente uno spazio tra le infinite rappresentazioni possibili di Napoli e della napoletanità, rivendicò subito un modo diverso di raccontare la città, i suoi linguaggi, le sue degradazioni e le sue pulsioni violente. Fece irruzione con storie forti e spigolose che non cercavano il consenso e non scaturivano da una programmatica intenzione di scandalizzare o provocare il dibattito politico, ma dalla genuina tensione a trasgredire linguaggi e stereotipi con soluzioni formali audaci e messe in scena originali e sofisticate. S’impose subito come autore di talento e personalità, non per le implicazioni sociologiche o le ripercussioni retoriche. Oltre tutto non operava in un contesto storico-politico “vantaggioso” e l’uscita dei suoi film non era accompagnata dalle fanfare multimediali.

Era ora insomma che si rendesse il dovuto omaggio a Piscicelli con una retrospettiva articolata e completa e una monografia, che sono state rese possibili grazie all’iniziativa dell’Accademia di Belle Arti di Napoli, in particolare del corso di Cinema e audiovisivo del professor Luigi Barletta
che, sfidando residui di preconcetti e disinteresse, ha allestito la rassegna dei film di Piscicelli rivolta agli studenti della settima arte attraverso visioni, incontri e dibattiti con il regista stesso, suoi collaboratori e vari attori. Questo volume nato proprio a corredo dell’iniziativa si è presentato come un’occasione unica per un risarcimento totale dell’autore. Che pure nel corso degli anni ha avuto un’accoglienza spesso entusiastica da parte della critica, i suoi film hanno fatto registrare giudizi lusinghieri. Ma si trattava di approfondire, sviscerare, collegare, ricondurre i tasselli della sua produzione a una visione globale del cinema, a una ricomposizione complessiva del suo sguardo profondo, insolito, realistico senza fare realismo, a volte tenero a volte spigoloso, a volte poetico a volte duro. Paradossalmente ciò che ha reso tutto questo meno complicato è proprio una filmografia scarna, un’esiguità dei film girati, una dilatazione del tempo tra un film e l’altro che rendono Piscicelli il più autore degli autori, il suo rifiuto fisiologico-psicologico di fare un film dietro l’altro, la tendenza a trasformare la non prolificità in un modus operandi che gli ha consentito di ritagliarsi zone di riflessione, spazi significanti (a differenza di tanti autori o presunti tali che al contrario credono che è la quantità di film girati a generare una qualità che dà loro la patente autoriale).

E allora la squadra di saggisti e critici che costituisce l’ossatura del libro aveva l’obiettivo (credo raggiunto) di attraversare in lungo e in largo il cinema di Piscicelli, intercettando da angolazioni, culture, formazioni diverse le riflessioni connesse al cinema dell’autore. E i quindici saggi (dieci sui singoli film e cinque di carattere più generale) costituiscono altrettante tappe di un percorso artistico complesso, anche perché il fil rouge che lega i vari film non è d’immediata decifrazione, non ha l’evidenza espositiva che contraddistingue spesso altri autori. In linea con la politique des auteurs sull’asse Cahiers-Bazin, Piscicelli di volta in volta ha cambiato genere, contesto, tipologie, sempre all’insegna di un cinema “politico”, indipendente, di chi si è mosso all’interno di un sistema che non ha ripudiato con rigidità ideologica, ma riuscendo ad esprimere le sue idee, a raccontare le sue storie con budget quasi sempre risibili, con autoproduzioni che gli hanno consentito una libertà espressiva che i finanziamenti ministeriali o altri gli avrebbero negato.

