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giovedì 2 novembre 2023

Note per una rilettura di “Viaggio in Italia” (1954) di Roberto Rossellini

1. Rivedere i classici - i film della tua vita, come spettatore e come cineasta – spesso offre l’occasione di nuove riletture, o almeno lo stimolo a uno scarto nel dare nuovo senso al testo, al di là del piacere immediato della visione. E’ quanto mi è accaduto recentemente con Viaggio in Italia, uno dei film a cui, da rosselliniano militante, sono più legato; anche per l’ambientazione tutta napoletana: luoghi e atmosfere che conosco bene e che amo.

(Ricorderò, en passant, che solo due volte nei miei film ho inserito citazioni di altri film en hommage. E la prima riguarda appunto Viaggio in Italia: nel mio secondo film, Le occasioni di Rosa, la visita di Rosa e del suo amico alla solfatara è un chiaro riferimento-omaggio al film di Rossellini.)

 


2. Non mi dilungherò sull’importanza di Viaggio in Italia, sulla posizione esemplare che occupa come apertura al cosiddetto cinema moderno. Rinvierò per questo a due articoli: Lettre sur Rossellini di Jacques Rivette e La terre du Miracle di Maurice Schérer, alias Éric Rohmer (Cahiers du Cinéma, 1955). Ho scelto non a caso questi due testi, tra gli altri possibili, perché i due autori saranno di lì a qualche anno tra i protagonisti della Nouvelle Vague, in una ideale continuità di innovazione col cinema di Rossellini.
Va ricordato che il film - considerato il terzo volet della cosiddetta trilogia della solitudine, preceduto da Stromboli e Europa 51 – fu accolto assai male dalla critica italiana, con rarissime eccezioni, addirittura con inviti per il povero Rossellini a cambiare mestiere. Cecità, a volte anche stupidità, della critica ideologica! Furono i francesi per primi a dare al film il giusto rilievo. Successivamente le cose sono cambiate, con l’emergere in Italia, tra gli anni sessanta e settanta, di una nuova generazione di registi e di critici.
Ugualmente non affronterò gli aspetti stilistici del film, per altro ben evidenziati nei due articoli summenzionati. Su questo mi limiterò a dire che qui, più che altrove, attraverso una felice combinazione tra una naturale maîtrise del mezzo e le usuali strategie di improvvisazione, Rossellini riesce a offrirci un testo filmico compatto e al tempo stesso libero, di totale eleganza e pienezza espressiva, da cui il rinnovato piacere della visione.

A questo proposito va altresì ricordato l’apporto del direttore della fotografia Enzo Serafin (con Aldo Tonti e Luciano Trasatti per alcune sequenze, operatore alla macchina Aldo Scavarda). Scrive Gianni Rondolino:

… pare che egli si fosse attentamente informato da Serafin, che era stato direttore della fotografia dei primi film di Antonioni, delle possibilità tecniche dell’illuminazione a luce riflessa impiegata in I vinti e delle caratteristiche del famoso piano-sequenza del ponte in Cronaca di un amore (che Rossellini amava molto). (G. Rondolino, 1989)

Ma per tornare al mio progetto, quello che invece vorrei tentare è un abbozzo di analisi strutturale del film (che andrà eventualmente precisata e approfondita) in una chiave warburghiana, ispirandomi cioè a Aby Warburg, il grande storico dell’arte tedesco, e in particolare ai suoi studi sulla sopravvivenza dell’antico sia nell’arte del Rinascimento che più in generale nella cultura occidentale.
Come premessa, dirò che Viaggio in Italia va considerato come un film-saggio più che un film-racconto. E su questo condivido in pieno l’opinione di Jacques Rivette:

… c’è ora Viaggio in Italia che, con perfetta nettezza, offre finalmente al cinema, fino ad allora obbligato al racconto, la possibilità del saggio. Il saggio, da più di cinquant’anni, è la lingua stessa dell’arte moderna; è la libertà, l’inquietudine, la ricerca, la spontaneità…

Viaggio in Italia è (cito sempre Rivette):

… saggio metafisico, confessione, giornale di bordo, diario intimo…

3. Comincerò con una significativa dichiarazione di Ingrid Bergman tratta da un’intervista col critico Robin Wood (la ricavo da: Peter Brunette, 1987):

Viaggio in Italia era anche per mostrare Pompei. Adorava Pompei. Conosceva tutto sull’argomento. Cercava solo una storia in cui inserire Pompei e i musei e Napoli e tutto ciò che rappresenta Napoli, da cui è sempre stato affascinato, perché la gente di Napoli è diversa da quella di Roma e Milano. Voleva mostrare tutte quelle grotte con le reliquie e le ossa e i musei e la pigrizia (laziness, sic!) di tutte le statue.

Dunque, stando alla testimonianza della moglie, cioè di uno dei suoi intimi, l’intento primario di Rossellini era quello di documentare l’antico, e il sacro, presente a Napoli, vale a dire il suo fondo arcaico, ancora così vivo. Del resto, come ho sempre sostenuto, nella struttura antropologica della città, i vari strati culturali non si sono cancellati col trascorrere delle relative vicende storiche, ma si sono sovrapposti restando attivi. E’ questo che conferisce quel carattere particolare, unico, a Napoli, che qualsiasi visitatore può percepire, anche se non ne comprenda le ragioni. E al fondo di questa stratificazione c’è l’ostinata persistenza dell’arcaico e del sacro che, perfino quando si esprime nelle forme cristiane, non perde nulla della sua eredità pagana.
 
