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giovedì 4 aprile 2024

Dal "Ma" al "Mu". Le inquadrature “still-life” o “a vuoto” nel cinema di Yasujiro Ozu

                                                

                                                          “La forma è vuoto, il vuoto è forma.”
                                                                          Sutra del Cuore
 

Uno dei tratti caratteristici della scrittura cinematografica di Yasujiro Ozu (1903-1963) – uno dei grandi del cinema giapponese e del cinema mondiale in generale  – è costituito dall’uso assai frequente di inquadrature "still-life" o “a vuoto”, nel senso che escludono quasi sempre la presenza umana (e quando ci sono figure umane – bambini che vanno a scuola, persone che vanno al lavoro – fanno parte per così dire del paesaggio), di cui proporrò la definizione di “inquadrature ma”. Si tratta di scorci di interni, case uffici bar, o di esterni, con elementi tipici della città, strade ciminiere treni stazioni, ovvero di paesaggi naturali, di campagna o di mare. A volte, con grande suggestione, sono semplici oggetti, una lampada un vaso un cuscino; a volte costituiscono la “coda” di un’inquadratura. Sono presenti di solito all’inizio e/o alla fine di una scena, spesso anche all’interno della scena, e quasi sempre aprono e chiudono l’intero film. Capire la valenza di questo elemento dello stile di Ozu può essere la chiave per comprendere e penetrare più a fondo nel cinema, così suggestivo e singolare, di questo grande cineasta.

Inquadrature simili, in quanto piani di transizione o inserti, sono presenti in moltissimi film, sia orientali che occidentali, ma il caso di Ozu ha una doppia singolarità: da un lato la ricorrenza massiccia e sistematica di queste inquadrature, dall’altro l’ampia gamma di funzioni che assolvono all’interno di una scena e nell’intero film.  Questo ci obbliga a pensare a un uso strutturale di questo elemento in quella che potremmo definire con Donald Richie la “sintassi” del suo cinema (Richie, 1963). Inoltre, come vedremo più avanti, queste inquadrature, al di là della loro evidenza filmica, aprono a uno spazio e a un tempo “altro”, che ha a che fare con la sfera filosofica e culturale.

Singolare, in ogni caso, è la “sintassi” del cinema di Ozu, o se volete il suo stile o la sua scrittura. Quando gira il suo primo film, nel 1927, e per tutto il periodo muto, Ozu esplora vari generi ed è fortemente influenzato, anche sul piano tecnico, dal cinema occidentale, da quello americano in particolare. Successivamente, grosso modo a partire dalla metà degli anni Trenta, comincia a definire un suo stile personale di ripresa che affina e depura sempre di più e che trova il suo culmine probabilmente in Tarda primavera (Banshun, 1949), per dispiegarsi poi nella dozzina di film che realizza fino al 1962. Secondo il critico Noel Burch (Burch, 1979), il punto più alto del cinema di Ozu, e dunque del suo stile, va collocato tra il 1934 e il 1942, con film quali Storia di erbe fluttuanti (Ukikusa monogatari, 1934), Una locanda di Tokyo (Tōkyō no yado, 1935), Figlio unico (Hitori musuko, 1936, suo primo film sonoro), Fratelli e sorelle della famiglia Toda (Toda-ke no kyōdai, 1941), C’era un padre (Chichi Ariki, 1942). Secondo altri critici, il culmine va collocato più avanti, in alcuni film del dopoguerra quali ad esempio Tarda primavera (Banshun, 1949), Viaggio a Tokyo (Tokyo monogatari, 1953), Erbe fluttuanti (Ukigusa, 1959), Tardo autunno (Akibiyori, 1960), L'autunno della famiglia Kohayagawa (Kohayagawa-ke no aki, 1961). Ma al di là dei giudizi critici, che si possono condividere o meno, ciò che accomuna tutti questi film è appunto lo stile maturo del regista, sempre più depurato, sempre più, per così dire, ascetico.