Uno dei punti di forza del cinema piscicelliano sono le ambientazioni, le location che l’autore non ha mai trattato come sfondo ma quasi come
(co)protagoniste delle storie. E i vari saggi con impostazioni esegetiche diverse – da quelli sui singoli film a quelli che più in generale esaminano le sue scelte innovative, il rapporto delle figure femminili con la dimensione paesaggistica, la comparazione tra Immacolata e Maria Capasso, alla lunga intervista fatta da Luigi Barletta nella quale l’autore parla per la prima volta del suo cinema e non solo, a tutto campo, senza condizionamenti giornalistici – restituiscono un autore che passa con disinvoltura dall’entroterra agricolo di Immacolata e Concetta alla periferia off limits di Le occasioni di Rosa, dal caos metropolitano di Blues metropolitano alla periferia degradata di Baby Gang, dalla zona flegrea di Rose e pistole agli interni borghesi di Regina, Il corpo dell’anima, Alla fine della notte, Vita segreta di Maria Capasso, all’ambientazione volutamente indefinita di Quartetto.

Attraversare in lungo e in largo il cinema di Piscicelli, che è l’intento di questa monografia, significa incrociare i suoi personaggi così diversi ma che riconducono tutti a un senso deleuziano, significa intrecciarli nell’ottica di un intellettuale che ha inteso il cinema come naturale protesi espressiva, come fisiologico prolungamento del suo percorso e della sua formazione, come possibilità di dare forma alle sue sotterranee attrazioni – con citazioni raffinate spesso mimetizzate – per l’antropologia strutturalista e per molte declinazioni del post-strutturalismo, dai concetti di simulacro, simulazione, seduzione di Klossowski alla sessualità foucaultiana, dalla psicoanalisi freudiana-lacaniana al decostruzionismo di Derrida.

Alberto Castellano

1. Piscicelli S., L’imitazione della vita. Scritti di cinema 1970-2016,
a cura di Gino Frezza, Meltemi Editore, Milano, 2018.
2. Godard J. L., Il cinema è il cinema, a cura di Adriano Aprà,
Garzanti Editore, Milano, 1981. 

 

Lista dei testi

Introduzione
Cercando nella forma uno sguardo politico
sul cinema e sul mondo

di Alberto Castellano

Piscicelli tra melò e innovazione
di Sandro Dionisio

Abitare i luoghi del disagio
di Fabrizio Croce

Da Immacolata a Maria o della curva discendente
dell’autonomia dello spirito
di Paola Pagliuca


Le occasioni di Salvatore
di Valerio Caprara

Come vedo il cinema (e il mondo)
Intervista a Salvatore Piscicelli
di Luigi Barletta

La disgregazione del mondo rurale cancellata
dall’universo industriale

di Mario Franco

Donna Rosa e i suoi due mariti
di Fabio Zanello

Napoli cambia senza cambiare: il Vesuvio sta in
Tennessee perché Piscicelli è come Altman

di Francesco Della Calce

I corpi, il desiderio e la morte in scena
di Achille Pisanti

L’innocenza (perduta) della Nomenland
di Goffredo De Pascale

Le lacrime di Eros
di Gino Frezza

Un quartetto per due telecamere
di Adriano Aprà

Un road movie lungo i sentieri dell’anima
di Armando Andria

Per una vita migliore a qualunque costo
di Giancarlo Giacci

L’altra Napoli di Carla Apuzzo
(e Salvatore Piscicelli)

di Gina Annunziata


giovedì 4 aprile 2024

Dal "Ma" al "Mu". Le inquadrature “still-life” o “a vuoto” nel cinema di Yasujiro Ozu

                                                

                                                          “La forma è vuoto, il vuoto è forma.”
                                                                          Sutra del Cuore
 

Uno dei tratti caratteristici della scrittura cinematografica di Yasujiro Ozu (1903-1963) – uno dei grandi del cinema giapponese e del cinema mondiale in generale  – è costituito dall’uso assai frequente di inquadrature "still-life" o “a vuoto”, nel senso che escludono quasi sempre la presenza umana (e quando ci sono figure umane – bambini che vanno a scuola, persone che vanno al lavoro – fanno parte per così dire del paesaggio), di cui proporrò la definizione di “inquadrature ma”. Si tratta di scorci di interni, case uffici bar, o di esterni, con elementi tipici della città, strade ciminiere treni stazioni, ovvero di paesaggi naturali, di campagna o di mare. A volte, con grande suggestione, sono semplici oggetti, una lampada un vaso un cuscino; a volte costituiscono la “coda” di un’inquadratura. Sono presenti di solito all’inizio e/o alla fine di una scena, spesso anche all’interno della scena, e quasi sempre aprono e chiudono l’intero film. Capire la valenza di questo elemento dello stile di Ozu può essere la chiave per comprendere e penetrare più a fondo nel cinema, così suggestivo e singolare, di questo grande cineasta.