4. Com’è noto, il film nasceva, con la collaborazione di Vitaliano Brancati alla sceneggiatura, come un adattamento del romanzo Duo (1934) di Colette. Come tale il film fu proposto a George Sanders nel ruolo del co-protagonista. Successivamente venne fuori che i diritti del romanzo erano già stati venduti, così Rossellini e Brancati riscrissero un trattamento che conservava dei tratti narrativi del romanzo (che per altro finiva in tragedia), modificando anche l’elemento del vecchio amore della protagonista, con riferimento forse al racconto The dead di James Joyce (è solo un caso che il cognome dei due coniugi nel film sia proprio Joyce?).
Sanders reagì male a questo cambiamento, tanto più che le abitudini e lo stile delle riprese di Rossellini erano agli antipodi degli standard iperprofessionali di Hollywood ai quali era abituato. Per dirne una, Rossellini dava i dialoghi agli attori solo la sera prima del giorno in cui si sarebbero girate le scene, per evitare che si macerassero troppo sul testo e perdessero di spontaneità. Ma non basta. Sul set improvvisava e girava pochi ciak. Per l’intero film furono utilizzati poco più di 15.000 metri di negativo 35mm. Poteva accadere che a volte si prendesse una vacanza dal set per andare in costiera a fare pesca subacquea. L’umor nero di Sanders si ingigantì, tanto che fu chiamata la moglie, Zsa-Zsa Gabor, e si dice che facesse lunghe telefonate al suo analista o psicoterapeuta che fosse.
E’ interessante notare questa contrapposizione, sul set, tra il “nordico” Sanders e il “mediterraneo” Rossellini, che fa da specchio a quello che è il nucleo centrale del film, come vedremo. In effetti Rossellini accortamente sfrutta il mood polemico e negativo dell’uomo e dell’attore Sanders trasferendolo al personaggio, facendone uno dei suoi tratti distintivi, anche nei bruschi cambiamenti.
Quanto a Ingrid, l’approccio è più complesso. Altrove, in un mio vecchio saggio, Rossellini filosofo e santo (Salvatore Piscicelli, 2002), ho sostenuto che ci sono film di Rossellini che si potrebbero definire dei documentari sull’attore che interpreta un personaggio in un dato contesto; lo sono quelli che ha girato con la Bergman e la Magnani, due donne che ha amato. Nel confermare questa notazione, aggiungo che qui Rossellini filma un quadruplice sguardo: il suo sulla donna amata, quello di Ingrid come suo alter ego che osserva i luoghi dell’antico e le strade di Napoli, quello della “svedese” Bergman sugli stessi luoghi, e infine quello di Katherine il personaggio. Naturalmente questi diversi piani si intrecciano e si sovrappongono, producendo quindi anche zone di ambiguità. Anche questo approccio non convenzionale agli attori fa parte della natura saggistica del film.

5. Diamo un po’ di numeri, premettendo che il lavoro è stato svolto su un file video di circa 85 minuti, trascrizione della copia restaurata dalla Cineteca di Bologna nel 2012.
Il plot del film è piuttosto semplice e lineare. Una coppia benestante di coniugi inglesi, Katherine e Alexander Joyce, si recano a Napoli per vendere una villa ricevuta in eredità da uno zio defunto. Durante questo soggiorno emerge con sempre maggiore evidenza un sentimento di reciproca estraneità tra i coniugi e la crisi si approfondisce fino a sfociare nella decisione di divorziare una volta rientrati a Londra. Nel finale, tuttavia, assistiamo a una (provvisoria) riconciliazione tra Katherine e Alex.
Nel raccontare questa storia, Rossellini introduce delle sequenze di varia durata (dai 3 ai 7 minuti circa), che documentano le visite della protagonista a diversi luoghi turistici, testimonianze dell’antico e del sacro che ancora persiste a Napoli. Definiamo queste sequenze extra-diegetiche, in quanto non concorrono all’avanzamento del plot né a una sua ulteriore definizione. Ne conto cinque: il Museo archeologico, l’antro della Sibilla e il tempio di Apollo, la solfatara, il cimitero delle Fontanelle, gli scavi di Pompei. Sommandone le durate, arriviamo a circa 21 minuti e mezzo, vale a dire un quarto dell’intero film. Se poi includessimo alcuni dei percorsi in macchina di Katherine verso i luoghi turistici, anch’essi chiaramente extra-diegetici, nonché almeno in parte la sequenza finale, con la processione e il miracolo, si arriverebbe a circa metà del film. Annoto che andrebbe considerato come elemento extra-diegetico anche il permanente tessuto sonoro della città fatto di pezzi di canzoni, lacerti di dialoghi, grida ecc. che avvolge quasi tutte le sequenze del film.
Si comprende dunque, da questi semplici calcoli, quanto rilievo abbiano, anche solo sul piano quantitativo, queste sequenze di “documentazione”. Si direbbe davvero che la vicenda narrata, nella sua semplicità e quasi nella sua ovvietà, sia un semplice pretesto per dare spazio agli aspetti arcaici della città. A mio parere, nell’insieme, queste sequenze costituiscono il vero asse portante della struttura del film.

