film


FILMOGRAFIA



Film di finzione


Immacolata e Concetta, l'altra gelosia (1980)

Regia: Salvatore Piscicelli; soggetto: Salvatore Piscicelli; sceneggiatura: Carla Apuzzo e Salvatore Piscicelli; fotografia: Emilio Bestetti; scenografia: Giovanni Dionisi; costumi: Franz Prestieri; suono presa diretta: Remo Ugolinelli; musica: canti popolari napoletani e brani tratti da "Raices 1" e "Raices 3" di Gustavo Beytelmann; montaggio: Roberto Schiavone. Super 16mm colore gonfiato a 35 mm. Durata: 92’.
Interpreti e personaggi: Ida Di Benedetto (Immacolata), Marcella Michelangeli (Concetta), Tommaso Bianco (Ciro Pappalardo), Lucio Allocca (Pasquale), Lucia Ragni (Antonietta), Biancamaria Mastronimico (Lucia), Nina De Padova (zia Carmela), Linda Moretti (Sisina), Cetty Sommella (Marittella).
Produzione: Enzo Porcelli per Antea Cinematografica.
Leopardo d'argento al festival di Locarno 1979, Premio France Culture al festival di Cannes 1980, Premio Ubu e Premio Bolaffi come miglior film italiano 1980.

«Un esordio da tutti i punti di vista ragguardevole è quello di Salvatore Piscicelli con Immacolata e Concetta. Il film, e per il turgore dei sentimenti e per la radicalità dei conflitti, sembra rifarsi alla tradizione della "sceneggiata"; ma in realtà il suo rapporto con l'entroterra culturale, che pure gli è sotteso, è di continuo straniamento, di programmatico raffreddamento dei toni e delle tinte, senza nessun compiacimento etnologico ed anzi con la trasformazione dei "topoi" della cultura contadina napoletana (restituiti qui, per altro, tramite l'impervia vicenda di un rapporto omosessuale tra due donne e dalla sua tragica conclusione) in discorso, "freddo" quanto a mezzi espressivi ma intenso quanto a risultati, sulla solitudine e sulla morte, sulla impossibilità della trasgressione e sulla invivibilità di una "norma", dove l' "economico" e l' "esistenziale", l' "istituzionale" e il "naturale" convivono conflittualmente e producono il dramma.
Calibrato in ogni sua cadenza, ottimamente interpretato, scritto con una finezza intellettuale che ha il pregio di non esibirsi che come coscienza del mezzo espressivo e capacità ordinatrice di un narrare che ha andamenti classicheggianti, il film è forse destinato a destare qualche furore moralistico in chi non sappia leggerne che la scorza, ma rivela - nonostante talune sue zone irrisolte - un autore straordinariamente maturo che non fa cinema ispirandosi al cinema ma al sangue, all'umore e alla pena delle cose e degli uomini».

Lino Miccichè («Avanti!», 11 ottobre 1979)


Le occasioni di Rosa (1981)

Regia: Salvatore Piscicelli; soggetto e sceneggiatura: Carla Apuzzo e Salvatore Piscicelli; fotografia: Renato Tafuri; costumi: Franz Prestieri; suono in presa diretta: Hubrecht Nijhuis; musica: Helmut Laberer; montaggio: Franco Letti. 35mm colore. Durata: 86'.
Interpreti e personaggi: Marina Suma (Rosa), Angelo Cannavacciuolo (Tonino), Sergio Boccalatte (Gino), Gianni Prestieri (Angelo), Martin Sorrentino (Pasquale), Antonella Patti (Anna), Enzo Salomone (uomo del biliardo), Vittorio Baratti (cliente), Pina Ferrara (Marisa), Angelo De Falco (Peppino).
Produzione: Carla Apuzzo e Salvatore Piscicelli, con la collaborazione di Enea Ferrario, per Falco Film.

«Quest'opera seconda di Salvatore Piscicelli si può considerare come un referto sociologico su una società in trasformazione; una precisa, distaccata glaciale analisi sulla realtà metropolitana; un caso clinico disperato su una ragazza di nome Rosa. Il discorso, "sgradevole" quanto può esserlo quello di un medico o di uno scienziato, mette sotto il microscopio i giovani e il loro quotidiano: senza ideologie, senza passioni, senza moralità. Ci si lascia vivere come i tre personaggi principali, senza gelosia, senza rivalità sessuali, adattandosi a un'esistenza sempre uguale, a una società che non vuole cambiare, che non vuole cambiarti. Un'esistenza biologica che si sviluppa e si consuma in notti e giorni inerti, senza riflessioni storiche, senza inganni e senza ambizioni. Piscicelli, evitando volutamente ogni chiarimento psicologico, negandosi giudizi e commenti, appiattisce senza schematizzare fatti e figure, misurando attentamente il rapporto fra l'ambiente e i personaggi, fra spazio e sentimenti, senza tuttavia mortificare l'elemento cinema che serve a parlare di queste realtà, esaltandone anzi le capacità affabulatorie, la forza di finzione».

Vittorio Spiga («Il Resto del Carlino», 17 ottobre 1981)


Blues metropolitano (1985)

Regia: Salvatore Piscicelli; soggetto e sceneggiatura: Carla Apuzzo e Salvatore Piscicelli; fotografia: Giuseppe Lanci; scenografia: Massimo Perna, Antonio Bosco; costumi: Franz Prestieri; musica: Joe Amoruso, Pino Daniele, Tony Esposito, Little Italy, Anthra; suono in presa diretta: Mario Dallimonti; montaggio: Raimondo Crociani, Antonio Di Lorenzo. 35 mm colore. Durata: 111'.
Interpreti e personaggi: Stefano Sabelli (Tonino Tarallo), Sergio Boccalatte (Ciro Cerasuolo, ricco napoletano), Paolo Bonetti (Gigino Giordano, l'organizzatore), Ida Di Benedetto (Elena, la signora), Tony Esposito (Tony), Barbara D'Urso (Francesca, moglie di Tony), Diego Pesaola (Riccardo), Peppe Lanzetta (Mimmo, musicista), Marina Suma (Stella), Marina Viro (Susy), Maria Basile (Rosetta), Stefania Bifano (Dada), Maurizio Capone (Tex, percussionista), Nino Bellomo (Mario-Patrizia), Marta Bifano (Marta), Angelo Cannavacciuolo (Pasqualino), Lino Mattera (Don Vittorio), Luigi Petrucci (Arch. Ruoppolo), iola Prestieri (Viola), James Edward Sampson (Solomon), Anna Walter (Ines), Patrizia Spinosi (Ida), Carlotta Ercolino (Luisa), Gianni Prestieri (Joe), Isabella Salvati (Adelina), Bianca Sollazzo (zia Regina), Cetti Sommella (la segretaria), Francesca Thermes (la cantante), Giorgio Verdelli (presentatore), Pino Daniele, Tullio De Piscopo (se stessi) .
Produzione: Claudio Bonivento per Numero Uno Cinematografica.