Inquadrature simili, in quanto piani di transizione o inserti, sono presenti in moltissimi film, sia orientali che occidentali, ma il caso di Ozu ha una doppia singolarità: da un lato la ricorrenza massiccia e sistematica di queste inquadrature, dall’altro l’ampia gamma di funzioni che assolvono all’interno di una scena e nell’intero film.  Questo ci obbliga a pensare a un uso strutturale di questo elemento in quella che potremmo definire con Donald Richie la “sintassi” del suo cinema (Richie, 1963). Inoltre, come vedremo più avanti, queste inquadrature, al di là della loro evidenza filmica, aprono a uno spazio e a un tempo “altro”, che ha a che fare con la sfera filosofica e culturale.

Singolare, in ogni caso, è la “sintassi” del cinema di Ozu, o se volete il suo stile o la sua scrittura. Quando gira il suo primo film, nel 1927, e per tutto il periodo muto, Ozu esplora vari generi ed è fortemente influenzato, anche sul piano tecnico, dal cinema occidentale, da quello americano in particolare. Successivamente, grosso modo a partire dalla metà degli anni Trenta, comincia a definire un suo stile personale di ripresa che affina e depura sempre di più e che trova il suo culmine probabilmente in Tarda primavera (Banshun, 1949), per dispiegarsi poi nella dozzina di film che realizza fino al 1962. Secondo il critico Noel Burch (Burch, 1979), il punto più alto del cinema di Ozu, e dunque del suo stile, va collocato tra il 1934 e il 1942, con film quali Storia di erbe fluttuanti (Ukikusa monogatari, 1934), Una locanda di Tokyo (Tōkyō no yado, 1935), Figlio unico (Hitori musuko, 1936, suo primo film sonoro), Fratelli e sorelle della famiglia Toda (Toda-ke no kyōdai, 1941), C’era un padre (Chichi Ariki, 1942). Secondo altri critici, il culmine va collocato più avanti, in alcuni film del dopoguerra quali ad esempio Tarda primavera (Banshun, 1949), Viaggio a Tokyo (Tokyo monogatari, 1953), Erbe fluttuanti (Ukigusa, 1959), Tardo autunno (Akibiyori, 1960), L'autunno della famiglia Kohayagawa (Kohayagawa-ke no aki, 1961). Ma al di là dei giudizi critici, che si possono condividere o meno, ciò che accomuna tutti questi film è appunto lo stile maturo del regista, sempre più depurato, sempre più, per così dire, ascetico.

Intanto Ozu riduce le tematiche dei suoi film sostanzialmente a una sola, la famiglia e i rapporti all’interno di essa, in particolare tra genitori e figli, spesso conflittuali, nel quadro delle trasformazioni che intervengono nella società giapponese dopo la sconfitta nella seconda guerra mondiale. Anche il plot narrativo si riduce al minimo, quasi un semplice pretesto in funzione di quello che lo interessa di più, rivelare il carattere dei personaggi (Richie, 1963). Da qui anche il ricorso, spesso spericolato, alle ellissi, che contribuiscono alla contrazione del plot. D’altra parte emerge con più forza l’influenza della cultura tradizionale giapponese, soprattutto negli aspetti formali, a partire dal Buddismo Zen (su questo ci soffermeremo più avanti). Ma è sul piano della tecnica cinematografica che lo stile maturo si manifesta con più evidenza. Le inquadrature sono statiche e frontali, i movimenti di macchina sono quasi del tutto aboliti, abolita è la punteggiatura con i vari tipi di dissolvenze, resta il semplice taglio; il punto di vista della macchina da presa è posto in basso, all’altezza dell’occhio di una persona seduta sul pavimento (ma spesso più in basso). Questo comporta una sorta di appiattimento dell’immagine, una riduzione della profondità verso la bidimensionalità, che l’avvicina alla pittura tradizionale. Quasi a contrasto, lo spazio del set è sfruttato a 360 gradi. Ozu si rifiuta di sottostare al divieto di scavalcare l’asse (che consente la corretta direzione degli sguardi tra gli attori), tipica del cinema occidentale, cosicché è come se gli attori si rivolgessero alla macchina da presa e lo spettatore si ritrovasse al centro dello spazio, con un effetto straniante. Ancora, le inquadrature usate sono quelle primarie: campo largo, campo medio, mezza figura, primo piano, mai primissimo piano. Il montaggio le unisce secondo un principio di circolarità, principio che governa anche il film nel suo insieme. Qui quello che conta è il ritmo, in termini musicali, il tempo.