6. Ma chiediamoci invece che funzione svolgano nel film. E’ evidente che Rossellini propone una dicotomia tra la città mediterranea, nella sua dimensione arcaica e corporale, e la coppia nordica, dove il ruolo di Katherine è preponderante e centrale poiché Alex, ancorato ai valori capitalistici del lavoro e del dovere, si rifiuta al confronto (ma vedremo che anche lui reagirà all’atmosfera avvolgente della città). Ma, al di là delle reazioni possibili di Katherine nelle diverse stazioni del suo percorso, cosa trasmettono questi luoghi e queste immagini, quale senso attribuire alla loro persistenza? E qui ci soccorrono le ricerche di Aby Warburg.

L’eredità dell’antico offre attraverso il ricordo storico l’esperienza di una partecipazione mondana passionale attiva e passiva che appartiene alla psiche sociale complessiva dell’età moderna in maniera altrettanto essenziale come i ricordi dell’infanzia appartengono alla vita dell’adulto. Pur senza memoria cosciente i valori formativi tramandati determinano l’espressione del nostro stile espressivo. (Cit. in Claudia Cieri Via, 2011)

Per lo storico dell’arte tedesco la persistenza dell’antico si manifesta essenzialmente nelle forme espressive e gestuali del pathos (Warburg usa il concetto di Pathosformel, formule del pathos), che possono essere assimilate al dionisiaco. Si viene così a creare una polarità (che non è una dicotomia) tra pathos ed ethos, con tutto ciò che implicano queste due sfere, la prima legata alle forze oscure, riattivate appunto dalla persistenza dell’antico, la seconda al logos, che rinvia all’apollineo, esaltato dalla razionalità moderna.

(L'accostamento, avanzato da diversi studiosi, tra il concetto di Pathosformel e quello di archetipo in Jung, è problematico, essendo il primo di carattere decisamente storico e avendo il secondo un fondamento inconscio di carattere univarsalistico [Agamben, 1975]. Andrebbe invece indagata più a fondo una possibile affinità, nei due studiosi, della nozione di polarità, che è centrale anche nel pensiero di Jung.)

Scrive Warburg:

I critici della religione, i filologi e gli psicologi ci hanno insegnato da lungo tempo che l’esperienza demoniaca che trascina all’espressione non inibita appartiene alla cultura greca quanto la serenità olimpica. (A. Warburg, 2008)

E, per quanto riguarda la sfera del sacro, è pur vero che:

...la civiltà delle macchine distrugge ciò che la scienza naturale derivata dal mito ha faticosamente conquistato: lo spazio per la preghiera, trasformatosi poi in spazio per il pensiero [ ... ]. (A. Warburg – E. Cassirer, 2003)

Dunque la sfida è, scrive Georges Didi-Huberman:

… come conquistare il logos muovendo dal pathos? Come fare in modo che il logos non dimentichi nulla del pathos e, al contrario, arrivi a pensarlo antropologicamente e fenomenologicamente?” (cit. in C. Cieri Via, 2011)

Sono concetti che il mediterraneo Rossellini potrebbe certamente sottoscrivere, alla luce di quella visione del mondo in cui, soprattutto nella fase finale della sua vita, si intrecciano illuminismo ed enciclopedismo, come ho cercato di mostrare nel mio saggio sopra citato.

7. Ma c’è di più. La sopravvivenza dell’antico trova la sua massima espressione nelle immagini. Nel 1927, un paio d’anni prima di morire, Warburg avvia un progetto denominato Mnemosyne Atlas in cui, abbandonando la scrittura, fa delle immagini il principale strumento comunicativo, e dove le fotografie “erano disposte su pannelli di tela neri a simulare, attraverso un processo di montaggio, lo sfondo della pellicola cinematografica.” (C. Cieri Via, 2011).

Si legge sul sito della Rivista di Engramma, che ha dedicato ampio spazio al lavoro di Aby Warburg:

Mnemosyne è un atlante figurativo (Bilderatlas) composto da una serie di tavole, costituite da montaggi fotografici che assemblano riproduzioni di opere diverse: testimonianze di ambito soprattutto rinascimentale (opere d’arte, pagine di manoscritti, carte da gioco, etc.); ma anche reperti archeologici dell’antichità orientale, greca e romana; e ancora testimonianze della cultura del XX secolo (ritagli di giornale, etichette pubblicitarie, francobolli).
Nel Bilderatlas, che contiene un migliaio di fotografie sapientemente composte e assemblate, le immagini sono oggetto privilegiato di studio in quanto sono un modo immediato di ‘dire il mondo’. L’immagine è il luogo in cui più direttamente precipita e si condensa l’impressione e la memoria degli eventi. Dotate di un primordiale potere energetico di evocazione, in forza della loro vitalità espressiva le immagini costituiscono i principali veicoli e supporti della tradizione culturale e della memoria sociale, che in determinate circostanze può essere “riattivata e scaricata”. Nell’Atlante la giustapposizione di immagini, impaginate in modo da tessere più fili tematici attorno ai nuclei e ai dettagli di maggior rilievo, crea campi di energia e provoca lo spettatore a un processo interpretativo aperto: “la parola all’immagine” (zum Bild das Wort). (Link nei libri citati)