Intanto Ozu riduce le tematiche dei suoi film sostanzialmente a una sola, la famiglia e i rapporti all’interno di essa, in particolare tra genitori e figli, spesso conflittuali, nel quadro delle trasformazioni che intervengono nella società giapponese dopo la sconfitta nella seconda guerra mondiale. Anche il plot narrativo si riduce al minimo, quasi un semplice pretesto in funzione di quello che lo interessa di più, rivelare il carattere dei personaggi (Richie, 1963). Da qui anche il ricorso, spesso spericolato, alle ellissi, che contribuiscono alla contrazione del plot. D’altra parte emerge con più forza l’influenza della cultura tradizionale giapponese, soprattutto negli aspetti formali, a partire dal Buddismo Zen (su questo ci soffermeremo più avanti). Ma è sul piano della tecnica cinematografica che lo stile maturo si manifesta con più evidenza. Le inquadrature sono statiche e frontali, i movimenti di macchina sono quasi del tutto aboliti, abolita è la punteggiatura con i vari tipi di dissolvenze, resta il semplice taglio; il punto di vista della macchina da presa è posto in basso, all’altezza dell’occhio di una persona seduta sul pavimento (ma spesso più in basso). Questo comporta una sorta di appiattimento dell’immagine, una riduzione della profondità verso la bidimensionalità, che l’avvicina alla pittura tradizionale. Quasi a contrasto, lo spazio del set è sfruttato a 360 gradi. Ozu si rifiuta di sottostare al divieto di scavalcare l’asse (che consente la corretta direzione degli sguardi tra gli attori), tipica del cinema occidentale, cosicché è come se gli attori si rivolgessero alla macchina da presa e lo spettatore si ritrovasse al centro dello spazio, con un effetto straniante. Ancora, le inquadrature usate sono quelle primarie: campo largo, campo medio, mezza figura, primo piano, mai primissimo piano. Il montaggio le unisce secondo un principio di circolarità, principio che governa anche il film nel suo insieme. Qui quello che conta è il ritmo, in termini musicali, il tempo.

Queste scelte hanno come conseguenza una decisa formalizzazione del testo filmico, che si può immaginare come uno spazio artificiale, costruito con perizia da artigiano (Richie, 1963), dentro cui si muovono però personaggi che rappresentano esseri umani con i loro sentimenti. Ma qui occorre precisare. La lingua giapponese, come molte altre, distingue tra animato (umano e/o animale) e inanimato e si dà il caso che i personaggi romanzeschi o comunque di finzione hanno la marca dell’inanimato (Barthes, 1970). Mentre tutta la nostra arte si sforza di conferire "vita" e "realtà" ai personaggi della finzione, l’arte giapponese, sottolinea Barthes, gli sottrae per statuto l'alibi referenziale per eccellenza: quello della cosa viva. Questo spiegherebbe, nel nostro caso, il carattere di superficie dei personaggi di Ozu, anche una loro certa ieraticità. Come dice Tadao Sato, i personaggi di Ozu si comportano sempre come se stessero in pubblico e quindi osservati, e la ripresa dal basso e frontale conferisce ad essi, come a tutto il profilmico, “una qualità cerimoniale” (cit. in Burch, 1979). E tuttavia, come sappiamo, nei film di Ozu c’è una forte carica di emozioni e di sentimenti, questi personaggi ci commuovono. Come può accadere? Il fatto è che l’autentica espressione di sentimenti ed emozioni avviene per via indiretta, nel non detto, nell’allusione, quando si apre uno spazio e un tempo in cui si verifica una sorta di diluizione e di sospensione del senso. Ed è qui che le inquadrature “a vuoto” svolgono la loro funzione fondamentale, come vedremo. Del resto, più in generale, è proprio l’opposizione tra pienezza del senso e sospensione del senso a marcare la dicotomia di base tra cultura occidentale e cultura giapponese. Nei film di Ozu non manca certo l’esposizione del senso. Conflitti e svolte narrative sono rese esplicite quasi sempre nei dialoghi, così accurati (e si sa quanta importanza attribuiva Ozu alle sceneggiature, elaborate a lungo e in reclusione col fedele Kogo Noda, che restavano sostanzialmente immutate durante le riprese, diversamente da Mizoguchi, che le faceva riscrivere per intero sul set, con disappunto degli attori), mentre l’espressione delle emozioni ha luogo nella sfera dell’implicito.