Queste scelte hanno come conseguenza una decisa formalizzazione del testo filmico, che si può immaginare come uno spazio artificiale, costruito con perizia da artigiano (Richie, 1963), dentro cui si muovono però personaggi che rappresentano esseri umani con i loro sentimenti. Ma qui occorre precisare. La lingua giapponese, come molte altre, distingue tra animato (umano e/o animale) e inanimato e si dà il caso che i personaggi romanzeschi o comunque di finzione hanno la marca dell’inanimato (Barthes, 1970). Mentre tutta la nostra arte si sforza di conferire "vita" e "realtà" ai personaggi della finzione, l’arte giapponese, sottolinea Barthes, gli sottrae per statuto l'alibi referenziale per eccellenza: quello della cosa viva. Questo spiegherebbe, nel nostro caso, il carattere di superficie dei personaggi di Ozu, anche una loro certa ieraticità. Come dice Tadao Sato, i personaggi di Ozu si comportano sempre come se stessero in pubblico e quindi osservati, e la ripresa dal basso e frontale conferisce ad essi, come a tutto il profilmico, “una qualità cerimoniale” (cit. in Burch, 1979). E tuttavia, come sappiamo, nei film di Ozu c’è una forte carica di emozioni e di sentimenti, questi personaggi ci commuovono. Come può accadere? Il fatto è che l’autentica espressione di sentimenti ed emozioni avviene per via indiretta, nel non detto, nell’allusione, quando si apre uno spazio e un tempo in cui si verifica una sorta di diluizione e di sospensione del senso. Ed è qui che le inquadrature “a vuoto” svolgono la loro funzione fondamentale, come vedremo. Del resto, più in generale, è proprio l’opposizione tra pienezza del senso e sospensione del senso a marcare la dicotomia di base tra cultura occidentale e cultura giapponese. Nei film di Ozu non manca certo l’esposizione del senso. Conflitti e svolte narrative sono rese esplicite quasi sempre nei dialoghi, così accurati (e si sa quanta importanza attribuiva Ozu alle sceneggiature, elaborate a lungo e in reclusione col fedele Kogo Noda, che restavano sostanzialmente immutate durante le riprese, diversamente da Mizoguchi, che le faceva riscrivere per intero sul set, con disappunto degli attori), mentre l’espressione delle emozioni ha luogo nella sfera dell’implicito.

Le inquadrature “a vuoto” sono state definite in vario modo dai critici: inquadrature di raccordo, inquadrature “still-life”, inquadrature tendina (“curtain shots”, Naubu Keinosuke), inquadrature cuscino (“pillow shots”). Quest’ultima è di Noel Burch (Burch, 1979), elaborata in analogia a “pillow words” (makura kotoba), un dispositivo tipico della poesia waka classica, parole o frasi associate ad altre parole o frasi a creare legami per associazione di significati e di suoni. L’analogia è suggestiva ma non del tutto adeguata. Io mi permetto di proporre la definizione di “inquadrature ma”, o “piani ma” (“ma shots”). Non per il gusto di introdurre un’ulteriore, quanto inutile, variante, ma piuttosto perché la nozione di ma è la più indicata a spiegare la funzione di questo tipo di inquadrature, restando strettamente all’interno della cultura giapponese.                                                     