«Afa, snodi autostradali, pensioni equivoche, un Vesuvio più lugubre che minaccioso. Da una notte a una notte, su e giù per i tragitti più sorprendenti ed insieme più atrocemente anonimi della Napoli anni '80: dove la periferia divora il "colore", la schizofrenia dei paesaggi allarga e restringe il cuore e giovani zombies saldano l'anello antropologico tra lo Specifico e l'Eccezionale. Un gruppo di personaggi - meglio di "segnali viventi" - brulicano su questo sfondo, impegnati in un disinvolto girotondo che produce a getto continuo flash, schizzi e siparietti: così Salvatore Piscicelli, indigeno dell'entroterra, imposta il suo viaggio "nei comportamenti" di un popolo giovanile troppe volte blandito, misconosciuto o turlupinato in nome di esigenze sociologiche o filosofiche.
Il filtro dell'esperimento è offerto, per così dire naturaliter, dal post-rock napoletano che riesce ad innestare sul vecchio ceppo della tradizione locale tutti i moduli più aggiornati della new wave musicale.
Ci vuol poco ad inquadrare il film come l' "anti-Bellavista" per antonomasia: il cinema di, su e per Napoli appar ormai tanto rigoglioso da procurarsi da sé domande, risposte e polemiche. Tra le folle ipnotizzate dei concerti suburbani e le adunate esaltate dal neapolitan power, da una parte, e i duetti accattivanti del borghese decrescenziano, dall'altra, esiste un varco incolmabile: che non è risultato di verismi paralleli o di arzigogolate prospettive ideali bensì di corpi, linguaggi, immaginari fisiologicamente incompatibili, oltreché di due credi cinematografici dissonanti. Piscicelli, pur nel suo stile particolare - urticante, sincopato, umorale, persino naif - insegue modelli fuori-standard, le imprese solitarie alla Easy Rider, le performances tedesche più furtive (...) ».

Valerio Caprara («Il Mattino», 23 febbraio 1985)


Regina (1987)

Regia: Salvatore Piscicelli; soggetto e sceneggiatura: Carla Apuzzo e Salvatore Piscicelli; fotografia: Tonino Nardi; scenografia: Luciana Vedovelli; costumi: Franz Prestieri; musica: Helmut Laberer; montaggio: Salvatore Piscicelli, Domenico Varone. 35mm bianco e nero. Durata: 87'.
Interpreti e personaggi: Ida Di Benedetto (Regina), Fabrizio Bentivoglio (Lorenzo), Giuliana Calandra (Lalla), Mariano Rigillo (Paolo), Marika Ferri (Diana), Claudia Giannotti (Sofia), Anita Laurenzi (la madre), Paolo Hermanin (Andreas).
Produzione: Carla Apuzzo per Falco Film.

«Il cosiddetto Postmoderno è speculare. Voglio dire che tende a raddoppiare la rappresentazione rispecchiandola in una rappresentazione precedente e analoga ma diversa. Nella narrativa, da ultimo, invece di nascondere il modello lo si addita in maniera appunto speculare cioè critico-parodistica. Ma la parodia mette in luce le differenze, appunto, tra moderno e postmoderno.
Salvatore Piscicelli ha voluto con questa sua Regina darci una versione postmoderna del tema della Fedra di Racine. Come in certe strade di New York, nelle quali razionalissimi grattacieli dalle facciate concave e specchianti riflettono con effetti strani e affascinanti vecchi palazzoni liberty, egli ha voluto o meglio avrebbe voluto che la sua Fedra 1987 si rispecchiasse in quella 1677 di Racine. Ma è avvenuto che la Fedra di Piscicelli non si è rispecchiata criticamente in quella di Racine per la buona ragione che era la stessissima Fedra, sia pure rivisitata tre secoli dopo.
Spieghiamoci. Regina racconta la la vicenda d'amore tra Regina, un'attrice ormai matura, e Lorenzo, ragazzo, più o meno, "di vita". Regina è una donna colta e ambiziosa; Lorenzo è un fusto che non si perita di apparire nei fumetti porno. Lorenzo è attirato da Regina come ogni adolescente è attirato da una donna che potrebbe essere sua madre; a sua volta Regina è attirata da Lorenzo come ogni donna matura può essere attirata da un uomo che potrebbe essere suo figlio. Di solito, l'adolescente è grato alla donna come ad una seconda madre; la donna, dal canto suo, è grata all'adolescente perché recupera attraverso il suo amore il dispendio della maternità. In parole povere e in barba a tutti i tabù, i due commettono un vero e proprio incesto.
Tutto ciò Racine non lo sapeva anche se, ovviamente, lo sospettava, perché il suo mondo non era quello di Freud bensì quello di Euripide e di Seneca. Eh già, come ci fa notare Foucault nel suo saggio "La volontà di sapere", noi contemporanei di Freud abbiamo "creato", per sete di conoscenza, il discorso sessuale che ai tempi di Racine era confinato, ancora embrionale, nell'ombra dei confessionali. Ma Piscicelli ha certamente letto Freud; così si resta meravigliati che, nonostante questa lettura, la sua Fedra sia in fondo raciniana, con tutte le sforzature e le violenze "esterne" e appunto perché esterne non drammatiche, di una interpretazione tutto sommato tradizionale di un tema tradizionale.
Insomma il rispecchiamento postmoderno è venuto a mancare. Regina che si vede nello schermo della televisione in atto di interpretare la parte di Fedra in fondo si dispera perché ci vede la Fedra di Racine e non quella di Piscicelli.
Ma Piscicelli è un regista dotato, sofisticato e, sopratutto, ambizioso. Si è parlato di Fassbinder. Sì, ma a patto di stabilire delle differenze significative: il tedesco è torbido ed emotivo; il napoletano, freddo e razionale».

Alberto Moravia ( «L'Espresso», 17 maggio 1987)


Baby Gang (1992)

Regia: Salvatore Piscicelli; soggetto e sceneggiatura: Carla Apuzzo e Salvatore Piscicelli; fotografia: Franco Di Giacomo; scene e costumi: Franz Prestieri; suono presa diretta: Roberto Petrozzi; musica: Rosario Del Duca; montaggio: Franco Letti. 35mm colore. Durata: 82'.
Interpreti e personaggi: Marco Testa (Luca), Daniele Marchitelli (Mastino), Rino De Maso (Bucaneve), Claudio Boccalatte, Andrea Mandolini, Gennaro Cannavacciuolo, Iaia Forte, Liliana Del basso, Pina Cipriani.
Produzione: Carla Apuzzo per Falco Film

«Baby Gang è un piccolo, perfido film che scioglie le storie di malavita infantile in un ritmo da ballata favolistica: fragile e rapsodico ma, in realtà, terribilmente drammatico nella sua apparente assenza di tensione. Il biondino di nome Luca, che va a far visita al fratello maggiore ed alla sua parimenti disperata compagna in uno squallido casermone dell'hinterland, non è un personaggio metaforico, un simbolo che cammina. E' proprio un bambino di nove anni di condizione sociale neanche catastrofica, che gioca incosciente al videogame dell'autodistruzione, della violenza e della morte. Il suo è un apprendistato persino allegro, un po' nella linea dei ragazzi di vita pasoliniani, un po' in quella dei giovanissimi gangster ebrei di C'era un volta in America: Piscicelli lo segue con la sua macchina da presa agile ed indecifrabile, incollata con nonchalance alle camminate inutili, alle coazioni a ripetere della sopravvivenza, alle apparizioni ectoplasmatiche dei militanti dell'emarginazione.
Un film strano, a volte imbarazzante nella sua tragicità accettata e normalizzata, che racconta come in ipnosi fatti assurdi o scandalosi senza garantire allo spettatore la solita uscita di sicurezza pedagogica».