E qui mi viene in mente l’icastica sentenza di Benjamin: “La storia si frantuma in immagini, non in storie”. (Walter Benjamin, 2000)

In questo lavoro la fotografia gioca un ruolo chiave in quanto medium plastico generale a cui tutte le figure sono ridotte prima di essere disposte nello spazio del pannello, come ha scritto un altro studioso di Aby Warburg:

L’Atlas non si limita a descrivere la migrazione delle immagini attraverso la storia delle rappresentazioni ma le riproduce. In questo senso si basa su una modalità cinematografica, la quale, usando le figure, ha lo scopo non di articolare significati ma di produrre effetti. (Philippe-Alain Michaud, 2007)

E ancora:

I pannelli di Mnemosyne funzionano come schermi sui quali i fenomeni prodotti in successione dal cinema sono riprodotti simultaneamente.

Non è un caso che lo stesso autore accosta l’Atlas di Warburg alle Histoire(s) du cinéma di Jean-Luc Godard, in quanto condividono lo stesso metodo compositivo.

Non è azzardato dunque, dal mio punto di vista, considerare le sei sequenze di cui sopra, per analogia, come una sorta di pannello di un rosselliniano Atlante di Mnemosyne. I personaggi Katherine e Alex, gli attori Bergman e Sanders vengono messi a confronto con certe sequenze di immagini per verificarne gli effetti. E siccome questa verifica non può essere fatta a priori, cioè codificata in una sceneggiatura, il processo delle riprese deve restare aperto all’osservazione obiettiva delle reazioni dei personaggi-attori – dove le espressioni fisiche (del pathos) non sempre coincidono con la verbalizzazione delle stesse - nonché all’improvvisazione. Dal lato dello spettatore questo procedimento consente la possibilità di letture diverse, non esauribili in un senso univoco. Esattamente come nell’Atlante di Warburg, dove l’accostamento tra le immagini produce percorsi ed echi appunto inesauribili, e reversibili, di senso.
Rossellini crede alla forza simbolica e mitica dell’antico e del sacro – che a Napoli si manifesta con un’evidenza e una potenza maggiore che altrove – e crede, come Warburg, che la polarità tra pathos (l’antico) e ethos (legato alla razionalità moderna) - laddove si attivi, per così dire, positivamente, vale a dire che il logos riesca a non dimenticare nulla del pathos, come si diceva più sopra - possa condurre a un nuovo orientamento (altro concetto chiave di Warburg) nelle diverse sfere della vita umana, pratica intellettiva e spirituale, nel mondo visibile e in quello invisibile. Da qui questa sorta di esperimento (saggio) applicato ai due personaggi-attori nordici.

8. Osserviamo più da vicino le stazioni del percorso di Katherine e poi di Katherine e Alex. Fino al minuto 25 circa del film (col folgorante inizio del veloce camera-car in soggettiva sulla via Appia) non vi sono elementi extra-diegetici. Ci viene presentata la coppia, l’inizio delle schermaglie e l’ambiente della villa dello zio nell’aspro paesaggio dominato dalla sagoma del Vesuvio (in realtà vediamo il Monte Somma che nasconde il cono). Viene evocato Charles Lewington, l’amico poeta di Katherine che ha fatto la guerra a Napoli e poi è morto (e del quale Alex crede che la moglie fosse innamorata). E sono proprio i versi del poeta (“temple of the spirit/no longer bodies/but pure ascetic images”) che Katherine assume come chiave di lettura “spiritualistica” delle sue visite. Sarà presto smentita.

La prima stazione è la visita al Museo archeologico. Rossellini filma con eleganza e limpida aderenza le statue greco-romane nella loro nudità come fossero corpi vivi e filma le reazioni della donna, quasi sempre di disagio. Filma gli imperatori, crudeli e amanti del piacere, il satiro, (“divinità pagana molto pericolosa”), il fauno ubriaco che dorme saporitamente (“il sonno è una cosa meravigliosa”), la Venere “more mature” che piace all’anziano cicerone, quasi una greve galanteria nei confronti di Katherine. 

Emergono alcuni temi: l’eros, innanzitutto, poi la crudeltà, il gusto del piacere, la pigrizia. Tutt’altro che “pure ascetic images”, come più tardi Alex farà notare a Katherine con una punta di sarcasmo. Katherine coglie l’emergere di eros, e infatti è turbata dalla “lack of modesty”, dall’impudicizia, e non tarda a stabilire un’equivalenza tra gli uomini antichi e quelli di oggi, accomunati dalla crudeltà e dalla ricerca del piacere.
L’atmosfera di erotizzazione prosegue nella sequenza a casa del duca di Lipoli, dove i grevi corteggiamenti di alcuni ospiti sembrano non dispiacere a Katherine. Ritorna anche il tema della pigrizia, “il dolce far niente”. Dicono che i napoletani siano tutti indolenti, argomenta una donna, ma può essere indolente un naufrago? Noi siamo naufraghi, dobbiamo lottare tanto solo per stare a galla.