Le inquadrature “a vuoto” sono state definite in vario modo dai critici: inquadrature di raccordo, inquadrature “still-life”, inquadrature tendina (“curtain shots”, Naubu Keinosuke), inquadrature cuscino (“pillow shots”). Quest’ultima è di Noel Burch (Burch, 1979), elaborata in analogia a “pillow words” (makura kotoba), un dispositivo tipico della poesia waka classica, parole o frasi associate ad altre parole o frasi a creare legami per associazione di significati e di suoni. L’analogia è suggestiva ma non del tutto adeguata. Io mi permetto di proporre la definizione di “inquadrature ma”, o “piani ma” (“ma shots”). Non per il gusto di introdurre un’ulteriore, quanto inutile, variante, ma piuttosto perché la nozione di ma è la più indicata a spiegare la funzione di questo tipo di inquadrature, restando strettamente all’interno della cultura giapponese.                                                     

Ideograma MA

Ma si può tradurre alla lettera come intervallo, spazio, pausa. Fa riferimento alla nozione di “spazio negativo” applicabile alle arti tradizionali giapponesi, dove lo spazio vuoto ha la stessa rilevanza delle altre parti. In architettura è lo spazio vuoto tra due elementi strutturali. Nelle arti marziali indica la distanza di sicurezza tra i due contendenti, nell’ikebana lo spazio intorno ai fiori, che ha la stessa importanza dei fiori stessi. Nella pittura è lo spazio bianco sul foglio a dare rilevanza agli oggetti ritratti. E così via. Una definizione più generale del ma è la seguente: il senso giapponese del luogo, di solito considerato come avente una componente sia temporale che spaziale. Il ma infatti informa tutta la vita dei giapponesi, dal rapporto con gli spazi, ad esempio la casa, al rapporto tra le persone, ed è presente in molte frasi idiomatiche, sia indicanti luoghi (ad esempio Cha no ma, la stanza del tè, o Madori, la disposizione delle stanze nella casa) che eventi temporali (ad esempio Maniau, fare in tempo o venire incontro al tempo, Mamonaku, non c’è tempo, presto, subito).

Da questo succinto excursus (che chiunque può approfondire con una semplice ricerca sul web) si comprende come la nozione di ma sia la più adeguata a descrivere le inquadrature “a vuoto”, e l’uso che ne fa Ozu, in quanto mette in luce la loro doppia valenza, spaziale e temporale, e àncora il suo cinema all’interno delle arti tradizionali giapponesi.

Le “inquadrature ma” (IM) svolgono, come si diceva, molte funzioni, anche in rapporto alla diegesi. Possono indicare lo spazio geografico entro cui avrà luogo la narrazione; possono anticipare l’ambiente in cui si svolgerà una scena; possono avere una valenza metaforica o simbolica. Si prestano quindi a letture multiple. Ma in ogni caso la funzione più generale, la più importante, è quella di sospendere il flusso diegetico. La momentanea messa in parentesi della diegesi con l’esclusione della presenza umana implica una visione del mondo non antropocentrica, che è l’opposto della visione occidentale. E’ come se Ozu volesse ricordarci che ogni vicenda umana non può essere compresa se la separiamo dal contesto della natura, del mondo delle cose: da esso prende le mosse e ad esso ritorna, in un processo di costante mutamento, che è la legge universale dell’impermanenza. Così spesso l’inizio di un film ci presenta una più o meno graduale transizione dal mondo inanimato alla sfera vivente della diegesi.

Prendiamo l’inizio di Erbe fluttuanti. Sono quattro IM per un totale di poco più di un minuto e mezzo:
- il faro con l’imbocco del porto e una bottiglia in primo piano
- il faro inquadrato tra barche tirate in secca
- ancora il faro tra baracche di pescatori e una barca che esce dal porto
- l’imbocco del porto con il faro sullo sfondo e a destra lo scorcio di una costruzione con una cassetta della posta                                                                                                             



Segue un interno dove un gruppo di persone discutono dell’imminente arrivo di una compagnia di teatro. Inizia la diegesi. Dopo questa scena torna una IM simile alla prima, ancora con l’imbocco del porto, il faro e in primo piano un palo (sempre elementi verticali). Di seguito siamo sulla barca che conduce la compagnia alla cittadina costiera.