Valerio Caprara («Il Mattino», 5 dicembre 1992)


Il corpo dell'anima (1999)

Regia: Salvatore Piscicelli; soggetto: Salvatore Piscicelli; sceneggiatura: Carla Apuzzo e Salvatore Piscicelli; fotografia: Saverio Guarna; scenografia e costumi: Franz Prestieri; suono in presa diretta: Roberto Petrozzi; musica: brani di musica classica scelti da S. Piscicelli; montaggio: Salvatore Piscicelli. 35mm colore. Durata: 105'.
Interpreti e personaggi: Roberto Herlitzka (Ernesto), Raffaella Ponzo (Luana), Ennio Fantastichini (Mauro), Sabina Vannucchi (Gemma), Gianluigi Pizzetti (Sandro).
Produzione: Enzo Gallo per Metropolis Film.
Premio della rivista “Duel” come miglior film italiano dell'anno.

«Sarebbe bello se si trovasse un pubblico per un film azzardato e rigoroso come Il corpo dell'anima: magari la gente che va a teatro, che legge libri. A questi ultimi in particolare dovrebbe ricordare qualcosa la trama della pellicola inserita in un filone che, partendo da "Senilità" di Svevo arriva a "Un amore" di Buzzati. E' l'antica storia dell'uomo in volgere di età che l'apparizione casuale di una ragazza giovane fa vivere un'estate di San Martino, intesa tutt'altro che come l' "età della pace" di cui parla ironicamente Freud. Qui è di scena lo scrittore Ernesto, vedovo, autosegregatosi in una villetta romana del quartiere Coppedé, schiavo di abitudini e manie. Lo scuote dalla sua indifferenza una prosperosa cameriera borgatara, Luana, che gli si infila in casa e quasi gli impone le sue grazie con spregiudicata naturalità, risvegliandolo alla vita; e non senza illuderlo e deluderlo, ingelosirlo, imbarazzarlo, imbrogliarlo e cornificarlo. Scandito sulla lettura dello stoico e notarile diario del protagonista, Il corpo dell'anima, pur avendo molti punti di contatto con i menzionati precedenti letterari, approda a un finale che sancisce con un gesto tangibile la valenza positiva del rapporto tra i due. Insomma, quello che da una parte poteva sembrare follia senile, dall'altra ordinario puttanesimo, era in realtà l'incontro di due esseri umani. Non manca un risvolto professionale, con le chiacchiere fra Ernesto svogliato sceneggiatore e un amico regista: anche qui Piscicelli riesce a trovare un accento di verità quasi mai presente nel cinema sul cinema».

Tullio Kezich («Corriere della Sera», 22 maggio 1999)

« (...) L'eros ingenuo e sfrontato di Luana, domestica e poi amante ovvero "educatrice" di Ernesto, saranno per il maturo intellettuale, a lungo diviso fra attrazione e ripugnanza, un vero cammino verso la conoscenza. Di sé, dell'altro da sé, della gioia che questo incontro può dare. Purché se ne sia degni. Che non significa essere alla sua altezza, anzi. Per Ernesto si tratta, semmai, di abbassarsi, di degradarsi. Di rinunciare alla sua corazza di cultura e buon gusto. Di scendere dal piedistallo delle differenze di classe per accettare quanto Luana può offrirgli. E cioè ebbrezza, abbandono, fisicità. Il prezzo è alto, bisogna patire privazioni e umiliazioni. Ma dietro la scorza triviale di Luana, il suo accento strascicato, i filmetti zozzi, le provocazioni con cui esalta o esaspera il povero Ernesto, brilla la promessa di una felicità ignota, quell'estasi, quella rinuncia a se stessi che è l'obiettivo supremo dei mistici. E che consentirà al protagonista, ormai pacificato, di architettare il più inatteso degli happy end. Piccolo prodigio laico per un film terso, controllato, molto personale, estraneo a qualsiasi moda».

Fabio Ferzetti(«Il Messaggero», 4 giugno 1999)


Quartetto (2001)

Regia: Salvatore Piscicelli; soggetto e sceneggiatura: Salvatore Piscicelli; fotografia: Saverio Guarna; scenografia e costumi: Nicoletta Taranta; suono in presa diretta: Roberto Petrozzi; montaggio: Salvatore Piscicelli. Digitale in fomato DV-CAM trasferito in 35mm colore. Durata: 100'.
Interpreti e personaggi: Anna Ammirati (Eva), Beatrice Fazi (Angelica), Maddalena Maggi (Francesca), Raffaella Ponzo (Irma), Valeria Cavalli (Sofia), Francesco Venditti (Guido), Leonardo De Carmine (Roberto), Ida Di Benedetto (Elena), Armando De Razza (Aldo), Roberto Herlitzka (Paolo), Susanna Marcomeni (Adele).
Produzione: Paola Ermini per Làntia Cinema & Audiovisivi.

"L'ultimo film di Salvatore Piscicelli, Il corpo dell'anima, raccontava una delle storie più belle ed estreme di questi anni, l'incontro improbabile e poi travolgente fra un anziano sceneggiatore molto colto e solitario e una giovane dai modi spicci che attraverso il sesso gli riportava in casa il rumore e l'odore del mondo; fino a condurlo alle soglie del­l'esperienza mistica.
L'attrice che prestava il suo corpo da Venere primitiva e il suo romanesco di periferia, a quel personaggio memorabile, Raffaella Ponzo, torna ora in Quartetto, ma come dice il ti­tolo non è più sola. Intorno a lei ci sono altre tre giovani in­terpreti che nel film portano forse qualcosa di più del loro mestiere. E anche il rapporto fra generazioni e culture, caro da sempre a Piscicelli, è al centro di Quartetto. Solo che stavolta i "vecchi" sono fuori scena.
Sono i padri assenti, in varie forme, di queste quattro giovani attrici dalle vite iper­tecnologiche e confuse. Sono il patrigno – agente - amante di Francesca (Madda­lena Maggi). Sono il Famoso Attore scomparso che pesa sul­la vita e sulla carriera di Ange­lica (Beatrice Fazi), senza nemmeno essere il suo vero padre. Sono il genitore mai co­nosciuto di Irma (Raffaella Ponzo), che la figlia rintraccia grazie alle foto sexy sul suo sito Internet (ed è bellissimo il loro paradossale colloquio, con Roberto Herlitzka che non sa, non è sicuro, non ricorda quella donna amata fugacemente tanti anni prima…). Mentre Eva (Anna Ammirati) si vede invadere casa, e non solo, dalla madre in fuga (Valeria Cavalli, mai così toccante).
E intanto, fra Internet e su­shi bar, amori tossici e tentati suicidi, film che non si faran­no mai e film fatti in casa (An­gelica riprende tutto in vi­deo), Piscicelli, che gira anche lui in digitale secondo le rego­le convulse del "Dogma" di Lars Von Trier, supera il sen­so di spaesamento iniziale per dar forma a un acre e forte sentimento del presente. Co­gliendo, complice la bella am­bientazione di Nicoletta Ta­ranta, tutto il nomadismo, la confusione, il dolore di un mondo che nessuno, specie in Italia, aveva ancora guardato così da vicino. "Generazione chat", potremmo dire. Per stringere in uno slogan l'acce­lerazione tecnologica che scan­disce e deforma le vite delle protagoniste.”
Fabio Ferzetti (“Il Messaggero”, 4 dicembre 2001)

The rules and discipline demanded by the Dogma 95 credo have never been Italian directors’ cup of tea, making “Quartet” a rara avis attempt to explore the Danish back-to-basics philosophy in an Italo setting. The result is paradoxically Mediterranean: sexual, voyeuristic and dramatic. Story of four actress friends in their 20s that showcases four new acting talents, this small, aggressively unpretty film by Neapolitan-born veteran Salvatore Piscicelli (“Immacolata and Concetta,” “Body of the Soul”) should make an attractive fest item.