Ideograma MA

Ma si può tradurre alla lettera come intervallo, spazio, pausa. Fa riferimento alla nozione di “spazio negativo” applicabile alle arti tradizionali giapponesi, dove lo spazio vuoto ha la stessa rilevanza delle altre parti. In architettura è lo spazio vuoto tra due elementi strutturali. Nelle arti marziali indica la distanza di sicurezza tra i due contendenti, nell’ikebana lo spazio intorno ai fiori, che ha la stessa importanza dei fiori stessi. Nella pittura è lo spazio bianco sul foglio a dare rilevanza agli oggetti ritratti. E così via. Una definizione più generale del ma è la seguente: il senso giapponese del luogo, di solito considerato come avente una componente sia temporale che spaziale. Il ma infatti informa tutta la vita dei giapponesi, dal rapporto con gli spazi, ad esempio la casa, al rapporto tra le persone, ed è presente in molte frasi idiomatiche, sia indicanti luoghi (ad esempio Cha no ma, la stanza del tè, o Madori, la disposizione delle stanze nella casa) che eventi temporali (ad esempio Maniau, fare in tempo o venire incontro al tempo, Mamonaku, non c’è tempo, presto, subito).

Da questo succinto excursus (che chiunque può approfondire con una semplice ricerca sul web) si comprende come la nozione di ma sia la più adeguata a descrivere le inquadrature “a vuoto”, e l’uso che ne fa Ozu, in quanto mette in luce la loro doppia valenza, spaziale e temporale, e àncora il suo cinema all’interno delle arti tradizionali giapponesi.

Le “inquadrature ma” (IM) svolgono, come si diceva, molte funzioni, anche in rapporto alla diegesi. Possono indicare lo spazio geografico entro cui avrà luogo la narrazione; possono anticipare l’ambiente in cui si svolgerà una scena; possono avere una valenza metaforica o simbolica. Si prestano quindi a letture multiple. Ma in ogni caso la funzione più generale, la più importante, è quella di sospendere il flusso diegetico. La momentanea messa in parentesi della diegesi con l’esclusione della presenza umana implica una visione del mondo non antropocentrica, che è l’opposto della visione occidentale. E’ come se Ozu volesse ricordarci che ogni vicenda umana non può essere compresa se la separiamo dal contesto della natura, del mondo delle cose: da esso prende le mosse e ad esso ritorna, in un processo di costante mutamento, che è la legge universale dell’impermanenza. Così spesso l’inizio di un film ci presenta una più o meno graduale transizione dal mondo inanimato alla sfera vivente della diegesi.

Prendiamo l’inizio di Erbe fluttuanti. Sono quattro IM per un totale di poco più di un minuto e mezzo:
- il faro con l’imbocco del porto e una bottiglia in primo piano
- il faro inquadrato tra barche tirate in secca
- ancora il faro tra baracche di pescatori e una barca che esce dal porto
- l’imbocco del porto con il faro sullo sfondo e a destra lo scorcio di una costruzione con una cassetta della posta                                                                                                             



Segue un interno dove un gruppo di persone discutono dell’imminente arrivo di una compagnia di teatro. Inizia la diegesi. Dopo questa scena torna una IM simile alla prima, ancora con l’imbocco del porto, il faro e in primo piano un palo (sempre elementi verticali). Di seguito siamo sulla barca che conduce la compagnia alla cittadina costiera.

Le quattro IM dell’inizio possono essere lette a vari livelli. Intanto segnalano la collocazione geografica della storia, una cittadina di mare: una funzione legata alla diegesi. Inoltre, il porto col faro è luogo di partenze e di arrivi, con connotazioni nostalgiche. Tutto il film è all’insegna della nostalgia (è un remake di un altro film di Ozu del 1934). L’intera sequenza è fortemente stilizzata, con l’insistenza sul faro e sugli elementi verticali, e preannuncia la stilizzazione geometrica che governa la struttura narrativa del film (Tomasi, 2009). Le IM possono essere lette anche in chiave pittorica, il cinema di Ozu è pieno di inquadrature magnificamente composte, che si possono godere in quanto tali. Infine, questa lunga sospensione (un minuto e mezzo è un tempo lungo al cinema) a inizio film, col suo carattere contemplativo, è come una lunga presa di respiro volta a svuotare la mente prima di inoltrarci nel film.

