mercoledì 18 marzo 2015

La canzone di Marcello

La canzone di Marcello, un documentario con Marcello Colasurdo, è visibile su youtube a questo indirizzo.

Ho girato questo film tra il 2004 e il 2006, filmando buona parte del materiale io stesso con la camera a mano. E’ un ritratto, per così dire, schizzato a matita dell’artista e del personaggio, un omaggio affettuoso e molto personale a Marcello, cui mi lega un’amicizia ormai più che trentennale.


Di seguito una scheda completa del film.

Regia, riprese, montaggio: Salvatore Piscicelli
Riprese aggiunte: Timoty Aliprandi, Saverio Guarna, Huub Nijhuis
Assistente al montaggio: Cristiana Cerrini
Musiche: Marcello Colasurdo e Paranza
Genere: documentario
Durata: 51’
Formato: DV, 4:3 – colore e b/n
Produzione: Carla Apuzzo per Falco Film – Italia, 2006

Con la simpatia umana e la carica comunicativa che lo hanno reso così popolare presso il pubblico di Napoli e della Campania, Marcello ci racconta la sua storia e le sue esperienze, gli incontri con Fellini e Peter Gabriel. Ci parla della politica, della fabbrica, della camorra, della dro
ga, della globalizzazione, della pace e della guerra. Ci conduce, quasi da sacerdote laico, in alcuni luoghi di pellegrinaggio dove si esprime quella religiosità popolare che ha ancora radici pagane. Lo vediamo mentre anima una discussione politica o una festa o quando trasmette l’arte della tammorra e la tradizione orale ai ragazzi del quartiere popolare dove vive. Lo seguiamo con la sua Paranza mentre canta e suona nelle piazze e sui palchi.
Arricchito da materiale degli anni Settanta, il film offre un ritratto a molte facce, denso di musica e di calore umano, di un artista autenticamente popolare.


Chi è Marcello Colasurdo

Di umili origini, Marcello trascorre l’infanzia in diversi collegi, prima a Napoli e poi nelle Marche. Verso i 12 anni, la madre lo riprende con sé.  La famiglia è molto povera. Vivono in un “basso” in fondo a un cortile della vecchia Pomigliano: un’unica stanza in cui si cucina, si mangia, si dorme; il servizio igienico è fuori, in comune con gli altri bassi.
In collegio, Marcello ha conseguito la quinta elementare. Ora si arrangia, come tanti ragazzi po
veri della sua età, facendo i lavori più svariati: garzone di barbiere o di bar, raccoglitore di patate e d’altro in campagna, cantante di matrimoni… Sono questi gli anni della formazione musicale da autodidatta, a contatto col ricco tessuto culturale, contadino essenzialmente, che ancora sopravvive a Pomigliano d’Arco, che in quegli anni si è trasformato nel più grande polo industriale del meridione.
Nel 1975 è tra i fondatori del Gruppo Operaio “’E Zezi”. Animato da Angelo De Falco, il Gruppo è tra i primi a operare un recupero della tradizione musicale contadina in una chiave di forte consapevolezza politica e sociale.
Intanto Marcello partecipa alle dure lotte sociali di quel periodo, in particolare con i disoccupati organizzati. Consegue la licenza media, indispensabile per trovare un lavoro decente, e infine, nel 1980, a 25 anni, entra in fabbrica, all’Alenia, come operaio addetto alle pulizie. Vi resterà fino alla metà degli anni Novanta, pur continuando a lavorare e a tenere concerti con i Zezi.
Nel 1996, fonda il suo gruppo, “Marcello Colasurdo e Paranza”, con il quale produce un disco e tiene moltissimi concerti. Nel 2000, incide per l’etichetta inglese Real World Records di Peter Gabriel un CD, “Lost Souls” (“Aneme perze”), con il gruppo Spaccanapoli, con il quale continua a tenere concerti, soprattutto all’estero. Ha collaborato con tanti musicisti (Almamegretta, 99 Posse, Daniele Sepe, Nuova Compagnia di Canto Popolare, Maurizio Capone…), ha recitato in teatro (con Martone, Pressburger…) e al cinema (oltre che con Piscicelli, con Fellini – “Intervista” del 1987 - e poi con Capuano, De Bernardi, De Lillo). La ricchezza di questa esperienza fa sì che Marcello si trovi a suo agio in qualsiasi contesto: dai teatri tradizionali alle piazze di mezzo mondo, dalle feste popolari ai centri sociali, con artisti tradizionali e artisti d’avanguardia.