Pic opens on a failed suicide attempt by Angelica (Beatrice Fazi) during a New Year’s Eve party. Her mother (Ida Di Benedetto), who is being operated on for cancer, has revealed Angelica is not her own daughter, and Angelica is still crazy about the boyfriend who dumped her. She decides to use her small digital camera to shoot a vengeful film about him, herself and her friends.

Her best pal, Eva (Anna Ammirati), from Naples, balances on a razor’s edge with her perverse b.f., Guido, who’s into group sex until he meets Eva’s mom, Sofia (Valeria Cavalli), who turns him on even more. The other two leads are Francesca (Maddalena Maggi), the most successful actress of the lot, who lives with her father substitute/agent/occasional lover, Aldo; and Irma (Raffaella Ponzo), an uncomplicated sex kitten who feels uncertain about accepting Francesca’s bedroom overtures.

Piscicelli interweaves these four soapy threads beautifully, playing the boundary between comedy and melodrama with laid-back confidence. The constantly moving camera eye, whipping this way and that, is tiresome and tiring at first, but eventually becomes part of the story. (It could often be Angelica shooting.) Compared with Scandi Dogma efforts, the film takes a light-hearted approach to its own narcissism, winking at the audience while waving its iconoclasm like a bullfighter’s cape.

Four attractive main thesps slip into their roles like a tight evening dress — not surprisingly, as the characters were written specifically for three of them. The women are unusually individualized and, in general, are convincingly motivated in pursuing their convoluted, taboo love affairs. The chummy ensemble work is a big plus.

Saverio Guarna’s camera shamelessly explores the DV medium’s freedom in extreme closeups and invasive zooms. On the bigscreen, the grainy blowup to 35mm is a bit hard on the eyes.

By Deborah Young, Variety, 21 dicembre 2001

 
 
Alla fine della notte (2003)

Regia: Salvatore Piscicelli; soggetto e sceneggiatura: Salvatore Piscicelli; fotografia: Saverio Guarna; scenografia: Rossella Guarna; costumi: Nicoletta Taranta; suono in presa diretta: Fulgenzio Ceccon; musica: Eugenio Colombo; montaggio: Salvatore Piscicelli. 35mm colore. Durata: 95'.
Interpreti e personaggi: Ennio Fantastichini (Bruno), Elena Sofia Ricci (Viola), Stefania Orsola Garello (Fiamma), Ricky Tognazzi (Filippo), Ida Di Benedetto (Celeste), Toni Bertorello (Carlo), Roberto Herlitzka (analista), Anna Ammirati (Gloria).
Produzione: Enzo Gallo per Centrale d’Essai.

Salvatore Piscicelli, il miglior cineasta della nuova Napoli, continua il suo itinerario sofferto e appartato, tanto lucido e rigoroso quanto impermeabile ai diktat dei «fratelli del clan». Giovane, più che giovanile, nell'animo e quindi nel rapporto con la scrittura delle proprie emozioni, Piscicelli non indica la strada neppure ai più strenui dei suoi adepti: come dimostra ampiamente Alla fine della notte, un film che sembra un'opera prima nello stesso momento in cui decide di tirare le fila di un'intera vita artistica.
Il cinema non serve per rimirarsi in uno specchio stilistico; diventa, piuttosto, la chiave per dare un senso alle visioni che tormentano la purezza originaria di una vocazione e di un talento. Così l'eccellente Ennio Fantastichini (al suo fianco ci sono Roberto Herlitzka, Ida Di Benedetto, Toni Bertorelli, Elena Sofia Ricci), attore-regista di mezz'età in crisi, intraprende un viaggio iniziatico che lo riporta a Napoli senza tuttavia risolvere alcun quiz esistenziale.
Da una parte ci sono gli incontri umani, con l'ingombrante corredo di ricordi, traumi, flash subliminali e rimpianti: amici che ne hanno condiviso le passioni, donne che l'hanno tradito o l'hanno amato, una zia leopardiana sui generis, la moglie da cui sta per divorziare che gli annuncia di essere incinta, uno psicoanalista che insegna a convivere con la depressione, un filosofo omosessuale, il padre indegno che gli funestò l'infanzia provocando il suicidio della sorellina. Dall'altra, il pellegrinaggio si sfalda nel vortice sin troppo prezioso dei dialoghi, che poi si posano - come una polvere pietosa e terapeutica - sui canyon desertici e inariditi del tempo perduto.
È ­chiaro che la linea di direzione geografica dal nord al sud offre una chiave di lettura peculiare, ma il tono si mantiene sempre dissonante, eccentrico, destrutturato come in una composizione schonberghiana: Piscicelli non vuole aderire del tutto alla metafora, né sovrapporsi all'autonoma logica della narrazione che -come succede ai veri autori- deve restare tale. La sua coraggiosa «impudicizia», nel senso basico del termine, risalta tutta nel confronto conclusivo, un pezzo di bravura che sembra trasportarci nell'acme fiammeggiante di un melodramma all'antica.”

Valerio Caprara (“Il Mattino”, 2 luglio 2003)
 

After a brief flirtation with DV and Dogma, helmer Salvatore Piscicelli is on a more fluid track with his exploration of an actor’s midlife crisis in “At the End of the Night.” Plot uses the well-worn formula of a physical journey as a portal to inner discovery, but things stay fresh thanks to first-rate script and spot-on casting. With its well-told story and satisfyingly ambiguous ending, pic should nestle nicely into fest slots as well as Italophile screens at home.

Bruno Spada (Ennio Fantastichini) is a successful actor and director whose depression makes him question his choices, past and present. He revisits the people who made him happy, but finds he has to dig deeper to understand his behavior. First stop is Tuscany and ex-g.f. Viola (Elena Sofia Ricci), who a decade earlier put the kibosh on their relationship and settled down with nice, stable Filippo (Ricky Tognazzi). Now she’s being cheated on, and Bruno’s return leads her to probe her own past.

Back in Rome, Bruno’s wife Fiamma (Stefania Orsola Garello) suggests they speed up their separation; she loves him but recognizes the marriage has been a disaster, not least thanks to his incapacity for fidelity. Always running away from emotional skirmishes, Bruno leaves for Naples and the aunt (Piscicelli regular Ida Di Benedetto) who took care of him when he was young. More inner ghosts are examined as he explores his childhood stomping grounds.

Auds familiar with Piscicelli’s previous efforts (“Immacolata and Concetta,” “Body of the Soul,” “Quartet”) will be surprised at how little flesh is exposed, but the psychological acuity he’s demonstrated before doesn’t fail him here. The superb cast members embody their characters to perfection, with Garello a marvel in an extended confrontation with her faithless husband. Scene is given space to breathe, and she conveys love, exhaustion and pain, without melodrama.

Opening shots are a technical standout, with graceful camerawork that elegantly describes space as it glides inquisitively through Bruno’s therapist’s room. Lensing throughout is accomplished, but the grace of those few minutes sticks in the memory.

Jay Weissberg, Variety 18 giugno 2003



Vita segreta di Maria Capasso (2019)

Regia: Salvatore Piscicelli; soggetto e sceneggiatura: Carla Apuzzo e Salvatore Piscicelli, dal romanzo omonimo di Salvatore Piscicelli; fotografia: Saverio Guarna; scenografia: Franz Prestieri, Antonella Di Martino; costumi: Alessandra Torella; suono presa diretta: Luca Ranieri; montaggio: Salvatore Piscicelli, Marco Guelfi.
Formato: 2.35:1 DCP; durata: 96'.
Interpreti principali: Luisa Ranieri, Daniele Russo, Luca Saccoia, Marcella Spina, Roberta Spagnuolo, Nello Mascia.
Produzione: Palomar, Zocotoco con Vision Distribution. 