Le quattro IM dell’inizio possono essere lette a vari livelli. Intanto segnalano la collocazione geografica della storia, una cittadina di mare: una funzione legata alla diegesi. Inoltre, il porto col faro è luogo di partenze e di arrivi, con connotazioni nostalgiche. Tutto il film è all’insegna della nostalgia (è un remake di un altro film di Ozu del 1934). L’intera sequenza è fortemente stilizzata, con l’insistenza sul faro e sugli elementi verticali, e preannuncia la stilizzazione geometrica che governa la struttura narrativa del film (Tomasi, 2009). Le IM possono essere lette anche in chiave pittorica, il cinema di Ozu è pieno di inquadrature magnificamente composte, che si possono godere in quanto tali. Infine, questa lunga sospensione (un minuto e mezzo è un tempo lungo al cinema) a inizio film, col suo carattere contemplativo, è come una lunga presa di respiro volta a svuotare la mente prima di inoltrarci nel film.

Esaminiamo brevemente un paio di finali di film.

L'autunno della famiglia Kohayagawa termina con il funerale del capofamiglia Manbei. Tutta la sequenza è strutturata intorno all’immagine della ciminiera che fuma dell’impianto di cremazione, inquadrata in campo lungo e in campo più stretto. L’immagine ricorre per ben sei volte. Sono inquadrature legate alla diegesi in quanto soggettive dei membri della famiglia. All’interno della sequenza c’è un breve intermezzo, con due figure estranee alla trama (l’uomo è Chishu Ryu, un cameo) che sciacquano uno straccio sulla sponda del fiume e osservano la ciminiera: “Sarebbe triste se fosse un giovane”, dice la donna, “Ma nuove vite sostituiranno quelli che muoiono”, ribatte l’uomo, “Come è saggia la natura”, conclude la donna. E’ un commento che traduce il facile simbolismo della ciminiera nei termini di una saggezza ovvia nella sua semplicità. Infine, dopo un’altra inquadratura della famiglia che sfila sul ponte verso il cimitero, Ozu introduce uno scarto conclusivo. Tre IM per un totale di poco più di venti secondi:
- quattro corvi sulla sponda del fiume
- un campo più largo con cinque corvi sempre sulla sponda del fiume
- due corvi appollaiati su delle stele scolpite che gracchiano                                                      

                                                           
                                                           
                                                            

In prima lettura, l’apparire di questi corvi con il loro aspro gracchiare risulta alquanto disturbante e rompe il quieto svolgimento della sequenza precedente. In secondo luogo, il nero corvo, come la ciminiera, può essere associato anch’esso alla morte (nella cultura occidentale è così) ma nella mitologia giapponese è un messaggero divino e nel folklore esso è considerato simbolo, tra l’altro, di buona fortuna e di reincarnazione. In questo modo il mortifero simbolismo della ciminiera viene superato in una prospettiva più ampia e direi più vitale. Cosicché le tre IM si possono considerare come una sorta di correlativo oggettivo dei commenti di semplice saggezza della coppia sul fiume.

Figlio unico è forse il più cupo e desolato dei film di Ozu e uno dei suoi primi capolavori. E’ la storia di una vedova che compie duri sacrifici per mantenere agli studi il figlio, ma quando, dopo tredici anni di lontananza, va a trovarlo a Tokyo, scopre che è sposato con un bambino e vive praticamente in miseria in una desolata periferia. Cocente è la delusione per i sacrifici inutili, appena mitigata dal constatare il carattere generoso del figlio. Tornata in campagna e al duro lavoro, la donna mente all’amica dicendo che ha passato giorni indimenticabili a Tokyo. Segue il finale. La donna si aggira con un secchio nello squallido cortile dell’opificio dove lavora e dorme. Depone il secchio, va a sedersi. Sono cinque inquadrature, ora larghe ora strette, che si concludono con una mezza figura di lei che infine china la testa, triste e stanca. Seguono tre IM conclusive per un totale di circa venticinque secondi:
- uno scorcio del cortile con sul fondo la palizzata che va a chiuderlo
- piano ravvicinato in asse della precedente, stretta sul cancello chiuso
- una palizzata più massiccia, vista dall’esterno, d’infilata, che occupa quasi l’intero fotogramma

                                                          
                                                           
                                                            

