mercoledì 23 gennaio 2019

L'imitazione della vita, la postfazione di Gino Frezza

Gino Frezza
Un modello di critica filmica generazionale

La pubblicazione degli scritti di cinema prodotti, nell’arco di quasi mezzo secolo, da Salvatore Piscicelli costituisce non soltanto un valore in sé (essendo Piscicelli un autore del cinema italiano con, ormai, al suo attivo quasi quattro decenni di responsabilità creativa, e la cui esemplarità attiene sia al suo particolare modo di produrre, sia alla qualità delle storie narrate nei suoi film, in grado di anticipare fatti e fenomeni di incidenza sociale) ma anche una testimonianza speciale.
Chi legge, infatti, i suoi scritti di cinema da un lato può ricostruire la soggettività individuale del modo di esaminare e valutare il cinema da parte del “critico” e “saggista” Piscicelli (ricordiamo, in proposito, che egli forma la sua esperienza di uomo di cinema prima come critico, poi come autore, seguendo la linea di continuità già avviata e sperimentata, all’inizio degli anni sessanta, dai critici-registi della nouvelle vague francese, sull’onda di quel vivo legame istituito fra critica e produzione-regia nel cinema italiano degli anni Trenta/Cinquanta – basti pensare a figure come Blasetti, Antonioni, De Santis, Pietrangeli, ecc. L’autore Piscicelli che si afferma già col suo primo capolavoro, Immacolata e Concetta, nel 1980, viene preceduto in questo, nei tardi Anni Sessanta, per la sua precedente formazione da critico, forse soltanto da Dario Argento e pochi altri).
Ma dall’altro, per tramite di tali scritti, il lettore potrà risalire all’esperienza appunto soggettiva di una intera generazione di appassionati studiosi del cinema. I quali negli anni Settanta (specialmente nella prima metà, anteriormente all’avvento del cinema digitale che, radicalmente, cambia la scena del possibile filmico, a partire dal successo epocale di Star Wars nel 1977) valutano una serie di questioni nuove che, nei decenni precedenti, non avevano avuto motivo d’emergere e che, invece, da quel periodo, diventano questioni stringenti, importanti, decisive. Non soltanto per Piscicelli ma per l’insieme delle voci critiche che, fra tardi Anni Sessanta e primi Settanta, fanno venir fuori le tendenze di una posizione critica non assoggettata, che intende andare a fondo e non limitarsi a seguire la linea teorica dei padri, ma vuole accertarsi dei rapporti fra cinema e società, cinema e mondo, cinema e nuove realtà che si impongono in quel quadrivio di anni.
È una serie di interessi preminenti e di domande sul cinema che vengono sollecitate sia nei luoghi dove Piscicelli scrive (il quotidiano l’Avanti, la rivista Cinema Sessanta) sia sulle riviste che, appunto, fanno tendenza e sulle quali scrivono coloro che faranno un analogo salto dalla critica alla regia, dalla teoria alla produzione (soltanto due nomi: Maurizio Ponzi, Gianni Amelio): Cinema&Film (che inizia nel 1966 e chiude nel 1970), la più “istituzionale” Bianco&Nero collegata al Centro Sperimentale, Filmcritica (già esistente dagli anni Cinquanta e tuttora longeva e operante). Dentro questi spazi di dibattito e di riflessione, la questione dominante in quello scorcio dei primi Anni Settanta è come intendere il rapporto fra cinema e società, e fra cinema e politica, diversamente da un marxismo pedissequamente referenzialista (in polemica con riviste come Cinema Nuovo che portano avanti posizioni di stampo lukacsiano e vivamente ideologiche).
Veniamo per esempio al rapporto fra cinema e politica, sul quale Piscicelli scrive un saggio che, nell’ambito della teoria del cinema, si ispira quasi completamente al Walter Benjamin di L’autore come produttore, dunque secondo uno sguardo teorico fortemente innovativo, solidale con quelle nuove opzioni di teoria della cultura e dei media che, proprio in quegli anni, muovono i loro primi passi cercando una feconda interazione fra media, società e cultura, e secondo una versione non deterministica dei rapporti fra politica e media.
Fra i vari temi discussi, diviene dirimente la relazione fra cinema classico e cinema moderno: di qui l’interesse che, nelle recensioni come negli scritti di più ampio respiro, Piscicelli dimostra per autori come Chaplin, Mankiewicz, Cukor, Huston, Aldrich, Siegel, in ambito occidentale, e per un autore eccelso come Mizoguchi in ambito orientale. Alcuni film recensiti da Piscicelli costituiscono l’indimenticabile esperienza generazionale di una comunità di spettatori che si riconobbe in film come In viaggio con la zia (di Cukor) o Gli insospettabili (di Mankiewicz) o Chi ucciderà Charlie Varrick (di Siegel) perché identificò al loro interno i fermenti attorno ai quali il cinema classico, nelle opere di alcuni anziani e grandi autori di Hollywood, era definitivamente e irreversibilmente mutato.