Il contrasto tra i coniugi si acuisce. Alex decide di andare a Capri “a divertirsi”.

La seconda stazione è l’antro della Sibilla. Nel tragitto in macchina che la porta al sito, Katherine incrocia un funerale, con tanto di carro barocco trainato da cavalli, e due donne incinte, preludio ai temi della vita e della morte. Ma prima Rossellini introduce un riferimento ironico, quando la guida racconta che lì, sulla spiaggia dell’Acropoli, dove sbarcò Enea, durante l’ultima guerra sbarcarono gli inglesi. La Sibilla governa ambiguamente vita e morte ma anche il destino degli amanti. Katherine vi oppone ancora i versi “ascetici” del suo amico, quasi un mantra per tenere distante l’eros, la violenza e la morte. Che invece la guida turistica le ricorda subito, mostrandole come i saraceni avrebbero legato ai buchi su una parete una bella donna come lei (“tutti gli uomini sono uguali”, commenta lei). 

L’ascesa al tempio di Apollo non placa il turbamento della donna: da lì si vede il mare e incombe la sagoma di Capri, dove Alex è andato a “divertirsi”. Di ritorno a casa, odio e gelosia… col commento ironico della canzone Luna caprese.

A Capri l’atmosfera erotizzante della città coinvolge anche Alex, col suo goffo tentativo di seduzione di una donna.

9. La terza stazione è la solfatara. Durante il tragitto, immagini di coppie felici e di donne con bambini nei passeggini. La guida le mostra il fenomeno della ionizzazione, con i fumi che si levano dappertutto. E’ come un gioco, Katherine si diverte ma la guida le ricorda subito che le potenze ctonie sono pericolose e distruttive, mostrandole il “pocket Vesuvio” con la danza dei lapilli. Fu proprio una immane pioggia di lapilli a seppellire Pompei.

Intanto a Capri fallisce il tentativo di Alex con la donna.
A casa, in un momento di relax riflessivo, a una domanda di Natalia (la donna che, con il marito Tony, sovrintende alla villa) Katherine risponde che no, Napoli non se la immaginava così. Natalia la invita a visitare le Fontanelle, per mostrarle “la vera Napoli”. Katherine è diffidente, sente già aleggiare l’ombra della morte.
Alex rientra a Napoli, patetico incontro con una prostituta. Rientro a casa, algido rapporto tra i due coniugi.

Quarta stazione, le Fontanelle. Durante il tragitto, Katherine e Natalia osservano molte donne incinte. Con le ossa e i teschi di centinaia e centinaia di defunti, le Fontanelle sono un luogo di morte ma anche un luogo di pietà, un luogo del sacro e un luogo di vita. E’ infatti qui che Natalia viene a pregare per chiedere la grazia di avere un figlio. Vita e morte sono sempre intrecciate. Difficile leggere sul volto di Katherine l’effetto di questa visione, al di là del turbamento.

Quando Katherine e Alex si incontrano a casa, è di nuovo scontro. L’improvvisa decisione di divorziare. E qui irrompe Tony con l’invito ad andare a Pompei, dove faranno un calco dentro il vuoto lasciato da un corpo umano nella lava.

Quinta stazione, Pompei, la città morta. Nell’area dei nuovi scavi si effettua il calco iniettando il gesso nel vuoto. Emergono due figure umane, un uomo e una donna, colte nel momento stesso della morte. Forse marito e moglie, che hanno trovato la morte insieme, dice Tony. Morti che tornano a una sorta di provvisoria vita, in realtà un memento di un destino comune.  

Estremo turbamento di Katherine, che scoppia a piangere. E’ come se questo turbamento fosse la sommatoria delle emozioni dalle ultime visite e forse anche dalle precedenti. Demolita la visione ascetica dell’amico poeta, Katherine si ritrova smarrita davanti alle potenti immagini di morte con le quali è costretta a confrontarsi. 

A cosa porterà questo smarrimento? C’è da aggiungere che anche Alex sembra in parte colpito in questa circostanza, ma poi passa di nuovo a un atteggiamento sarcastico. Come è breve la vita, dice Katherine. Per questo dovremmo godercela, ribatte Alex. Ed è l’unica, banale conclusione cui possono arrivare i due coniugi, che lasciano il sito in macchina.

Sesta stazione, la processione e il miracolo. Qui il sacro si dispiega nella forma tradizionale della processione, con grande partecipazione di popolo, di ogni età e di ogni estrazione, e poi nel miracolo, l’uomo che alza le stampelle e cammina. Katherine e Alex sono presi dalle loro diatribe, dalle reciproche contestazioni, sordi e in fondo entrambi sprezzanti verso quella gente che fa della fede la sua forza. 

Poi la folla li travolge ed è la paura di perdersi forse che produce anche per loro un piccolo miracolo, con la decisione di rinunciare al divorzio e di riprovare a stare insieme. Una finale inatteso, improvviso, e certamente provvisorio nella dinamica del film, una sorta di falso “happy end”. 