Sono immagini non “belle”, occlusive, oppressive, immagini di chiusura. Quelle palizzate delimitano lo spazio dell’opificio dove la donna lavora e dorme e lo definiscono come una prigione. Sono la proiezione mentale della condizione di chiusura in cui è presa la donna. Un’intera vita prigioniera, spesa inutilmente. L’oppressione è totale. Ma su un altro piano di lettura, quelle palizzate ci appaiono come i muri che cerchiamo vanamente di abbattere per uscire dai limiti delle nostre vite; ma sono anche il muro contro il quale dovremmo sederci a meditare per realizzare quel vuoto che ci apre all’accettazione totale della vita com’è. Nel Soto Zen la meditazione si pratica contro il muro; del resto in Cina il primo Patriarca, Bodhidharma, capostipite dello Zen, meditò contro il muro per nove anni.

Esaminiamo ora il funzionamento di una IM all’interno di una scena, con un esempio tratto da Tarda primavera, storia di un padre vedovo che per spingere la figlia a sposarsi fa finta di volersi risposare a sua volta. Siamo verso la fine del film. Somiya e Noriko, padre e figlia, fanno un ultimo viaggio insieme a Kyoto, prima del matrimonio di lei, ormai deciso. Ma noi sappiamo che Noriko ha molti dubbi, il suo più profondo desiderio sarebbe di rimanere accanto al padre. Nel ryokan dove alloggiano, i due si accingono a dormire. Noriko si rammarica di aver definito immorale il matrimonio dell’amico del padre Onodera con una donna più giovane e dice di aver pensato la stessa cosa a proposito del presunto matrimonio del padre. Ma Somiya non sembra ascoltare quest’ultima battuta. L’improvviso addormentarsi del padre forse le impedisce di esprimere verbalmente i dubbi sul proprio matrimonio (lo farà la mattina prima della partenza e il conflitto, e l’inevitabile adeguarsi di Noriko, verrà fuori in modo esplicito), ma la carica emotiva che vi è sottesa emerge in una breve successione di inquadrature:
- primo piano di Noriko, testa sul cuscino, che si volta a guardare il padre
- primo piano del padre che dorme
- primo piano di Noriko che distoglie lo sguardo dal padre, ancora con un sorriso sulle labbra
- IM, un angolo della stanza nel semibuio con sullo sfondo ombre di rami dietro gli shoji illuminati e al centro esatto del fotogramma, un vaso
- primo piano di Noriko, il sorriso è scomparso, muove la testa, è pensierosa, inquieta, c’è quasi un preludio di lacrime
- IM, la stessa di prima ripetuta per una decina di secondi, poi stacco su un’altra scena                                                       
                                                              
                                                         
                                                          

Queste due IM sono tra le più iconiche del cinema di Ozu, discusse da molti critici. Escludiamo subito che si tratti di soggettive di Noriko, nulla ce lo fa pensare. Dal punto di vista della grammatica cinematografica occidentale, risultano quindi del tutto incongrue. In quanto a una possibile interpretazione, non mi pare accettabile quella “spiritualista” di Paul Schrader, che scrive: “Il vaso è stasi, una forma che può accogliere emozioni profonde e contraddittorie e trasformarle in espressione di qualcosa di unificato, permanente, trascendente.” (Schrader, 1972) In Ozu tutto è ordinario, quotidiano, non c’è trascendenza, nel senso occidentale del termine. Io credo che in prima istanza le due IM, in particolare la prima, vanno intese nella loro valenza temporale, sia dal punto di vista narrativo (il tempo che consente a Noriko il mutare delle emozioni), sia più in generale come tempo astratto. Scrive Deleuze: “Il vaso di Tarda primavera si inserisce fra il sorriso a fior di labbra della figlia e le sue lacrime nascenti. Vi è divenire, cambiamento, passaggio. Ma la forma di ciò che cambia, non cambia, non passa. È il tempo, il tempo in persona, «un frammento di tempo allo stato puro»: un’immagine-tempo diretta, che dà a ciò che cambia la forma immutabile nella quale si produce il cambiamento.” (Deleuze, 1985) E qui ci accostiamo al punto.