E per quanto riguarda Mizoguchi, regista dalla sconvolgente modernità espressiva, Piscicelli scrive un saggio davvero ammirevole, alla ricerca di quegli elementi che uniscano forma e contenuto in una unità inscindibile – da lui identificati nel modo di Mizoguchi d’intendere e di praticare la profondità di campo e il piano sequenza, a loro volta intesi secondo il modo giapponese di praticare e intendere il rapporto fra teatro e cinema. Il Mizoguchi interpretato da Piscicelli non si riduce a una idea di cinema “realistico” o “poetico” o “umanista” (qui il nostro critico è implicitamente polemico verso le maniere semplificatrici della teoria critica italiana dell’epoca) ma diventa il campione di una ricerca formale ed espressiva (le nozioni di intensità e di durata del piano sequenza sono elaborate da Piscicelli con chiarezza stringente, al fine di pervenire al fondo delle competenze di un cinema esemplarmente drammatico e tuttavia in grado di sdoppiarsi in una sorta di sguardo metafilmico, riflessivo sullo statuto del medium – appunto a cavallo di una profonda unità fra teatro e cinema).
Nei suoi scritti fanno altresì capolino tematiche apparentemente speciali come il rapporto fra cinema e psicoanalisi (tema sul quale Piscicelli scrive un saggio ancora oggi estremamente attuale, intriso, com’è, dei fermenti, allora vivi, tessuti dalla svolta operata, nella psicoanalisi, da Lacan sulla scia di Freud, e dalle coeve opzioni interpretative della semiotica). Non era facile negli anni Settanta affrontare il dibattito sui rapporti fra cinema e psicoanalisi senza fare i conti con il retroterra di un pensiero marxista talvolta spintamente riduttivo della complessità dei media, eppure Piscicelli vi riesce, come egli stesso scrive, “al di fuori di ogni improvvisato amalgama tra marxismo e psicoanalisi, sociologia e psicoanalisi”.
O ancora vengono trattate le relazioni esplicite, o viceversa sotterranee ma cogenti, o persino concorrenti, fra cinema italiano e cinema americano: un cinema, quest’ultimo, che resta in ogni caso un termine di paragone essenziale rispetto al quale il nostro cinema deve, insieme, affermare la sua individualità ma, d’altronde, non può non prendere a esempio e sulla base del quale rintracciare e ribadire una sua tipica forma d’essere.
Gli anni in cui Piscicelli interviene su questi argomenti sono gli stessi – quelli dal 1970 al 1975 – in cui emerge il new american cinema (il cinema di registi che mutano la tradizione filmica statunitense come Peckinpah o Penn, Pakula o Friedkin o Ashby, o quello decisamente innovatore di giovani – lo erano allora – come Spielberg, Scorsese, De Palma, Lucas, Schrader, Milius, Hellman ecc.) verso cui l’attenzione critica di coloro (come appunto il nostro critico, futuro regista) che esaminano l’orizzonte verso cui si muove la nuova espressività del cinema americano è massima, fortemente e vivamente sensibile. Ecco allora che gli scritti dedicati a vari film di registi in quegli anni sulla cresta dell’onda (partendo dal Sam Peckinpah di Getaway e passando per i primi film di Woody Allen o di Peter Bogdanovich, per finire con il Martin Scorsese di America 1929 e di Mean Streets), segnalano una necessità fortissima: riconoscere lo statuto di una diversa qualità del rapporto fra narrazione e montaggio delle immagini e del sonoro (a quest’ultimo Piscicelli subito riconosce il valore autonomo che gli spetta nell’economia della forma cinematografica).
Gli scritti di Piscicelli si muovono in quel contesto e lo restituiscono, e anche lo interpretano e lo orientano, con una spiccata personalità. La quale non si sottrae a esigenze fondative della propria posizione critica.