Qual è la guerra di Maria? Maria è una donna, del sud, è una lavoratrice precaria, è madre di tre figli e moglie di un uomo ammalato di cancro. La sua guerra è con la vita. Qual è la scelta inusuale di Maria? Maria sceglie di non essere vittima di una condizione sociale che la pone, spalle al muro, di fronte alla sua povertà di mezzi, sceglie di essere una donna fuori dal comune e di prendersi, con forza prepotenza e spregiudicatezza, ciò che, di norma, non è concesso così facilmente a molti né, tanto più, a troppe donne: Maria si prende tutti insieme in una volta sola soldi, sesso, libertà, successo e vita sicura. Certo dovrà per questo rinunciare a qualcosa, forse proprio a quell’amore da lei stessa declamato nella didascalia iniziale del film “Mi chiamo Maria Capasso, ve lo dico papale papale, non me ne frega un cazzo di quello che la gente potrebbe pensare di me: ho agito per amore e tanto basta”, ma la verità è che Maria è un personaggio vincente, anche se la sua storia è un percorso ad ostacoli tra l’impossibilità di conservare un’ etica da donna perbene e la volontà di riscuotere dalla vita il giusto premio dei propri sacrifici.
Abbiamo ormai imparato a conoscere e ad amare le inusuali donne di Salvatore Piscicelli: come già Immacolata (Ida Di Benedetto) e Concetta (Marcella Michelangeli) 40 anni fa (1979) sfidavano una precostituita ostilità maschile, le inossidabili convenienze familiari e i secolari tabù sociali, come già Rosa (una Marina Suma esordiente premiata col David di Donatello per questa sua prima interpretazione nel 1981) accettava di prostituirsi come alternativa estrema all’impossibilità di migliorare le sue chance, ora anche Maria (una perfetta Luisa Ranieri), sola contro tutti, sale sul ring della vita decisa a fare a botte con chiunque provi a frapporsi come ostacolo tra lei e ciò che vuole. Donne che da strumenti passivi nelle mani degli uomini (amanti, mariti o padri) si fanno capaci di reinterpretare soggettivamente la loro esistenza, affermando la propria vera identità, ancorché sgradevole o negativa.
La cosa più avvincente di La vita segreta di Maria Capasso è infatti l’evoluzione drammatica e narrativa della sua protagonista. Presentataci dapprima nei panni innocui di una qualunque (una tra tante) mamma di casa, moglie devota ed affettuosa (pensa al pigiama nuovo da comprare per il ricovero del marito, si occupa dei figli), lavoratrice indefessa e anche un po’ sfruttata di un centro estetico della periferia napoletana, poco alla volta si accende di una luce del tutto nuova. Maria dà luogo ad una radicale trasformazione, sottolineata, inoltre, dal suo trasferimento topografico dalla periferia di Napoli al Vomero, simbolo per eccellenza dell’exploit sociale ed economico della donna.
Questa metamorfosi è perfettamente espressa dal linguaggio cinematografico, a partire dal ritmo del racconto che da tenue si fa via via più aggressivo, dai colori di scenografie e costumi che cambiano (si passa dalle tinte chiare e luminose, nei vestiti fiorati, negli arredi, in esterni, a colori sempre più cupi e vicini al nero), da uno stile per così dire chiassoso, partenopeo, dell’immagine nel suo complesso, ad uno più moderno e lineare, sobrio. Il miracolo della trasformazione è senz’altro merito di una fortissima sceneggiatura, accompagnata dal talento innegabile di Luisa Ranieri. A inizio e fine film, pare di aver conosciuto due diverse protagoniste, appunto quella consueta, civile, accettabile, lodevole, in panne... e poi il suo doppio segreto, nascosto, la parte più cupa di ognuno di noi, la Maria volitiva, decisionista, risolutiva.
Maria agisce per salvarsi, per migliorare la sua posizione. Lo fa per sé e per i suoi familiari, ma considerando il modo in cui si comporta con “l’innamorato” della figlia maggiore, non vediamo l’amore per il prossimo come movente principale della sua azione, piuttosto quello per sé stessa. Quello di Maria è un amore spropositato per sé stessa, un desiderio forte di auto-rivendicarsi, di riconoscersi, affermarsi, in questo sì, molto vicina all’essenza di Filumena Marturano. Siamo naturalmente portati ad apprezzare parecchio questo tipo di egoismo femminile, di autostima esasperata, in un contesto che dimostra quotidianamente quanto ancora ci sia da fare per liberare le donne dall’egemonia maschile, dallo schiacciamento della loro emancipazione tra cura e lavoro subìto, più che agito. Siamo convinti che il messaggio del film, se ha ancora un senso parlare di message, ancorché travestito da una patina di maledettismo noir, sia molto forte e positivo. Proprio perché, una volta tanto, è una donna a prendere in mano la sua vita e a rifiutare ciò che altri, o un destino infame e sfortunato, hanno previsto per lei. La vita segreta di Maria, insomma, non ci indigna e ci piace assai.
(Recensione di Francesca Divella, dal blog Cinefilia Ritrovata della Cineteca di Bologna, 18 luglio 2019)
 
Non trascurate il nome del regista: Salvatore Piscicelli, 71 anni, da Pomigliano d’Arco, esponente di punta con Immacolata e Concetta, Le occasioni di Rosa e Blues metropolitano del verismo napoletano degli anni Ottanta, da qualche tempo anche acuto romanziere. Vita segreta di Maria Capasso nasce da un libro dello stesso Piscicelli, pubblicato nel 2012, che segue i tormenti dell’estetista part time Maria, andata in sposa giovanissima all’operaio Antonio. Il quale l’ha aiutata ad emanciparsi da una condizione di sottomissione familiare e a cui ha dato, per amore e gratitudine, tre figli e una dignitosa normalità.
Le convenzioni sociali l’hanno costretta a stringersi in una dimensione domestica, ma la bella signora ha saputo adattarsi. Eppure il terremoto è vicino: Antonio si ammala e Maria perde le sue certezze. Ha il terrore di non farcela da sola e cede alle lusinghe di un ex spasimante, il faccendiere da autosalone Gennaro che approfitta della sua debolezza e la trascina nei suoi loschi giri. L’agnello, a questo punto, si trasforma in una tigre: la delusione spinge Maria a diventare una terribile vendicatrice, sagomando la sua reazione sul degradato contesto.
Piscicelli gioca in casa nell’illustrare la devastazione dei sentimenti e la perdita dell’innocenza, quando il lato oscuro dell’esistenza sfiora l’orizzonte di Maria, lasciando affiorare figure storiche della letteratura e del teatro napoletano, lanciando lo sguardo sul cambiamento di una città che vuole tornare a sognare, mescolando linguaggi, stili, volti in un melting pot meridionalista che vale un’indagine antropologica. Il racconto è asciutto e per molti versi anche convincente, nonostante una vena di amoralità che attenua il pathos e fa perdere di vista la linea psicologica dei personaggi. Se Napoli è soprattutto uno stato emozionale, Luisa Ranieri si conferma l’attrice in questo momento più adatta a intercettarne l’anima e la voglia di rinascere.
(Recensione di Paolo Baldini da Corriere della Sera, 21 luglio 2019)