Si è detto che le IM sospendono il flusso della diegesi, in una prospettiva non antropocentrica. L’effetto che Ozu vuole ottenere è simile a quello che induce nell’allievo il Maestro Zen quando gli assegna un koan, che è una specie di indovinello non comprensibile in termini razionali (è una pratica tipica della scuola Rinzai Zen). Masticandolo, per così dire, in lunghe sedute meditative, l’allievo perviene a una sorta di smarrimento, nella sua mente si crea un vuoto, cosicché a un certo momento, attraverso un lampo intuitivo, può cogliere infine la realtà così com’è, al di là delle pastoie intellettuali, di tutte le convenzioni. Satori, la nomina il Buddismo Zen, questa illuminazione improvvisa dove il dualismo di soggetto e oggetto si annulla nell’intuizione unitaria della realtà. Essenziale dunque è la nozione di vuoto, Mu (dal cinese Wu) nel Buddismo Zen. Mu significa letteralmente: no, senza, nulla. E’ il vuoto da cui nasce tutto, il vuoto primigenio produttivo. E’ la condizione mentale che apre all’intuizione della realtà, all’accettazione.                                                          

Ideogramma MU

Torniamo al vaso di Tarda primavera. Ozu vuole indurre nello spettatore un momento contemplativo, con i limitati mezzi del cinema, una pausa, una sospensione che gli consenta di aderire al sottotesto delle emozioni, delle vibrazioni dei sentimenti, e lo fa creando appunto dei vuoti nella diegesi, dei momenti Ma che ci fanno accedere al Mu. Questa valenza contemplativa soggiace a tutte le IM di tutti i film, quale che sia la loro funzione accessoria. Ed è tanto più vero nel caso di Tarda primavera, che è il suo film più pregno di riferimenti al Buddismo Zen e alle arti giapponesi ad esso legate, dalla cerimonia del tè al teatro Noh.

Che l’interpretazione in termini di Mu delle due IM di Tarda primavera sia la più vicina alle intenzioni di Ozu lo dimostrano due fatti. Il primo è che non a caso il vaso – dove quello che conta non è l’argilla di cui è fatto ma il recipiente, il vuoto che si crea all’interno – è una delle metafore più ricorrenti nella letteratura buddista per spiegare la nozione di vuoto. Il secondo è che la IM del vaso, dopo il cut, è seguito da due inquadrature, una più larga e una più stretta, di un giardino Zen. I cosiddetti giardini Zen (che i giapponesi chiamano karesansui, “natura secca”) sono presenti in molti templi di questa scuola e si ispirano anch’essi alla nozione di vuoto, di Mu.

Io sono convinto che Ozu operi su questa materia in piena consapevolezza. Ignoro se fosse un adepto, ma la sua conoscenza del Buddismo Zen è nota. Egli sa anche che trasporre elementi alti di questa grande scuola di filosofia nelle forme del cinema comporta grandi limiti, che sono quelli propri del mezzo, i cui prodotti si fruiscono in condizioni sostanzialmente effimere. Non per caso egli vi inserisce qua e là qualche nota ironica. Vedi proprio l’inizio di Tarda primavera, dove Noriko e la zia, in attesa dell’inizio della cerimonia del tè, in quella che dovrebbe essere un’atmosfera di raccoglimento, discutono prosaicamente dell’adattamento a un bambino di un pantalone e della necessità di metterci le pezze al culo. La dimensione ironica, giocosa, comica è molto presente nei film di Ozu del periodo muto, ma non manca spesso anche nelle opere della fase più matura e austera del suo cinema.

Quanto al Mu, è superfluo ricordare che sulla stele tombale  di Ozu, a Kamakura, nel recinto dell’Engaku-ji, un tempio Zen, non è inciso il suo nome bensì appunto l’ideogramma del Mu.

Libri e saggi citati
- Donald Richie, Yasujiro Ozu: The Syntax of His Films, Film Quarterly, 1963
- Noel Burch, To the Distant Observer, University of California Press, 1979
- Roland Barthes, L’Empire des signes, Éditions du Seuil, 1970
- Dario Tomasi, Ozu Yasujiro, Il castoro cinema, La nuova Italia, 2009
- Paul Schrader, Trascendental Style in Film, University of California Press, 2018 (prima ed. 1972)
- Gilles Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, Einaudi, 2017 (ed. originale 1985)


domenica 31 gennaio 2016

Ricordando Jacques Rivette


"Le cinéaste le plus libre qui soit", così lo ha definito Bulle Ogier, una delle sue attrici preferite, in una dichiarazione per Liberation. E Pascal Bonitzer, suo abituale co-sceneggiatore, ha replicato su Le Monde: "Pour ce balzacien, les films étaient constitués comme des complots contre la façon dominante de faire des films." Entrambi i giudizi sono da condividere in pieno.