10. Dunque quali effetti produce il confronto con la sopravvivenza dell’antico, dell’arcaico e del sacro di quella città unica nel suo genere che è Napoli?
Riassumendo, da questo breve excursus si comprende che Rossellini mette in campo i temi di fondo legati a questa persistenza: l’eros, il corpo, la violenza, il piacere, le potenze ctonie della terra, la vita e la morte nel loro intreccio sostanziale, la pietà, la fede, il miracolo. E ce li presenta variandoli liberamente, qua e là punteggiati da spunti ironici. Ne emerge anche il suo peculiare metodo: il dispiegamento dell’Atlante, del potente palinsesto di immagini da un lato, e l’osservazione attenta delle reazioni dei personaggi-attori dall’altro.

Su quest’ultimo punto si potrebbe dire che il confronto della coppia borghese nordica con l’arcaico e il sacro fallisce. Nel caso di Alex per un sostanziale rifiuto a mettersi in gioco. Per Katherine c’è l’ostacolo iniziale di un approccio “spiritualistico” ma poi, messa davanti alla durezza dei contenuti che la città le propone, la donna vi oppone le sue reazioni pregiudiziali, quindi si smarrisce, subentra l’angoscia e la sofferenza. (In termini junghiani, si potrebbe dire che i due coniugi rifiutano il confronto con la loro Ombra.) E’ solo nel momento clou del miracolo che la coppia, nella paura di perdersi, coglie un modesto risultato nella provvisoria riconciliazione, che si genera più che altro da un meccanismo difensivo contro l’irrazionalità di quella fede così assoluta. In termini warburghiani, Alex e Katherine non riescono a incorporare nell’ethos i contenuti del pathos, la polarità resta tale, non si attiva, e dunque viene a mancare un orientamento verso una nuova dimensione della vita.

E’ una lettura possibile, sulla base delle suggestioni di Aby Warburg, ma in realtà il film non offre mai risposte univoche, come si è già detto. Osservando gli sguardi e i gesti di Katherine-Ingrid e di Alex-Geroge, ascoltando i loro dialoghi, c’è sempre un’eccedenza che sconsiglia conclusioni affrettate e appunto univoche. Il regista, filmandoli, non è a sua volta alla ricerca di un senso monosemico, dettato da un copione, non cerca l’inquadratura “buona”, ma piuttosto è interessato alla ricerca di significanti polisemici, registra le discrepanze, le ambiguità, il non detto. La macchina da presa diventa come una sonda volta a estrarre dagli attori-personaggi le molteplici e contraddittorie reazioni, consce e inconsce, all’apparato figurale e a consegnarcele nella loro opacità e al tempo stesso nella loro evidenza, nella loro flagranza. Tocca allo spettatore attivarsi per operare la propria personale lettura. E’ la soggettività del suo sguardo che dà senso, di volta in volta, e con possibili molteplici variazioni, al film.

Nel 1962 Umberto Eco teorizzava la nozione di “opera aperta” (Umberto Eco, 1962). Otto anni prima, in sintonia con le precedenti e coeve più avanzate esperienze artistiche, Rossellini elaborava una metodologia radicale di apertura della prassi e delle forme cinematografiche che avrebbe avuto un’influenza decisiva nei decenni a venire. Sta in questo, soprattutto, la “modernità” di Viaggio in Italia di cui parlavano Rivette e Rohmer.

Libri e saggi citati
 
 - Jacques Rivette, Lettre sur Rossellini, Cahiers du Cinéma, n. 46, aprile 1955
 -
Maurice Schérer (Éric Rohmer), La terre du Miracle, Cahiers du Cinéma, n.47, maggio 1955
-
Gianni Rondolino, Rossellini, UTET, 1989
-
Peter Brunette, Roberto Rossellini, Oxford University Press, 1987
- Colette, Duo, 1934
-
James Joyce, The Dead, in Dubliners, 1914
-
Salvatore Piscicelli, Rossellini filosofo e santo, Bianco e Nero, marzo-aprile 2002, anche in: Salvatore Piscicelli, L’imitazione della vita, Meltemi, 2018
-
Claudia Cieri Via, Introduzione a Aby Warburg, Laterza, 2011
-
A. Warburg, L’antico italiano nell’epoca di Rembrandt, in Opere II, La rinascita del paganesimo antico ed altri saggi (1919-1929), Aragno, 2008
-
Giorgio Agamben, Aby Wargurg e la scienza senza nome (1975), Aut-Aut 199-200, gennaio-aprile 1984
-
Aby Warburg – Ernst Cassirer, Il Mondo di ieri – Lettere, a cura di Maurizio Ghelardi, Aragno, 2003
-
Rivista di Engramma (on line) (https://engramma.it/eOS/core/frontend/eos_atlas_index.php?id_articolo=4089#ancora%20pagina%20atlas)
-
Walter Benjamin, Opere Complete IX. I “passages” di Parigi, Einaudi, 2000
-
Philippe-Alain Michaud, Aby Warburg and the Image in Motion, Zone Books, 2007
-
Umberto Eco, Opera aperta. Forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee, Bompiani, 1962