Per esempio, in relazione al cinema italiano. Sul quale l’attenzione del nostro critico è avveduta con un raggio ampio di analisi e di notazioni. Proprio su questo tema, bisogna ribadire come la formazione del critico Piscicelli si costituisca entro una serie di esperienze importanti, che valgono – di nuovo! – per tutta la sua generazione: anzitutto, l’aver partecipato e aver potuto visionare le due rassegne dedicate al cinema italiano degli Anni Trenta e Quaranta, e tenute, nel 1975 e 1976, alla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro (Mostra per la quale Piscicelli fu uno dei responsabili organizzativi per anni, accanto a Lino Micciché). Tali rassegne modificarono l’idea del sistema produttivo e della qualità complessiva che il nostro cinema aveva saputo tenere già negli anni del regime fascista, con una libertà espressiva e una maturità teorica e culturale che, appunto, emerse con segno netto e distinto (restituito, inoltre, da una serie di quaderni di documentazione che la Mostra pubblicò e che, a tutt’oggi, restano fondamentali per testimoniare l’articolazione complessa di quella stagione creativa e produttiva – Aprà 1975, AA.VV. 1976).
Il saggio di Piscicelli dedicato al cinema di Alessandro Blasetti, Ferdinando Poggioli e Mario Camerini interviene in quest’ambito, rivendicando la necessità di rifare per intero l’indagine sul cinema italiano, secondo una più accorta, rispetto ad anni passati, “metodologia storiografica”, in grado di scrutarne le direzioni complessive, senza il peso di ideologie colpevoli di equivoci e di riduzioni nel giudizio complessivo (a partire proprio dal rapporto che il cinema italiano degli anni Trenta e primi Quaranta ebbe modo di tessere e praticare col Neorealismo).
Ma numerosi e vari, fra loro, sono altri scritti dedicati da Piscicelli a registi e a tendenze del cinema italiano del decennio dei Settanta, in una indiretta ma percepibile relazione colta nei confronti di forme espressive che, intanto, emergono nel cinema europeo (facendo venire a galla l’attenzione costante che egli ha tenuto verso il cinema francese e tedesco in particolare). Qui forse è utile operare una divergenza cronologica, che ci colloca in un periodo lontano dagli anni Settanta, ossia iniziare da un saggio che il nostro critico-regista pubblica nel 2002 (si tratta in verità della trascrizione di una conferenza tenuta alla Scuola Nazionale di Cinema a Roma nel 1999) e che riguarda la decisiva figura di Roberto Rossellini.
Si tratta però di una divergenza meramente occasionale, in quanto lo sguardo di Piscicelli restituito verso Rossellini a fine degli Anni Novanta dà conto di una conoscenza e di una prossimità da lui sempre coltivata nei confronti di questo iniziatore del Neorealismo (dunque in qualche modo sedimentata e cresciuta prima e durante gli Anni Settanta, quando il nostro regista faceva appunto il critico). Non a caso Piscicelli interpreta questo maestro capitale del cinema italiano (ritenuto, con le sue parole, “il padre della nostra modernità cinematografica”) nei termini del filosofo e del santo. Lo dice Piscicelli medesimo: non è una provocazione questa coppia di termini che sembrano inappropriati per Rossellini, semmai sono una chiave di lettura che penetra nel fondo della tensione che il regista di Roma città aperta e di Paisà (e altresì di opere fondanti il cinema moderno del secondo dopoguerra, così come di una ineguagliata maniera di fare “cinema televisivo”) ha sempre voluto e saputo praticare (sia come tensione espressiva sia, anzitutto, come tensione morale) fra il cinema e il reale. Fra il set e il pro-filmico, fra la tecnologia dell’innovazione filmica e la struttura del reale che questo straordinario occhio tecnologico incamera (letteralmente) e produce come immagine emozionalmente profonda, in grado di scuotere coscienze, quindi responsabilmente educativa. Anche il cinema televisivo di Rossellini per Piscicelli segue, sì, un programma di educazione didascalica ma non è né semplice né banale, tutt’altro: piuttosto al suo interno “illuminismo e enciclopedismo” pongono in atto una sorta di “utopia mediatica di formazione integrale”.
In questi passi, il critico riappare assieme al regista, esprimendo un’ammirazione feconda, per la quale egli da un lato vuole porsi da allievo, seppure a distanza, seppure su scala diversa e non del tutto comparabile, del grande maestro italiano, e dall’altro riesce a gettare uno sguardo, non riconciliato, in grado di precisare (come pochi hanno fatto) i dilemmi che Rossellini si è posto e a cui ha voluto dedicare una intera vita di creazioni e di progetti.