Per ricordare questo grande cineasta, oggi purtroppo sconosciuto ai più, ripubblico qui la parte centrale di un articolo che scrissi in occasione dell'uscita di uno dei suoi film più belli.


Céline et Julie vont en bateau
(da "Cinema Sessanta", n.99, 1974)

L'inizio dunque ci ricorda Alice. Céline lascia cadere qualche oggetto davanti a Julie e la trascina in un mondo di avventure. Così, fin dalle prime inquadrature, attraverso questa citazione carrolliana, lo spettatore è avvertito: che si tratta di un viaggio al di là dello specchio e dentro il linguaggio, e anche che questo viaggio ha a che fare con la dimensione infantile, per quello che di inquietante comporta questo aggettivo. Assistiamo dunque al dispiegarsi di queste avventure , di questo racconto di avventure destituito di motivazioni, il cui motore, sulle prime, è semplicemenete un incontro casuale in uno “square” parigino. Riconosciamo ben presto in ciò la configurazione moderna del lavoro sul racconto (di cui Rivette è, del resto, un pontefice riconosciuto) e ci accorgiamo che anche la citazione carrolliana vale, “d'entrée”, come citazione critica; se è vero, come sostiene Gilles Deleuze (in Logique du sens), che Carroll è colui che ha scoperto la superficie, colui che inaugura, nella nostra modernità, la critica della profondità e che istituisce una pratica del racconto risolta nell'esplorazione delle contiguità della messa in serie. Questa indicazione critica è verificata più oltre dalla struttura propria del film. Le ultime inquadrature ci ripresentano, ad esempio, le circostanze iniziali del racconto, ma a personaggi invertiti; e noi siamo autorizzati a pensare la forma del film come una sorta di  striscia di Moebius. E' la carrolliana borsa di Fortunatus, dove la superficie esterna è in continuità con la superficie interna: “essa racchiude il mondo intero, e fa che ciò che è dentro sia fuori, e ciò che è fuori sia dentro” (Deleuze). Critica della profondità, che è critica dell'opera come depositaria di un senso nascosto da far emergere. Critica dell'ermeneutica. Coerentemente, Rivette mette qui in questione la fascinazione del labirinto (vedi Adriano Aprà, Geografia del labirinto), risolvendolo nel dispiegamento in superficie.

Céline et Julie vont en bateau ingloba, entro la sua struttura “superficiale”, un enorme meccanismo ripetitivo. Due serie di avvenimenti, per lo meno, vi si trovano presi: quelli che hanno luogo dentro e quelli che hanno luogo fuori della “casa”. Se la prima parte del film è all'insegna, come si è detto, di un incontro casuale, la seconda parte si svolge rigorosamente nell'alternanza delle due serie di avvenimenti. Il passaggio dall'una all'altra serie è assicurato da un oggetto allucinogeno. I bonbon o l'intruglio magico. Oggetti derisori e parodici che nel loro “grado zero” manifestano comunque la supremazia del significante nella manovra della catena narrativa. Ma si avrebbe torto a considerare questo movimento come una illustrazione del “defilé” simbolico. Esso in realtà funziona più semplicemente come un gioco, la cui posta è occultata ai soggetti che vi partecipano. Una sorta insomma di analisi spontaneistica e selvaggia, rischiata “al buio”. Lanciando i dadi (succhiando i bonbon), Céline e Julie sono prese nel ritorno del loro rimosso di attrici.

Dal punto di vista della struttura del film, le sequenze della “casa” (che fanno riferimento a un racconto di Henry James), come la citazione carrolliana dell'inizio, hanno un valore metalinguistico. Ci informano che il problema è quello della rappresentazione cinematografica e che il film è giocato da attrici. Più specificamente, la scena della “casa” è una scena divisa. Se il rimosso ritorna con insistenza, è per essere frazionato, rotto, fatto esplodere: e proprio nella sua ossessiva ripetitività. Ciò che governa il suo ritorno è del resto una insistenza di intensità superiore: la transitiva positività del desiderio che dissolve i fantasmi e reinveste nel corpo, nel linguaggio ciò che è sublimato nella rappresentazione. Distruggendo la “casa”, Céline e Julie non solo si emancipano dal loro “passato”, ma rompono la barriera che separa l'al di qua e l'al di là dello specchio; mettendo quindi in crisi la loro stessa identità di soggetti pieni, depositari di un'eredità.