Scheda filmografica
Viaggio in Italia

Regia: Roberto Rossellini
Soggetto e sceneggiatura: Roberto Rossellini, Vitaliano Brancati
Fotografia: Enzo Serafin; Aldo Tonti, Luciano Trasatti (per alcune sequenze)
Operatore alla macchina: Aldo Scavarda
Scenografia: Piero Filippone
Costumi: Fernanda Gattinoni (per Ingrid Bergman)
Autore del commento musicale: Renzo Rossellini
Canzoni napoletane: Giacomo Rondinella
Suono: Eraldo Giordani
Montaggio: Jolanda Benvenuti
Assistenti alla regia: Marcello Caracciolo di Laurino, Vladimiro Cecchi
Negativi e positivi: Tecnostampa – F.lli Genesi

Interpreti: Ingrid Bergman (Katherine Joyce), George Sanders (Alexander Joyce), Paul Müller (Paul Dupont), Maria Mauban (Marie, la ragazza dalla gamba ingessata), Anna Proclemer (la prostituta), Leslie Daniels (Tony Burton), Natalia Ray (Natalia Burton), Tony La Penna (Bartolo), Jackie Frost (Judy), Lyla Rocco (signora Sinibaldi), Bianca Maria Cerasoli (amica di Judy), Lucio Caracciolo, Marcello Caracciolo

Direttori di produzione: Marcello d’Amico, Mario Del Papa
Ispettori di produzione: Mimmo Salvi, Pietro Notarianni
Produzione: Roberto Rossellini per Sveva Film, Adolfo Fossataro per Junior Film, Alfredo Guarini per Italia Film, Société Générale de Cinématographie, Ariane, Francinex Parigi
Distribuzione: Titanus
Origine: Italia-Francia, 1954
Durata: 85 minuti
Uscita sugli schermi: Cinema Mignon, Milano, 7 settembre 1954
























domenica 31 gennaio 2016

Ricordando Jacques Rivette


"Le cinéaste le plus libre qui soit", così lo ha definito Bulle Ogier, una delle sue attrici preferite, in una dichiarazione per Liberation. E Pascal Bonitzer, suo abituale co-sceneggiatore, ha replicato su Le Monde: "Pour ce balzacien, les films étaient constitués comme des complots contre la façon dominante de faire des films." Entrambi i giudizi sono da condividere in pieno.

Per ricordare questo grande cineasta, oggi purtroppo sconosciuto ai più, ripubblico qui la parte centrale di un articolo che scrissi in occasione dell'uscita di uno dei suoi film più belli.


Céline et Julie vont en bateau
(da "Cinema Sessanta", n.99, 1974)

L'inizio dunque ci ricorda Alice. Céline lascia cadere qualche oggetto davanti a Julie e la trascina in un mondo di avventure. Così, fin dalle prime inquadrature, attraverso questa citazione carrolliana, lo spettatore è avvertito: che si tratta di un viaggio al di là dello specchio e dentro il linguaggio, e anche che questo viaggio ha a che fare con la dimensione infantile, per quello che di inquietante comporta questo aggettivo. Assistiamo dunque al dispiegarsi di queste avventure , di questo racconto di avventure destituito di motivazioni, il cui motore, sulle prime, è semplicemenete un incontro casuale in uno “square” parigino. Riconosciamo ben presto in ciò la configurazione moderna del lavoro sul racconto (di cui Rivette è, del resto, un pontefice riconosciuto) e ci accorgiamo che anche la citazione carrolliana vale, “d'entrée”, come citazione critica; se è vero, come sostiene Gilles Deleuze (in Logique du sens), che Carroll è colui che ha scoperto la superficie, colui che inaugura, nella nostra modernità, la critica della profondità e che istituisce una pratica del racconto risolta nell'esplorazione delle contiguità della messa in serie. Questa indicazione critica è verificata più oltre dalla struttura propria del film. Le ultime inquadrature ci ripresentano, ad esempio, le circostanze iniziali del racconto, ma a personaggi invertiti; e noi siamo autorizzati a pensare la forma del film come una sorta di  striscia di Moebius. E' la carrolliana borsa di Fortunatus, dove la superficie esterna è in continuità con la superficie interna: “essa racchiude il mondo intero, e fa che ciò che è dentro sia fuori, e ciò che è fuori sia dentro” (Deleuze). Critica della profondità, che è critica dell'opera come depositaria di un senso nascosto da far emergere. Critica dell'ermeneutica. Coerentemente, Rivette mette qui in questione la fascinazione del labirinto (vedi Adriano Aprà, Geografia del labirinto), risolvendolo nel dispiegamento in superficie.

Céline et Julie vont en bateau ingloba, entro la sua struttura “superficiale”, un enorme meccanismo ripetitivo. Due serie di avvenimenti, per lo meno, vi si trovano presi: quelli che hanno luogo dentro e quelli che hanno luogo fuori della “casa”. Se la prima parte del film è all'insegna, come si è detto, di un incontro casuale, la seconda parte si svolge rigorosamente nell'alternanza delle due serie di avvenimenti. Il passaggio dall'una all'altra serie è assicurato da un oggetto allucinogeno. I bonbon o l'intruglio magico. Oggetti derisori e parodici che nel loro “grado zero” manifestano comunque la supremazia del significante nella manovra della catena narrativa. Ma si avrebbe torto a considerare questo movimento come una illustrazione del “defilé” simbolico. Esso in realtà funziona più semplicemente come un gioco, la cui posta è occultata ai soggetti che vi partecipano. Una sorta insomma di analisi spontaneistica e selvaggia, rischiata “al buio”. Lanciando i dadi (succhiando i bonbon), Céline e Julie sono prese nel ritorno del loro rimosso di attrici.