La tradizione musicale

La musica popolare, di cui Marcello è interprete principe, ha poco a che vedere con la pur straordinaria tradizione canzonettistica partenopea (anche se ne ingloba la parte più “paesana”). Essa è espressione diretta, e principale, della tradizionale cultura contadina dell’entroterra napoletano, legata al ciclo stagionale dei lavori e al calendario religioso, in particolar modo alle feste in onore delle varie Madonne Nere, eredi cristiane delle antiche divinità femminili della prosperità e dell’abbondanza. E’ una tradizione ricca di forme – canto libero (voce a fronne), canzone propriamente detta, rituali, tammurriate, fiabe cantate, vari tipi di danze, vere e proprie azioni teatrali (come la celebre “Canzone di Zeza”, che si recita a Carnevale con interpreti “en travesti”). Gli strumenti fondamentali sono la voce e la tammorra - il tradizionale tamburo che viene ancora costruito secondo le vecchie regole, spesso dagli stessi esecutori – cui si affiancano altri ingegnosi elementi percussivi (putipù, scetavajasse, ecc.) nonché, di volta in volta, chitarra, mandolino, fisarmonica, pifferi, ecc. E’ una musica dalla forte carica sensuale e partecipativa, che stimola immediatamente il movimento e la danza sfrenata; il che spiega il successo che sta ottenendo in questi anni presso il pubblico giovanile, che pure è così lontano dalle sue radici. In essa non è difficile avvertire echi arcaici, ma anche mediorientali e nordafricani. Negli ultimi decenni, questa musica, pur conservando il suo assetto tradizionale, è stata capace di contaminarsi con contenuti nuovi, legati alle lotte sociali e politiche, e di dialogare con altre forme musicali, come il jazz, il rock e il pop, in un movimento che riflette il processo sociale e culturale che sta alla base del suo recupero.

venerdì 13 marzo 2015

Dai curdi una lezione di democrazia dal basso

La vittoria delle Forze di autodifesa curde (YPG) sulle bande dell'ISIS a Kobane ha portato all'attenzione dei media occidentali la guerra di resistenza del popolo curdo nella regione di Rojava, nel nord della Siria, di fatto autonoma dal regime siriano da diversi anni. Stretta tra l'ISIS al sud e la Turchia al nord (che ha chiuso la frontiera determinando una situazione di embargo), la regione è governata da una coalizione di partiti tra i quali spicca come forza maggiore il Partito d'Unione Democratica (PYD), ala siriana del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK).

Ma in cosa consista questo governo è assai meno noto. Pur nel difficile contesto di una guerra, i curdi stanno provando a costruire un modello di democrazia dal basso fondato su assemblee autonome, in una strutturazione a piramide, dove conta il voto individuale indipendentemente dall'etnia, dalla religione o dal genere. Le decisioni relative all'economia, alla sicurezza, alla giustizia ecc. passano attraverso queste assemblee. Un modello politico-organizzativo dove, peraltro, le donne, che si sono distinte anche sul terreno militare, hanno un ruolo centrale.

Tutto comincia dalla svolta ideologica impressa dal leader indiscusso del PKK Abdullah Ocalan. Catturato nel 1999 a Nairobi, proveniente da Roma, fu condannato a morte; successivamente la pena fu commutata in ergastolo quando la Turchia, sotto la spinta dell'Europa, abolì la pena di morte. Il caso fece scalpore anche in Italia. Il governo D'Alema infatti si rifiutò di concedergli l'asilo politico, costringendolo a partire. Attualmente il leader del PKK è detenuto nell'isola-prigione di Imrali, nel Mar di Marmara.