Esaminiamo brevemente un paio di finali di film.

L'autunno della famiglia Kohayagawa termina con il funerale del capofamiglia Manbei. Tutta la sequenza è strutturata intorno all’immagine della ciminiera che fuma dell’impianto di cremazione, inquadrata in campo lungo e in campo più stretto. L’immagine ricorre per ben sei volte. Sono inquadrature legate alla diegesi in quanto soggettive dei membri della famiglia. All’interno della sequenza c’è un breve intermezzo, con due figure estranee alla trama (l’uomo è Chishu Ryu, un cameo) che sciacquano uno straccio sulla sponda del fiume e osservano la ciminiera: “Sarebbe triste se fosse un giovane”, dice la donna, “Ma nuove vite sostituiranno quelli che muoiono”, ribatte l’uomo, “Come è saggia la natura”, conclude la donna. E’ un commento che traduce il facile simbolismo della ciminiera nei termini di una saggezza ovvia nella sua semplicità. Infine, dopo un’altra inquadratura della famiglia che sfila sul ponte verso il cimitero, Ozu introduce uno scarto conclusivo. Tre IM per un totale di poco più di venti secondi:
- quattro corvi sulla sponda del fiume
- un campo più largo con cinque corvi sempre sulla sponda del fiume
- due corvi appollaiati su delle stele scolpite che gracchiano                                                      

                                                           
                                                           
                                                            

In prima lettura, l’apparire di questi corvi con il loro aspro gracchiare risulta alquanto disturbante e rompe il quieto svolgimento della sequenza precedente. In secondo luogo, il nero corvo, come la ciminiera, può essere associato anch’esso alla morte (nella cultura occidentale è così) ma nella mitologia giapponese è un messaggero divino e nel folklore esso è considerato simbolo, tra l’altro, di buona fortuna e di reincarnazione. In questo modo il mortifero simbolismo della ciminiera viene superato in una prospettiva più ampia e direi più vitale. Cosicché le tre IM si possono considerare come una sorta di correlativo oggettivo dei commenti di semplice saggezza della coppia sul fiume.

Figlio unico è forse il più cupo e desolato dei film di Ozu e uno dei suoi primi capolavori. E’ la storia di una vedova che compie duri sacrifici per mantenere agli studi il figlio, ma quando, dopo tredici anni di lontananza, va a trovarlo a Tokyo, scopre che è sposato con un bambino e vive praticamente in miseria in una desolata periferia. Cocente è la delusione per i sacrifici inutili, appena mitigata dal constatare il carattere generoso del figlio. Tornata in campagna e al duro lavoro, la donna mente all’amica dicendo che ha passato giorni indimenticabili a Tokyo. Segue il finale. La donna si aggira con un secchio nello squallido cortile dell’opificio dove lavora e dorme. Depone il secchio, va a sedersi. Sono cinque inquadrature, ora larghe ora strette, che si concludono con una mezza figura di lei che infine china la testa, triste e stanca. Seguono tre IM conclusive per un totale di circa venticinque secondi:
- uno scorcio del cortile con sul fondo la palizzata che va a chiuderlo
- piano ravvicinato in asse della precedente, stretta sul cancello chiuso
- una palizzata più massiccia, vista dall’esterno, d’infilata, che occupa quasi l’intero fotogramma

                                                          
                                                           
                                                            

Sono immagini non “belle”, occlusive, oppressive, immagini di chiusura. Quelle palizzate delimitano lo spazio dell’opificio dove la donna lavora e dorme e lo definiscono come una prigione. Sono la proiezione mentale della condizione di chiusura in cui è presa la donna. Un’intera vita prigioniera, spesa inutilmente. L’oppressione è totale. Ma su un altro piano di lettura, quelle palizzate ci appaiono come i muri che cerchiamo vanamente di abbattere per uscire dai limiti delle nostre vite; ma sono anche il muro contro il quale dovremmo sederci a meditare per realizzare quel vuoto che ci apre all’accettazione totale della vita com’è. Nel Soto Zen la meditazione si pratica contro il muro; del resto in Cina il primo Patriarca, Bodhidharma, capostipite dello Zen, meditò contro il muro per nove anni.