Si tratta dei dilemmi che si ripresentano tutte le volte che il cinema italiano osservato dal nostro critico-regista si mostra degno di esame e di approfondimenti. Il lettore dei suoi scritti può così constatare come l’attenzione verso il nostro cinema sia poliedrica e disposta ad ampio raggio: ecco le analisi sui film di esperti autori di commedie (dal Comencini di Lo scopone scientifico e di Delitto d’amore al Monicelli di Vogliamo i colonnelli e di Romanzo popolare al Lattuada di Cuore di cane, film che Piscicelli valuta come una bella “impennata” nella filmografia di un grande maestro, sempre dotato di vivissima intelligenza soprattutto nella complessa e ben riuscita traduzione filmica dell’opera letteraria di Bulgakov).
Ma, anche, ecco le attente e non peregrine recensioni dei film di autori sperimentali: non soltanto del Carmelo Bene di Salomé ma anche di Mario Schifano regista di Umano non umano e del Gianni Toti regista di E di Shaul e dei sicari sulle vie di Damasco. Non mancano nemmeno osservazioni molto precise su quegli autori che segnano una via mediana fra lo sperimentalismo e il film di produzione commerciale e tuttavia impegnata in una via “critica” della rappresentazione della realtà e della Storia: dal Marco Leto di La villeggiatura al Nelo Risi di La colonna infame al Maurizio Ponzi de Il caso Raoul al Peter Del Monte di Irene Irene al caso del tutto anomalo (nell’insieme, essendo collegato al mondo pasoliniano eppure libero e autonomo da questo), e tuttavia magistrale, come il Sergio Citti di Storie scellerate. Si tratta dunque di un panorama che conta, nel decennio dei Settanta, una varietà di posizioni ma tutte disposte a partire da un atteggiamento di rinnovamento, nel tentativo – insieme differenziato e generoso, talvolta impervio ma talora ben congegnato – di corrispondere a una società italiana che, dalla seconda metà dei Sessanta ai primi Settanta, si sta radicalmente modificando, sia politicamente che socialmente.
C’è tuttavia un saggio, scritto anche questo successivamente epperò specificamente dedicato al rapporto fra cinema e ideologia negli anni ‘80 in Italia, che interviene nel merito della forbice fra i due decenni (fine Settanta e inizio Ottanta), mostrando chiaramente come lo scenario nel secondo decennio sia completamente mutato rispetto a quello precedente; anche qui la divergenza temporale del saggio (datato nel 1999) ha una relativa importanza, perché Piscicelli dimostra anzitutto che la sua riflessione proviene da uno sguardo attento da vario tempo e dal costante interrogarsi sugli orizzonti del nostro cinema. Di qui una spiccata perspicacia, insieme politica e teorica, tuttavia non scevra di amarezza per il fatto che, negli anni Ottanta, si dissolva l’asse strategico e culturale che aveva nutrito le spinte laiche e critiche del cinema italiano. La sua analisi è davvero lucida e, per noi, ampiamente condivisibile: è nel cambiamento dei rapporti fra i media e la società, e specialmente fra media e politica, che si possono individuare i motivi per cui il cinema italiano – “abbandonato a se stesso” dalle forze politiche di quel decennio – diviene progressivamente subalterno alle logiche del duopolio televisivo e quindi viene spinto a “modellare tematiche e linguaggi…in una fatale rincorsa” che riduce vistosamente la ricchezza creativa e produttiva dispiegata nel decennio precedente, ricchezza che, quindi, si trasforma nella corsa all’ “appiattimento” e al “conformismo”.
Con questo giudizio Piscicelli esprime un forte disincanto per come la situazione generale del cinema italiano stia muovendo verso la spinta riduzione di quella effervescenza (anzitutto politica e poi morale, altresì libera da autocensure o da tabu inaccettabili) che nei Settanta aveva, invece, dispiegato una innegabile forza creativa. Si può leggere in trasparenza, in questo saggio, quasi come una difficoltà propria a convivere con un sistema in cui non è più tanto possibile operare in continuità con una certa libertà di proposta. Ma il disincanto di Piscicelli, fortunatamente, non corrisponde alla sua lucidità, che resta vigile.