Immacolata, Concetta, Rosa, Regina, Maria Capasso. Le donne, si sa, nel mondo cinematografico e letterario di Salvatore Piscicelli hanno un peso fondamentale, una valenza significante imprescindibile e non è un caso che quando sono protagoniste assolute i loro nomi sono presenti nel titolo dei film, quasi ad enunciare l’inequivocabile centralità narrativa del ruolo femminile e a sottolineare il tutt’uno con il contesto, la storia e i personaggi. Non si tratta infatti di attrici (di volta in volta Ida Di Benedetto, Marina Suma, e ora Luisa Ranieri), muse ispiratrici transitorie o di icone seducenti buone per l’uso. Ma di corpi e volti dall’incisiva funzione scultorea, perché Piscicelli, se non è l’unico, è uno dei pochi autori napoletani che quando parla della sua città scolpisce, gli altri in genere dipingono, descrivono, non affondano, lui incide a fuoco queste figure femminili caricando sulle loro “spalle” le stratificazioni culturali, le contraddizioni storiche irrisolte, gli equivoci della necessaria rappresentazione oleografica (di destra o di sinistra) della città per raccontare storie spesso universali.
Ecco perché si può permettere di lasciare spesso la città “fuori campo”, di limitarsi allo stretto necessario di panorami, zone periferiche, frammenti di quartieri, come fa anche in Vita segreta di Maria Capasso, il nuovo film scritto come sempre con Carla Apuzzo sulla base del suo omonimo romanzo uscito nel 2012. Lui sa che Napoli è una città “femmina” e come tale – anche in termini di messa in scena e costruzione visiva – è seducente e insidiosa, affascinante e pericolosa, esuberante e sovraesposta.
Anche questa come e più delle altre precedenti, è una storia di dolore, di riscatto, di orgoglio, di rancore, di volontà di affermare con qualsiasi mezzo un’identità e un ruolo. E Luisa Ranieri è perfetta per dare alla sua escalation sociale il segno di una crudeltà per accompagnarla con un riscatto morale. Il regista ha sfruttato come meglio non si poteva il vantaggio di essere anche l’autore del romanzo al quale ha attinto, asciugando, rivedendo e correggendo il rapporto della protagonista con il contesto criminale e con la città per stare sempre su di lei, farne il veicolo/detonatore/termometro icastico, coinvolgente ed empatico di umori e allusioni.
La storia di Maria estetista part time, sposata giovanissima con un onesto lavoratore da cui ha avuto tre figli è quella di una vita come tante della periferia popolare di Napoli, fatta di sacrifici e fatica quotidiana per arrivare a fine mese. Quando al marito viene diagnosticata una malattia in fase terminale, lei accetta l’aiuto di Gennaro (ottima la performance di Daniele Russo), ricco e ambiguo proprietario di un autosalone diventandone l’amante. Un giorno lui le propone di diventare partner in affari: trasporterà un carico di cocaina fino in Svizzera. Una volta divenuta vedova, il legame con Gennaro la farà precipitare in un vortice criminale, che le permetterà finalmente di vivere nuove possibilità e coronare vecchi sogni. Ma la strada scelta da Maria per la sua personale rivincita lascerà dietro di sé le sue inevitabili vittime, proprio come in una guerra che non guarda in faccia nessuno.
Solo Piscicelli, ex critico militante e raffinato, poteva raccontare una storia molto napoletana nel contenuto e molto euroamericana nella forma (le citazioni non pedanti di alcuni suoi amori come Sirk, Fassbinder, il cinema giapponese, Hitchcock, Godard). E solo lui poteva scegliere un’interprete ideale per le caratteristiche di un ritratto letterario a tutto tondo di una donna fortemente ambigua, affascinante nel suo vitalismo, nei suoi dubbi, nelle sue paure, nelle sue speranze, nella sua determinazione e al tempo stesso calibrare atmosfere, ritmo e pregnanza dell’eroina sulle caratteristiche espressive e cinegeniche di Luisa Ranieri. E il cambio di segno grafico dagli anonimi piedi con tacchi a spillo della Capasso della bella copertina del romanzo edito da e/o al primo piano dell’attrice con occhiali scuri del seducente manifesto del film è abbastanza eloquente dell’accentuazione del versante dark lady.
Tra thriller e melodramma familiare, Maria si trasforma gradualmente da dark lady per costrizione a dark lady per scelta, in sintonia con il passaggio da casalinga disperata a imprenditrice cinica e ambiziosa. E l’apertura e la chiusura parabrechtiane circoscrivono una vicenda femminile impregnata dell’emergenza dell’oggi e della speranza del domani e l’asse femminile si allunga dalla spietata madre alla vulnerabile e indifesa figlia, da una donna che dopo aver costretto il losco individuo ad intestarle un centro estetico e una casa a una ragazza che diventerà mamma.
Piscicelli è un autore post(neo)realista, non può fare a meno di raccontare la realtà che conosce meglio ma sempre con la distanza e il distacco necessari per ricordarci che è un problema di percezione della realtà, che si tratta di un’Imitazione della vita come s’intitola il volume che raccoglie i suoi scritti di cinema, in linea con quanto il grande critico letterario tedesco Auerbach sosteneva negli anni quaranta in Mimesis. E forse sono proprio la formazione critica e la conoscenza del legame complesso e problematico tra cinema e letteratura che hanno consentito all’autore di differenziare soprattutto il suo rapporto con il romanzo di partenza e con il film che ha girato.
Nell’eterna questione se in questi casi è meglio che il regista affidi ad altri la sceneggiatura per conservare il giusto distacco o è preferibile avere un controllo totale sulla materia letteraria, disquisizione accademica che poi alla fine ha solo partorito spesso ibridi o aborti o comunque risultati deludenti, Piscicelli se l’è cavata egregiamente con la misura e la lungimiranza giuste per rinvigorire cinematograficamente il romanzo e al tempo stesso evitare le trappole letterarie e le tentazioni di replicare scolasticamente le pagine sullo schermo. Ed è proprio la Maria Capasso-Luisa Ranieri seducente e determinata a spostare provvidenzialmente le aspettative del lettore verso quelle dello spettatore.
(Recensione di Alberto Castellano da Fata Morgana, 21 luglio 2019)





Documentari


La canzone di Zeza

Regia e fotografia (16mm, colore) Salvatore Piscicelli e Giampiero Tartagni; in collaborazione con: Adriana Bellone, Cristina Ruiz, Nieves Zenteno; interpreti: Marcello Colasurdo (Zeza), Luigi Cantone (Pulcinella), Ugo Basile (Vicenzella), Matteo D'Onofrio (Don Nicola), Pasquale Terracciano (Sarchiapone); produzione: L’Officina cinematografica; origine: Italia; anno: 1976; durata: 36’.

In un cortile della vecchia Pomigliano, il Gruppo Operaio 'E Zezi mette in scena La canzone di Zeza, uno spettacolo cantato e danzato, interpretato da soli uomini (nei ruoli femminili en travesti), che tradizionalmente si rappresentava per le strade e nei cortili durante il carnevale. Lo spettacolo termina con il canto collettivo di Bandiera rossa.


Carnevale popolare a Pomigliano d’Arco

Regia: Salvatore Piscicelli; fotografia (16mm, colore): Giovanni Mercuri, Luigi Verusio; fonico: Claudio Gambini; produzione: Gruppo Cronaca; origine: Italia; anno: 1977; durata: 66’; teletrasmesso in due puntate.

