domenica 8 febbraio 2015

Il cecchino di Clint

Almost too dumb to criticize”, ha scritto Matt Taibbi su RollingStone a proposito di American Sniper di Clint Eastwood. Io, che non faccio più il critico da un pezzo, mi limiterò a dire che si tratta di un film mediocre, come purtroppo tutti i suoi ultimi. Le scene di guerra sono ripetitive e sanno di già visto; c'è di meglio nel genere, a cominciare da The Hurt Locker di Kathryn Bigelow. Quanto all'altro versante, quello privato, dei rapporti del cecchino con la moglie e il contesto familiare, siamo nella pura superficialità (malgrado la buona prestazione di Sienna Miller). Sul tema dei veterani di guerra e delle difficoltà del loro reinserimento il cinema americano ha prodotto opere di ben altro spessore, troppo numerose per citarle qui.

Per il resto il film dipinge una specie di santino del cecchino Chris Kyle, edulcorandone la biografia e facendone l'eroe di un'America dura e pura in lotta eterna contro il male, identificato con tutto ciò che appunto non è americano, e in particolare con gli odiati islamici. Un'operazione di uno sciovinismo bruto ed elementare, che manipola i dati storici, esaltatrice di un machismo diventato ormai stucchevole.

Tutto questo non sorprende. Eastwood è un uomo di destra e non l'ha mai nascosto, anzi l'ha spesso esibito con un certo gusto della provocazione, come quando disse pubblicamente a Michael Moore, tra il serio e il faceto, che lo avrebbe ammazzato se mai si fosse presentato alla sua porta con una telecamera o come quando, alla convention del partito repubblicano nel 2012, si esibì nel famoso monologo accanto alla poltrona vuota in rappresentanza di Obama. Che ci propini un film di rozza propaganda non è strano. (Del resto una parte consistente del cinema che viene dagli Stati Uniti è sempre stato e continua ad essere, in senso lato, una gigantesca macchina di propaganda dell'ideologia americana. Il che non ci ha impedito di amarne la parte migliore, compresi diversi film di Eastwood.)

Resta da capire il perché dell'enorme successo ottenuto dal film. Amy Nicholson sul Village Voice ne dà una spiegazione interessante. Tanti americani sono stati coinvolti, direttamente o indirettamente, nelle guerre recenti e sono alla ricerca di una risposta a una domanda alla quale è difficile rispondere: ne è valsa la pena? La risposta che il pubblico vuole – ha bisogno – di sentire è sì, perché questo allevia l'angoscia di fronte alla perdita o al turbamento causato alle ferite fisiche e psicologiche che il reduce si porta dietro.

Da quando, dopo l'11 settembre, l'America ha scatenato la cosiddetta guerra al terrore, la propaganda ci ha convinto che siamo nel mezzo di uno scontro di civiltà, con l'occidente cristiano, libero e democratico attaccato da coloro che odiano i nostri valori, islamici e non solo. Questa visione (che serve a nascondere la guerra vera, quella tra ricchi e poveri) va imposta con la paura (il che accade con regolarità, vedi il recente sfruttamento propagandistico dell'orrido attentato a Charlie Ebdo), e di fronte alla paura l'eroe porta sollievo, ci conferma in un'identità che, per quanto illusoria, dà conforto. Forse si spiega così il grande successo che il film ha avuto anche in Europa e in particolare in Italia (al momento in cui scrivo è il primo incasso con oltre 18 milioni di euro). Le colonie sono in sintonia con la capitale dell'impero.

sabato 7 febbraio 2015

Boyhood, la vita che scorre

Boyhood è certamente uno dei migliori film della stagione, pur non essendo un capolavoro assoluto, come pretende buona parte della critica americana (100% di score su Metacritic, 98% su Rotten Tomatoes). Intanto c'è da segnalare la singolarità della genesi. Richard Linklater lo ha girato in Texas nell'arco di dodici anni, dal 2002 al 2013, per qualche giorno ogni anno, filmando la crescita e le trasformazioni di un ragazzo, Mason Jr. (Ellar Coltrane), dai sei ai diciott'anni, fino all'ingresso al college, nel contesto di una famiglia come tante, con la sorella Samantha (Lorelei Linklater, figlia del regista) e i genitori separati (Patricia Arquette e Ethan Hawke). Il tempo, o meglio lo scorrere del tempo, è il tema centrale del film.