Nell'isolamento carcerario, Ocalan ha messo in discussione le radici marxiste-leniniste della propria ideologia, sotto l'influsso in particolare delle teorie dell'anarchico americano Murray Bookchin, proponendo quello che definisce un "confederalismo democratico", dove la soluzione del problema curdo all'interno della Turchia si prospetta attraverso una democratizzazione dal basso della società, aperta a tutte le etnie con, in prospettiva, una rottura degli stessi confini statali in Medio Oriente, in gran parte artificiali.

Murray Bookchin è un anarchico americano, anche lui con giovanili radici marxiste. A partire dagli anni Cinquanta egli sviluppa una riflessione molto originale lungo due direttrici: l'ecologia sociale, per la quale i problemi ambientali hanno radice nella mancata soluzione dei problemi sociali all'interno del capitalismo; e il municipalismo libertario, con un tentativo di elaborare una teoria e una prassi di democrazia assembleare.

Una strana coppia quella di Ocalan e di Murray, l'ex guerrigliero marxista-leninista e l'anarchico ecologista e strenuamente libertario. Nel 2004 Ocalan fece contattare Murray dai suoi avvocati ma lui, già malato, non riuscì a incontrarlo. Morì due anni dopo. In diverse assemblee generali il PKK ha reso omaggio a Murray e al suo pensiero.

Insomma, sembrerebbe che i curdi abbiano intrapreso una strada volta a superare al tempo stesso il vecchio modello del socialismo statalista e autoritario e quello altrettanto vecchio della ormai corrotta democrazia rappresentativa. Una grande lezione per tutti.

mercoledì 4 marzo 2015

Inherent Vice

Era da molto tempo che non mi divertivo così tanto al cinema. Inherent Vice di Paul Thomas Anderson (Vizio di Forma in Italia) è pieno zeppo di trovate e di battute formidabili, puro piacere, come farsi un joint di buona erba e ridersela del mondo. Questa è la prima cosa da dire.

Come il romanzo di Thomas Pynchon da cui è tratto, il film è un omaggio ai noir di Hammet e Chandler. In quelle trame intricate e confuse (viene in mente il groviglio o garbuglio di Gadda) si rifletteva l'immagine di un'America complicata, contraddittoria, indecifrabile. Anderson espande ulteriormente questo modello e lo fa esplodere, sfruttando l'immaginazione dissacratoria di Pynchon. Ma dentro questo vortice prende forma una riflessione tagliente sulla politica e sulla storia, oltre che sul linguaggio.

Inherent Vice rievoca con sommo divertimento e gusto dei dettagli la controcultura hippy (e non solo) americana, californiana in specie, degli anni sessanta. Lo fa con una certa sacrosanta nostalgia ma anche interrogandosi, appunto, su quel vizio intrinseco che ne ha decretato lo stravolgimento becero prima, e il fallimento poi, di fronte alla controparte rappresentata dai potenti, dagli speculatori, dai razzisti, dai poliziotti eccetera.

Il fatto è che tra cultura dominante e controcultura viene a crearsi, da un certo momento in poi, più di un legame, più di una consonanza, le due parti cominciano a confondersi. Doc Sportello e il poliziotto "Bigfoot" si somigliano più di quanto siamo disposti ad ammettere, anche se noi, è ovvio, continuiamo a preferire Doc. Così la fricchettona Shasta si innamora di un palazzinaro, il cazzuto Bigfoot è messo in riga dalla moglie, lo strafatto Doc rinuncia a un bel gruzzolo per far sì che si ricomponga una famigliola felice e disintossicata; e così via. Le parti si rovesciano in continuazione, nulla è quel che sembra. E' la paranoia, paradigma dell'America. Ieri come oggi.

Questo ci racconta Il film, e il romanzo prima del film. Si credeva che il mondo potesse cambiare in meglio e invece succede il contrario. E' accaduto in America, è accaduto da noi. Il perché è difficile da spiegare, e comunque la risposta non può essere univoca.

Ma né Anderson né Pynchon ci invitano al catastrofismo. Le belle stagioni possono ritornare, ritornano, e in ogni caso occorre sempre provarci.