Dal punto di vista della struttura del film, le sequenze della “casa” (che fanno riferimento a un racconto di Henry James), come la citazione carrolliana dell'inizio, hanno un valore metalinguistico. Ci informano che il problema è quello della rappresentazione cinematografica e che il film è giocato da attrici. Più specificamente, la scena della “casa” è una scena divisa. Se il rimosso ritorna con insistenza, è per essere frazionato, rotto, fatto esplodere: e proprio nella sua ossessiva ripetitività. Ciò che governa il suo ritorno è del resto una insistenza di intensità superiore: la transitiva positività del desiderio che dissolve i fantasmi e reinveste nel corpo, nel linguaggio ciò che è sublimato nella rappresentazione. Distruggendo la “casa”, Céline e Julie non solo si emancipano dal loro “passato”, ma rompono la barriera che separa l'al di qua e l'al di là dello specchio; mettendo quindi in crisi la loro stessa identità di soggetti pieni, depositari di un'eredità.

Possiamo interpretare il movimento ripetitivo del film anche come un processo di regressione. Regressione temporale, per via allucinogena, a modelli di rappresentazione (modelli di “jeu”) passati; regressione formale a modi di espressione cosiddetti infantili. Il paradosso (apparente) è che la seconda offre i mezzi per mettere in crisi la prima. Ciò che emerge dunque è la forza del desiderio, linfa vitale che scompagina i modi calcolati e predisposti della rappresentazione  (di cui del resto è all'origine). E' la struttura stessa del film – così come prospettata sommariamente più sopra – ad esserne investita.

E del resto, come scrive ancora Deleuze, “niente di più fragile della superficie”. E' una forza senza fondo che, emergendo, la buca e la fa precipitare. E' l'ordine primario che la vince sull'ordine secondario (formale) in cui si è costituito il film. Forza dunque del desiderio, delle pulsioni, della materia (e della storia). Come intendere altrimenti il senso di quel riso folle e insensato, di cui ci fanno partecipi Céline e Julie, di quella incredibile proliferazione di linguaggio paragrammatico, di quella gestualità insistente e decentrata, insomma di quella “performance” globale e invadente di cui si fanno agenti le due ragazze, occupando tutti gli interstizi e i vuoti della struttura e facendola alla lunga scoppiare? La superficie è bucata, la struttura scoppiata; e beninteso questo è un effetto extra-testuale. Poiché la forza, nel testo, travaglia la superficie e la struttura e vi insinua la differenza, lo spostamento delle linee, il movimento. Ciò che ne viene sconvolto è l'euritmia, la disposizione geometrica. Non si dà emergenza dello slancio senza vincoli e senza limiti, emergenza del desiderio assolutamente transitivo. La forza non può rendersi manifesta che attraverso la struttura; ma appunto, manifestandosi, la fa precipitare. E' questo lo spazio – contraddittorio – di ogni pratica significante, che il film individua con esattezza.

Tale spazio, lo si vede bene, ingloba la dialettica progetto-alea, predisposizione-improvvisazione (che, per lo meno a partire da L'amour fou, occupa un ruolo importante nel lavoro di Rivette); dialettica che trova qui, ci sembra, il suo superamento. La nozione di alea, o anche di “improvvisazione”, è fondamentale, com'è noto, nel cinema moderno (vedi Noël Burch, Praxis du cinema). Essa segnala, da parte dell'autore, la presa in considerazione, a differenti livelli, della refrattarietà del materiale del cinema. E' un'esigenza questa che nasce, come ha mostrato Burch, dall'interno stesso della specificità cinematografica, perché il cinema, a differenza ad esempio della musica,  ha a che fare con la complessità dell'esistente visibile. Ora è proprio in questa prospettiva che il lavoro sull'alea mostra chiaramente i suoi limiti. Esso sembra far capo a un astuzia dell'autore per riuscire a inglobare quanto una pratica cinematografica di grado zero era costretta ad espellere. Ciò che significa, malgrado tutto, un rilancio della funzione demiurgica dell'autore, che si riappropria del materiale così catturato al momento del montaggio. In Céline et Julie vont en bateau la funzione del montaggio (inteso in questo senso) è ancora importante,  ma esso regola per così dire uno solo dei livelli del film, quello della strutturazione formale che mai come in questo film si organizza, come si è visto, intorno a una figura “arbitraria”. Questo livello entra il lotta, potremmo dire, con gli altri livelli del film; meglio: si dà soltanto per consentire all'altro che lavora il film di manifestarsi nel suo potere dirompente. In questo modo l'autore si spossessa come soggetto pieno  dell'enunciazione e si apparta. Egli è colui che privandosi della parola consente alla scrittura di addivenire. Nel fatto che di questa scrittura si facciano carico, principalmente, due nomi e due corpi femminili, lo spettatore non vi leggerà un caso.