Difatti, da questo punto di vista, non è solo il cinema italiano a costituire un suo privilegiato luogo di interesse, perché il nostro critico-autore non manca di seguire le tendenze più significative che riguardano (l’abbiamo già detto) il cinema europeo. Negli anni Settanta, il critico non manca di seguire le uscite dei film riconducibili agli autori della nouvelle vague francese: da Godard (il breve saggio su Tout va bien in «Cinema Sessanta») a Chabrol (la recensione sull’«Avanti» a Nada, ossia Sterminate gruppo Zero), allo Jacques Rivette di Celine et Julie vont en bateau (un cineasta modernissimo, che la mia generazione ebbe appunto modo di conoscere integralmente grazie a una retrospettiva completa della Mostra di Pesaro nel 1974, quindi anche grazie a Piscicelli) e, soprattutto, gli scritti dedicati a uno scrittore-regista, oggi parecchio dimenticato ma allora presente nel dibattito culturale, come Alain Robbe-Grillet. Su questo autore e sui suoi film, Piscicelli mette in gioco la sua doppia passione per la letteratura e il cinema, una passione che torna, poi, inevitabilmente in anni più recenti (si veda il saggio pubblicato nel suo blog sul film Inherent Vice tratto da Thomas Pynchon e quello su Carol, in cui Piscicelli dimostra di saper vedere molto dettagliatamente il lavoro di trasformazione che il regista Todd Haynes ha operato sul romanzo di Patricia Highsmith).
Il nostro critico-regista non manca di essere puntuale nelle radiografie analitiche del cinema tedesco e nordeuropeo: ecco, da un lato, gli scritti su Il caso Katarina Blum di Schlondorff e Von Trotta e l’intervista dedicata a un autore come Alexander Kluge (davvero bellissima per come restituisce l’angolazione creativa di un cineasta profondamente marxista).
A sua volta, l’attenzione per il cinema svedese si coglie sia nel bel saggio dedicato a Scene da un matrimonio di Ingmar Bergman (uno scritto dove pare che Piscicelli colga in Bergman istanze di analisi e di visione dei rapporti interpersonali che lui stesso porrà in gioco nei propri film) e soprattutto nel lungo e interessante saggio (apparso su «Cinema Sessanta») dedicato al film Adalen ‘31 di Widerberg. Interessante per diversi motivi: quello più esterno è che il saggio è scritto nel 1970, dunque nella primissima fase di lavoro del critico, che tuttavia si dimostra già molto acuto e sa articolare con circospezione, e diplomatico taglio nell’esposizione, una difficile analisi sull’ideologia del film per come questa si insinua nei procedimenti espressivi. Così, del film di Widerberg, Piscicelli coglie il lato affermativo della fiducia nel rappresentare la positività della classe operaia ma, insieme, direttamente, ne registra i limiti creativi e d’innovazione nella ricerca della forma espressiva.
In coda ai suoi vecchi saggi, questo volume presenta i suoi ultimi scritti, apparsi nel suo blog personale, tutti al solito ben redatti e qualcuno anche venato da profonda malinconia (come il bellissimo omaggio alla grande attrice dei film di Ozu, Setsuko Hara, pochi giorni prima della sua morte avvenuta nel 2015, novantacinquenne: uno scritto nel quale Piscicelli cerca di darsi una spiegazione del perché il contributo fornito da questa donna giapponese al cinema non abbia racchiuso la sua intera vita, essendosi Ella ritirata dagli schermi poco dopo la morte del suo regista, Ozu, nel 1963, forse a suggello del fatto che il cinema non è tutto nell’esperienza di vivere, anche se ne costituisce una parte importante).
A riguardo di questi ultimi scritti c’è una sola divergenza fra me e Piscicelli, ed è il giudizio negativo, impietoso, che lui dà al film American Sniper di Clint Eastwood. Questa divergenza non è tuttavia importante; ci sarà certamente occasione di discutere fra noi per tentare di comprendere, reciprocamente, quello che forse non è ancora stato capito, ma mi resta la domanda relativa a come, e perché, Piscicelli non abbia visto l’intensa duplicità, l’intrinseco e vitale-mortale legame, che il film di Eastwood traccia fra il cecchino americano e quello iracheno.
In conclusione, per il lettore italiano leggere gli scritti di cinema di Salvatore Piscicelli non solo consentirà di conoscere il pensiero analitico che egli possiede e che il nostro critico getta sul cinema collocato nello scenario politico e sociale contemporaneo (e che si tratti degli anni Settanta o del cinema di oggi, è relativamente importante; conta piuttosto il mettersi in moto di uno sguardo esaminatore sagace, abile a una visione di contesto come a porre in gioco puntualizzazioni verificabili) ma, nel contempo, fornirà la prova che lo stesso cinema di Piscicelli sorge da molto lontano, esprimendo interessi e focalizzazioni di lunga gittata e di profonda elaborazione intellettuale e culturale.



1 commento:

  1. Bellissima postfazione di Gino Frezza che entra nel merito di tutti gli scritti di Salvatore con grande acume , e che rende questo libro ancora più importante: un grande libri di cinema con persone che di cinema ne capiscono davvero e lo hanno dimostrato dedicando ad esso tutta la loro vita professionale e privata.

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