Possiamo interpretare il movimento ripetitivo del film anche come un processo di regressione. Regressione temporale, per via allucinogena, a modelli di rappresentazione (modelli di “jeu”) passati; regressione formale a modi di espressione cosiddetti infantili. Il paradosso (apparente) è che la seconda offre i mezzi per mettere in crisi la prima. Ciò che emerge dunque è la forza del desiderio, linfa vitale che scompagina i modi calcolati e predisposti della rappresentazione  (di cui del resto è all'origine). E' la struttura stessa del film – così come prospettata sommariamente più sopra – ad esserne investita.

E del resto, come scrive ancora Deleuze, “niente di più fragile della superficie”. E' una forza senza fondo che, emergendo, la buca e la fa precipitare. E' l'ordine primario che la vince sull'ordine secondario (formale) in cui si è costituito il film. Forza dunque del desiderio, delle pulsioni, della materia (e della storia). Come intendere altrimenti il senso di quel riso folle e insensato, di cui ci fanno partecipi Céline e Julie, di quella incredibile proliferazione di linguaggio paragrammatico, di quella gestualità insistente e decentrata, insomma di quella “performance” globale e invadente di cui si fanno agenti le due ragazze, occupando tutti gli interstizi e i vuoti della struttura e facendola alla lunga scoppiare? La superficie è bucata, la struttura scoppiata; e beninteso questo è un effetto extra-testuale. Poiché la forza, nel testo, travaglia la superficie e la struttura e vi insinua la differenza, lo spostamento delle linee, il movimento. Ciò che ne viene sconvolto è l'euritmia, la disposizione geometrica. Non si dà emergenza dello slancio senza vincoli e senza limiti, emergenza del desiderio assolutamente transitivo. La forza non può rendersi manifesta che attraverso la struttura; ma appunto, manifestandosi, la fa precipitare. E' questo lo spazio – contraddittorio – di ogni pratica significante, che il film individua con esattezza.

Tale spazio, lo si vede bene, ingloba la dialettica progetto-alea, predisposizione-improvvisazione (che, per lo meno a partire da L'amour fou, occupa un ruolo importante nel lavoro di Rivette); dialettica che trova qui, ci sembra, il suo superamento. La nozione di alea, o anche di “improvvisazione”, è fondamentale, com'è noto, nel cinema moderno (vedi Noël Burch, Praxis du cinema). Essa segnala, da parte dell'autore, la presa in considerazione, a differenti livelli, della refrattarietà del materiale del cinema. E' un'esigenza questa che nasce, come ha mostrato Burch, dall'interno stesso della specificità cinematografica, perché il cinema, a differenza ad esempio della musica,  ha a che fare con la complessità dell'esistente visibile. Ora è proprio in questa prospettiva che il lavoro sull'alea mostra chiaramente i suoi limiti. Esso sembra far capo a un astuzia dell'autore per riuscire a inglobare quanto una pratica cinematografica di grado zero era costretta ad espellere. Ciò che significa, malgrado tutto, un rilancio della funzione demiurgica dell'autore, che si riappropria del materiale così catturato al momento del montaggio. In Céline et Julie vont en bateau la funzione del montaggio (inteso in questo senso) è ancora importante,  ma esso regola per così dire uno solo dei livelli del film, quello della strutturazione formale che mai come in questo film si organizza, come si è visto, intorno a una figura “arbitraria”. Questo livello entra il lotta, potremmo dire, con gli altri livelli del film; meglio: si dà soltanto per consentire all'altro che lavora il film di manifestarsi nel suo potere dirompente. In questo modo l'autore si spossessa come soggetto pieno  dell'enunciazione e si apparta. Egli è colui che privandosi della parola consente alla scrittura di addivenire. Nel fatto che di questa scrittura si facciano carico, principalmente, due nomi e due corpi femminili, lo spettatore non vi leggerà un caso.