Il racconto di un singolare carnevale anni settanta dedicato alle lotte degli operai, degli studenti e dei disoccupati.


Il rifiuto del lavoro e Tonino del Cavone

Regia: Salvatore Piscicelli; fotografia (video, b/n): Giannantonio Marcon; fonico: Carla Apuzzo; produzione: Cooperativa Cinema Democratico; origine: Italia; anno: 1977.

Il movimento dei disoccupati organizzati raccontato attraverso i ritratti di due militanti. Entrambi questi lavori sono andati perduti.


Marcello

Regia: Salvatore Piscicelli; fotografia (16mm, b/n): Giannantonio Marcon; fonico: Carla Apuzzo; montaggio: Carlo Schellino; con: Marcello Colasurdo; produzione: Cooperativa Cinema Democratico Milano; origine: Italia; anno: 1978; durata: 22’.

Un breve ritratto del cantante popolare Marcello Colasurdo ai primordi della carriera.


Bestiario metropolitano

Regia: Salvatore Piscicelli; fotografia: Giorgio Magliulo; programma ideato da: Salvatore Piscicelli ed Enrico Zummo; produzione: RaiTv-Rete 3 (regione Campania); 6 puntate di 30’ teletrasmesse dalla rete regionale dal 18 settembre al 11 novembre 1980.

Sei puntate dedicate ad altrettanti personaggi della scena urbana napoletana.


Tutti del bosco

Regia: Salvatore Piscicelli, Carla Apuzzo; montaggio: Massimo Palumbo Cardella; ricerche: Rosina Balestrazzi Giudici; produzione:Beppe Attene per Lantia Cinema & Audiovisivi e Rai per la serie “Alfabeto italiano”; origine: Italia; anno: 1998; durata: 50’.

Documentario dedicato al tema della magia nel meridione d'Italia, interamente realizzato con materiali di repertorio degli archivi Rai.


La comune di Bagnaia – Un frammento di utopia

Regia, fotografia (video, minidv) e montaggio: Carla Apuzzo, Huub Nijhuis, Salvatore Piscicelli; produzione: Falco Film, Belart Film; origine: Italia/Olanda; anno: 2005; durata: 95’.

Nel 1979, un piccolo gruppo di donne, uomini e bambini acquistano un podere nella campagna vicino Siena – la Montagnola, uno dei luoghi più belli e incontaminati della Toscana, oggi meta anche di un turismo d’élite, britannico ed europeo in genere – e vi fondano una comune ispirata ai principi del comunismo libertario. Rifiuto della proprietà privata, abolizione dei ruoli maschio-femmina, condivisione egualitaria delle risorse (“da ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”), messa in discussione del modello di famiglia nucleare tradizionale, apertura al gruppo dell’educazione dei figli, infine assunzione di una forma radicale di democrazia interna che – attraverso il metodo del consenso e rifiutando ogni genere di leadership e i concetti stessi di maggioranza e minoranza – punta in modo diretto a decisioni unanimemente condivise. Sulla base di queste idee-guida, ma con un approccio più pragmatico che ideologico, quelli di Bagnaia sono riusciti a costruire la loro piccola isola utopica e a farla durare nel tempo.
Sullo sfondo della festa per il venticinquennale della fondazione, il film racconta, attraverso la voce dei protagonisti, la storia di questa esperienza.

Una dichiarazione degli autori
Realizzare questo film è stato innanzitutto una bella esperienza umana: incontrare nuovi amici e ri-conoscersi, non tanto sul piano ideologico o generazionale, quanto su un comune, per così dire, sentimento del mondo. Questa empatia è stata parte del nostro approccio di autori.
Fin dall’inizio, volevamo fare un film che non fosse un generico ritratto della Comune di Bagnaia. Volevamo piuttosto registrare il racconto che gli stessi comunardi elaboravano sulla loro esperienza in un preciso momento della loro storia, il venticinquennale della fondazione. Un racconto corale, quasi un autoritratto della Comune, ma con ampie modulazioni individuali. Questo approccio, tutto interno al nostro soggetto, escludeva per principio, da parte nostra, ogni forma di giudizio o pre-giudizio di carattere storico, ideologico o sociologico; e implicava piuttosto, come nostro punto di vista, oltre all’empatia di cui sopra, una volontà di ascolto, e quindi di conoscenza, intorno a un’esperienza che riteniamo estremamente significativa entro il nostro orizzonte storico-politico e umano.
Il film ha quindi per noi una doppia valenza: quello di un documento storico e politico su un’esperienza che, pur essendo minoritaria, ben rappresenta le tensioni di un’intera generazione; e quello di un contributo di analisi e di riflessione intorno alle possibili alternative, al tempo stesso radicali e praticabili, su cui da qualche tempo è aperta la discussione all’interno dei vari movimenti di opposizione alla globalizzazione neoliberista.





La canzone di Marcello

Regia, riprese, montaggio: Salvatore Piscicelli
Riprese aggiunte: Timoty Aliprandi, Saverio Guarna, Huub Nijhuis
Assistente al montaggio: Cristiana Cerrini
Musiche: Marcello Colasurdo e Paranza
Genere: documentario
Durata: 51’
Formato: DV, 4:3 – colore e b/n
Produzione: Carla Apuzzo per Falco Film – Italia, 2006

"Ho girato questo film tra il 2004 e il 2006, filmando buona parte del materiale io stesso con la camera a mano. E’ un ritratto, per così dire, schizzato a matita dell’artista e del personaggio, un omaggio affettuoso e molto personale a Marcello, cui mi lega un’amicizia ormai più che trentennale."
Salvatore Piscicelli

Con la simpatia umana e la carica comunicativa che lo hanno reso così popolare presso il pubblico di Napoli e della Campania, Marcello ci racconta la sua storia e le sue esperienze, gli incontri con Fellini e Peter Gabriel. Ci parla della politica, della fabbrica, della camorra, della droga, della globalizzazione, della pace e della guerra. Ci conduce, quasi da sacerdote laico, in alcuni luoghi di pellegrinaggio dove si esprime quella religiosità popolare che ha ancora radici pagane. Lo vediamo mentre anima una discussione politica o una festa o quando trasmette l’arte della tammorra e la tradizione orale ai ragazzi del quartiere popolare dove vive. Lo seguiamo con la sua Paranza mentre canta e suona nelle piazze e sui palchi.
Arricchito da materiale degli anni Settanta, il film offre un ritratto a molte facce, denso di musica e di calore umano, di un artista autenticamente popolare.