Esaminiamo ora il funzionamento di una IM all’interno di una scena, con un esempio tratto da Tarda primavera, storia di un padre vedovo che per spingere la figlia a sposarsi fa finta di volersi risposare a sua volta. Siamo verso la fine del film. Somiya e Noriko, padre e figlia, fanno un ultimo viaggio insieme a Kyoto, prima del matrimonio di lei, ormai deciso. Ma noi sappiamo che Noriko ha molti dubbi, il suo più profondo desiderio sarebbe di rimanere accanto al padre. Nel ryokan dove alloggiano, i due si accingono a dormire. Noriko si rammarica di aver definito immorale il matrimonio dell’amico del padre Onodera con una donna più giovane e dice di aver pensato la stessa cosa a proposito del presunto matrimonio del padre. Ma Somiya non sembra ascoltare quest’ultima battuta. L’improvviso addormentarsi del padre forse le impedisce di esprimere verbalmente i dubbi sul proprio matrimonio (lo farà la mattina prima della partenza e il conflitto, e l’inevitabile adeguarsi di Noriko, verrà fuori in modo esplicito), ma la carica emotiva che vi è sottesa emerge in una breve successione di inquadrature:
- primo piano di Noriko, testa sul cuscino, che si volta a guardare il padre
- primo piano del padre che dorme
- primo piano di Noriko che distoglie lo sguardo dal padre, ancora con un sorriso sulle labbra
- IM, un angolo della stanza nel semibuio con sullo sfondo ombre di rami dietro gli shoji illuminati e al centro esatto del fotogramma, un vaso
- primo piano di Noriko, il sorriso è scomparso, muove la testa, è pensierosa, inquieta, c’è quasi un preludio di lacrime
- IM, la stessa di prima ripetuta per una decina di secondi, poi stacco su un’altra scena                                                       
                                                              
                                                         
                                                          

Queste due IM sono tra le più iconiche del cinema di Ozu, discusse da molti critici. Escludiamo subito che si tratti di soggettive di Noriko, nulla ce lo fa pensare. Dal punto di vista della grammatica cinematografica occidentale, risultano quindi del tutto incongrue. In quanto a una possibile interpretazione, non mi pare accettabile quella “spiritualista” di Paul Schrader, che scrive: “Il vaso è stasi, una forma che può accogliere emozioni profonde e contraddittorie e trasformarle in espressione di qualcosa di unificato, permanente, trascendente.” (Schrader, 1972) In Ozu tutto è ordinario, quotidiano, non c’è trascendenza, nel senso occidentale del termine. Io credo che in prima istanza le due IM, in particolare la prima, vanno intese nella loro valenza temporale, sia dal punto di vista narrativo (il tempo che consente a Noriko il mutare delle emozioni), sia più in generale come tempo astratto. Scrive Deleuze: “Il vaso di Tarda primavera si inserisce fra il sorriso a fior di labbra della figlia e le sue lacrime nascenti. Vi è divenire, cambiamento, passaggio. Ma la forma di ciò che cambia, non cambia, non passa. È il tempo, il tempo in persona, «un frammento di tempo allo stato puro»: un’immagine-tempo diretta, che dà a ciò che cambia la forma immutabile nella quale si produce il cambiamento.” (Deleuze, 1985) E qui ci accostiamo al punto.