Dal punto di vista stilistico, l'approccio di Linklater è decisamente minimalista: nessuna stranezza, nessuna ricercatezza, nessuna voglia di originalità. La scrittura filmica scorre pacata, tutta al servizio dei personaggi e delle situazioni, privilegiando i campi medi e larghi. Altrettanto minimalista è l'approccio alla narrazione. Il film non ha un vero plot, si limita a inanellare episodi qualsiasi della vita di una ragazzo e della sua famiglia, senza punte drammatiche, se si eccettua l'episodio del secondo marito della madre diventato ubriacone e violento. Da questo punto di vista Boyhood è un film curiosamente anti-hollywoodiano, malgrado le numerose nomination all'Oscar. Ma dietro questo minimalismo si nasconde una grande ambizione: quella di rappresentare la vita così com'è.

Sappiamo che nessun film rappresenta davvero la realtà (il reale del cinema è il set). La realtà del film è di natura immaginaria. Tuttavia è proprio attraverso quel complesso meccanismo che si chiama effetto o impressione di realtà che lo spettatore aderisce e si immedesima in questa sostanza immaginaria, che allude al reale ma non lo è. Nel caso di Boyhood l'effetto di realtà è reso più potente proprio grazie al fatto che il tempo scorre realmente sui corpi degli attori: non ci sono trucchi. Da una sequenza all'altra, senza soluzione di continuità, percepiamo i cambiamenti, che tuttavia, essendo lenti, non ci appaiono clamorosi ma naturali. Come non credere che questa è la vita vera, tanto più che somiglia a milioni di altre vite? E all'obiezione (legittima, la sottoscrivo) che qua e là ci sono nel film zone noiose e anche banali, la risposta è: non è così, noiosa e banale, fin troppo spesso, anche la vita vera?

C'è nel film, ed è questa la sottile emozione che ci trasmette, la malinconia del tempo che passa, della vita che ci scorre tra le dita quasi senza che ce accorgiamo. Tutti dicono che bisogna cogliere l'attimo, io credo che è l'attimo a cogliere noi, dice una ragazza nell'inquadratura finale. Malinconia che può diventare angoscia, come quando la madre (una bravissima Patricia Arquette), di fronte al figlio che lascia la casa definitivamente, scoppia in lacrime e confessa il suo disagio: dopo tutta una vita fatta di figli matrimoni divorzi, cosa resta? Il mio funerale, cazzo! Credevo ci fosse qualcos'altro. - Ma c'è nel film anche la consapevolezza che vale comunque la pena di viverla, la vita, e il modo migliore è stare nel presente, mentre si fa. Così, prima della dissolvenza finale, Mason Jr. risponde alla ragazza: hai ragione, il momento è come se fosse sempre adesso, no? E intanto, negli sguardi e nei sorrisi appena un po' imbarazzati dei due ragazzi, leggiamo che qualcosa sta per nascere, forse un nuovo amore: è la vita che si impone nel tempo presente.


venerdì 6 febbraio 2015

"Il corpo dell'anima" alla sala Trevi



Il 14 febbraio, alle ore 21, alla sala Trevi, vicolo del Puttarello 25 (vicino alla fontana di Trevi), nel quadro dei tradizionali appuntamenti di "cinema e psicoanalisi" organizzati dalla Cineteca Nazionale e dalla Società Psicoanalitica Italiana, si terrà un incontro con Salvatore Piscicelli sul tema della precarietà in amore con la partecipazione degli analisti Fabio Castriota e Carla Dugo Visco. Seguirà la proiezione del film Il corpo dell'anima. L'incontro sarà preceduto dalla proiezione dei film Comizi d'amore di Pier Paolo Pasolini (ore 17) e Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci (ore 18.45). L'ingresso è gratuito per tutti gli eventi.