Chi è Marcello Colasurdo
Di umili origini, Marcello trascorre l’infanzia in diversi collegi, prima a Napoli e poi nelle Marche. Verso i 12 anni, la madre lo riprende con sé.  La famiglia è molto povera. Vivono in un “basso” in fondo a un cortile della vecchia Pomigliano: un’unica stanza in cui si cucina, si mangia, si dorme; il servizio igienico è fuori, in comune con gli altri bassi.
In collegio, Marcello ha conseguito la quinta elementare. Ora si arrangia, come tanti ragazzi poveri della sua età, facendo i lavori più svariati: garzone di barbiere o di bar, raccoglitore di patate e d’altro in campagna, cantante di matrimoni… Sono questi gli anni della formazione musicale da autodidatta, a contatto col ricco tessuto culturale, contadino essenzialmente, che ancora sopravvive a Pomigliano d’Arco, che in quegli anni si è trasformato nel più grande polo industriale del meridione.  
Nel 1975 è tra i fondatori del Gruppo Operaio “’E Zezi”. Animato da Angelo De Falco, il Gruppo è tra i primi a operare un recupero della tradizione musicale contadina in una chiave di forte consapevolezza politica e sociale.
Intanto Marcello partecipa alle dure lotte sociali di quel periodo, in particolare con i disoccupati organizzati. Consegue la licenza media, indispensabile per trovare un lavoro decente, e infine, nel 1980, a 25 anni, entra in fabbrica, all’Alenia, come operaio addetto alle pulizie. Vi resterà fino alla metà degli anni Novanta, pur continuando a lavorare e a tenere concerti con i Zezi. 
Nel 1996, fonda il suo gruppo, “Marcello Colasurdo e Paranza”, con il quale produce un disco e tiene moltissimi concerti. Nel 2000, incide per l’etichetta inglese Real World Records di Peter Gabriel un CD, “Lost Souls” (“Aneme perze”), con il gruppo Spaccanapoli, con il quale continua a tenere concerti, soprattutto all’estero. Ha collaborato con tanti musicisti (Almamegretta, 99 Posse, Daniele Sepe, Nuova Compagnia di Canto Popolare, Maurizio Capone…), ha recitato in teatro (con Martone, Pressburger…) e al cinema (oltre che con Piscicelli, con Fellini – “Intervista” del 1987 - e poi con Capuano, De Bernardi, De Lillo). La ricchezza di questa esperienza fa sì che Marcello si trovi a suo agio in qualsiasi contesto: dai teatri tradizionali alle piazze di mezzo mondo, dalle feste popolari ai centri sociali, con artisti tradizionali e artisti d’avanguardia.

La tradizione musicale
La musica popolare, di cui Marcello è interprete principe, ha poco a che vedere con la pur straordinaria tradizione canzonettistica partenopea (anche se ne ingloba la parte più “paesana”). Essa è espressione diretta, e principale, della tradizionale cultura contadina dell’entroterra napoletano, legata al ciclo stagionale dei lavori e al calendario religioso, in particolar modo alle feste in onore delle varie Madonne Nere, eredi cristiane delle antiche divinità femminili della prosperità e dell’abbondanza. E’ una tradizione ricca di forme – canto libero (voce a fronne), canzone propriamente detta, rituali, tammurriate, fiabe cantate, vari tipi di danze, vere e proprie azioni teatrali (come la celebre “Canzone di Zeza”, che si recita a Carnevale con interpreti “en travesti”). Gli strumenti fondamentali sono la voce e la tammorra - il tradizionale tamburo che viene ancora costruito secondo le vecchie regole, spesso dagli stessi esecutori – cui si affiancano altri ingegnosi elementi percussivi (putipù, scetavajasse, ecc.) nonché, di volta in volta, chitarra, mandolino, fisarmonica, pifferi, ecc. E’ una musica dalla forte carica sensuale e partecipativa, che stimola immediatamente il movimento e la danza sfrenata; il che spiega il successo che sta ottenendo in questi anni presso il pubblico giovanile, che pure è così lontano dalle sue radici. In essa non è difficile avvertire echi arcaici, ma anche mediorientali e nordafricani. Negli ultimi decenni, questa musica, pur conservando il suo assetto tradizionale, è stata capace di contaminarsi con contenuti nuovi, legati alle lotte sociali e politiche, e di dialogare con altre forme musicali, come il jazz, il rock e il pop, in un movimento che riflette il processo sociale e culturale che sta alla base del suo recupero.



Altri film


Rose e pistole (1998)

Regia: Carla Apuzzo; soggetto e sceneggiatura: Carla Apuzzo, Salvatore Piscicelli, Marco Vajani; fotografia: Paolo Ferrari; scenografia e costumi: Franz Prestieri; suono in presa diretta: Andrea Moser; musica: Eugenio Colombo; montaggio: Salvatore Piscicelli. 35mm colore. Durata: 81'.
Interpreti: Anna Ammirati, Duccio Giordano, Luigi Petrucci, Cristina Donadio, Lello Serao, Mauro Gioia, Gianni Dal Maso, Marcella Vitiello, Stefano Sarcinelli, Enrico Caria, Stefania Pelella, Paolo Coletta, Giuseppe Schisano, Sergio Di Paola, Lello Giulivo, Giuseppe Labbate, Emad Ibrahim, Laura Sansone, Marina Sacchi, Valentino Cervini, Mario Aterrano, Rosario Barone, Imma Villa, Carlo Cerciello.
Produzione: Salvatore Piscicelli per Falco Film.

Nel singolare debutto di Carla Apuzzo, già sceneggiatrice di Piscicelli, il titolo Rose e pistole allude a due donne di nome Rosa, una giovane l'altra meno (Anna Ammirati e Cristina Donadio), una incinta dell'amante spacciatore, l'altra sposata al laido gestoredi una “hot line” che ricatta e corteggia la giovane. Ma anziché farsi la guerra le due Rose si alleano, sparano, sfuggono ad agguati e pericoli, neutralizzano compagni inetti o infidi, escono non illese ma vive da un microcosmo grottesco e tutt'altro che irrealistico dove convivono fianco a fianco droga e salutismo new age, “sex phone” e guru orientali, vita criminale e aspirazioni piccolo borghesi. Un bell'esempio di “noir” nostrano, allarmante e divertente insieme, che mutua da Tarantino e Takeshi Kitano la cronologia a singhiozzo e il gusto per quella fauna metropolitana che a Napoli e dintorni non è sicuramente meno varia che a Tokyo o New York.”

Fabio Ferzetti (“Il Messaggero”, 15 febbraio 1999)

Rose e pistole è una commedia nera tra l'archeologia industriale di Bagnoli e i Campi Flegrei, intreccio senza sociologia e senza politica dei microconflitti maniacali che hanno sostituito i grandi conflitti ideologici... Il primo film di Carla Apuzzo, sceneggiatrice e compagna di vita di Salvatore Piscicelli, è molto riuscito: sono personalissimi i ritmi e i linguaggi della vita caotica, la scelta degli attori, dei colori primari e degli ambienti degradati, l'andamento serpentino della narrazione scandita da cartelli, l'interpretazione forte di Anna Ammirati...”

Lietta Tornabuoni (“La Stampa”, 11 febbraio 1999)



(La filmografia è tratta dalla rivista Cinecritica del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani, integrata con quella messa a punto da Francesco Crispino in Alle origini di Gomorra. Salvatore Piscicelli tra nuovo cinema e neotelevisione, editore Liguori, 2011)



Reperibilità dei film

Di Immacolata e Concetta e Le occasioni di Rosa esistono due ottime edizioni in dvd della Ripley's Film reperibili negli store online, ad esempio qui e qui.

I dvd di Quartetto e Alla fine della notte sono reperibili occasionalmente su Amazon o Ebay.

Per Il corpo dell'anima, visitare questa pagina.

La comune di Bagnaia è visibile su YouTube qui.

Per proiezioni pubbliche di carattere culturale ci si può rivolgere alla Cineteca Nazionale, presso la Scuola Nazionale di Cinema di Roma, che detiene copie in 35mm e dvd di tutti i film di finzione di Salvatore Piscicelli.

2 commenti:

  1. In un articolo del 2005, sul Mattino, si accennava al progetto di un film ispirato a una storia scritta da Marguerite Duras, quarantenne innamorato di una bambina. Per favore, a quale storia si allude? Mi occupo del sito "Duras mon amour" e mi piacerebbe saperlo

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  2. Ti consiglio di guardare film di buona qualità https://filmsenzalimiti.page Mi è piaciuto molto il sito in generale

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