Si è detto che le IM sospendono il flusso della diegesi, in una prospettiva non antropocentrica. L’effetto che Ozu vuole ottenere è simile a quello che induce nell’allievo il Maestro Zen quando gli assegna un koan, che è una specie di indovinello non comprensibile in termini razionali (è una pratica tipica della scuola Rinzai Zen). Masticandolo, per così dire, in lunghe sedute meditative, l’allievo perviene a una sorta di smarrimento, nella sua mente si crea un vuoto, cosicché a un certo momento, attraverso un lampo intuitivo, può cogliere infine la realtà così com’è, al di là delle pastoie intellettuali, di tutte le convenzioni. Satori, la nomina il Buddismo Zen, questa illuminazione improvvisa dove il dualismo di soggetto e oggetto si annulla nell’intuizione unitaria della realtà. Essenziale dunque è la nozione di vuoto, Mu (dal cinese Wu) nel Buddismo Zen. Mu significa letteralmente: no, senza, nulla. E’ il vuoto da cui nasce tutto, il vuoto primigenio produttivo. E’ la condizione mentale che apre all’intuizione della realtà, all’accettazione.                                                          

Ideogramma MU

Torniamo al vaso di Tarda primavera. Ozu vuole indurre nello spettatore un momento contemplativo, con i limitati mezzi del cinema, una pausa, una sospensione che gli consenta di aderire al sottotesto delle emozioni, delle vibrazioni dei sentimenti, e lo fa creando appunto dei vuoti nella diegesi, dei momenti Ma che ci fanno accedere al Mu. Questa valenza contemplativa soggiace a tutte le IM di tutti i film, quale che sia la loro funzione accessoria. Ed è tanto più vero nel caso di Tarda primavera, che è il suo film più pregno di riferimenti al Buddismo Zen e alle arti giapponesi ad esso legate, dalla cerimonia del tè al teatro Noh.

Che l’interpretazione in termini di Mu delle due IM di Tarda primavera sia la più vicina alle intenzioni di Ozu lo dimostrano due fatti. Il primo è che non a caso il vaso – dove quello che conta non è l’argilla di cui è fatto ma il recipiente, il vuoto che si crea all’interno – è una delle metafore più ricorrenti nella letteratura buddista per spiegare la nozione di vuoto. Il secondo è che la IM del vaso, dopo il cut, è seguito da due inquadrature, una più larga e una più stretta, di un giardino Zen. I cosiddetti giardini Zen (che i giapponesi chiamano karesansui, “natura secca”) sono presenti in molti templi di questa scuola e si ispirano anch’essi alla nozione di vuoto, di Mu.

Io sono convinto che Ozu operi su questa materia in piena consapevolezza. Ignoro se fosse un adepto, ma la sua conoscenza del Buddismo Zen è nota. Egli sa anche che trasporre elementi alti di questa grande scuola di filosofia nelle forme del cinema comporta grandi limiti, che sono quelli propri del mezzo, i cui prodotti si fruiscono in condizioni sostanzialmente effimere. Non per caso egli vi inserisce qua e là qualche nota ironica. Vedi proprio l’inizio di Tarda primavera, dove Noriko e la zia, in attesa dell’inizio della cerimonia del tè, in quella che dovrebbe essere un’atmosfera di raccoglimento, discutono prosaicamente dell’adattamento a un bambino di un pantalone e della necessità di metterci le pezze al culo. La dimensione ironica, giocosa, comica è molto presente nei film di Ozu del periodo muto, ma non manca spesso anche nelle opere della fase più matura e austera del suo cinema.

Quanto al Mu, è superfluo ricordare che sulla stele tombale  di Ozu, a Kamakura, nel recinto dell’Engaku-ji, un tempio Zen, non è inciso il suo nome bensì appunto l’ideogramma del Mu.

Libri e saggi citati
- Donald Richie, Yasujiro Ozu: The Syntax of His Films, Film Quarterly, 1963
- Noel Burch, To the Distant Observer, University of California Press, 1979
- Roland Barthes, L’Empire des signes, Éditions du Seuil, 1970
- Dario Tomasi, Ozu Yasujiro, Il castoro cinema, La nuova Italia, 2009
- Paul Schrader, Trascendental Style in Film, University of California Press, 2018 (prima ed. 1972)
- Gilles Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, Einaudi, 2017 (ed. originale 1985)