venerdì 15 luglio 2016

Paul Schrader e il cinema della trascendenza: la mia prefazione

E' uscito presso Mimesis Edizioni Paul Schrader e il cinema della trascendenza, a cura di Alberto Castellano, una esaustiva raccolta di saggi su uno dei più importanti autori americani della sua generazione. Trascrivo qui di seguito la mia prefazione al volume. Il libro è acquistabile on line qui e qui.

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Paul Schrader ha occupato una posizione di rilievo nel movimento  che fu definito New Hollywood o American New Wave, una fase di profondo rinnovamento del cinema americano che si può datare tra la fine degli anni Sessanta e i primissimi anni Ottanta e che vide coinvolti cineasti del calibro di Martin Scorsese, Brian De Palma, Robert Altman, Steven Spielberg, George Lucas, Francis Ford Coppola, per non citarne che alcuni.  Schrader vi apporta, prima come sceneggiatore e poi come regista, il rigore di uno stile educato sul cinema classico soprattutto europeo e al tempo stesso, in apparente contraddizione, il gusto della rivisitazione, talvolta felicemente sperimentale, dei generi, dall'horror al noir al mélo. Soprattutto egli innesta nel corpo del cinema americano storie forti e ruvide, personaggi intrappolati in vicende fatali, sospesi tra colpa e redenzione, in una visione che assume spesso una coloritura mitologica, melvilliana, e perfino teologica. La sua carriera prosegue poi nel costante, strenuo combattimento con le regole e le costrizioni di Hollywood, tra alti e bassi, sempre però sostenuta da una lucida consapevolezza delle proprie scelte.

Cresciuto in una famiglia di fede calvinista e di rigida osservanza, Paul, fatto straordinario, entra per la prima volta in una sala cinematografica all'età di diciassette anni. L'assenza di un immaginario filmico legato all'infanzia e all'adolescenza spiega, secondo lo stesso Schrader, il suo approccio al cinema, che è di natura essenzialmente intellettuale e che lo spinge a diventare un critico e un teorico prima di passare alla sceneggiatura e poi alla regia.

Quale sia la natura di quest'approccio ce lo racconta egli stesso in un saggio apparso sulla rivista americana Film Comment nel 2006 dall'ironico titolo Canon Fodder, dove si chiede se esistano e quali possano essere i criteri per definire i capolavori del cinema, se sia possibile cioè elaborare per il cinema un canone sul modello di quello costruito per la letteratura da Harold Bloom con il suo The Western Canon

Schrader parte dal saggio del 1969 Trash, Art and the Movies di Pauline Kael, celeberrima titolare della rubrica di cinema del New Yorker (e sua antica mentore ai tempi dell'iscrizione all'UCLA Film School di Los Angeles), polemizzando con la sua tesi secondo la quale il cinema è un’arte minore, volgare, tipicamente trash, che perde vigore e sostanza se viene infiocchettata con bellurie artistiche. Per Schrader al contrario i film vanno rubricati nella categoria dell'arte e in rare occasione anche dell'arte di alto livello. Più precisamente, il cinema non è tanto una nuova forma d'arte quanto una riformulazione di forme già esistenti, una forma d'arte per così dire “transizionale”, per di più in perpetuo mutamento, alla quale è possibile quindi applicare criteri di valutazione estetica utilizzati per le altre forme d'arte. 

Schrader ne definisce sette. Bellezza, innanzitutto, intesa in un'accezione espansa, oltre la tradizionale normatività. Poi, Singolarità o Straordinarietà (“strangeness”), una nozione più ricca connotativamente  di ciò che definiamo con il termine di “originalità”. Unità di forma e contenuto, il più classico e “antico” dei criteri estetici. Tradizione, nel senso che nessuna opera d'arte può essere valutata astraendo dal percorso storico in cui è inserita. Ripetibilità, il fatto cioè che un'opera possa essere apprezzata ripetutamente nel tempo da diverse generazioni. Impegno dello spettatore, nel senso che la vera opera d'arte stimola un atteggiamento attivo nel fruitore, un feedback creativo. Infine, Moralità, vale a dire che un'opera d'arte non può non suscitare nell'animo del fruitore una risonanza morale, nel bene o nel male.

A partire da questi criteri, davvero canonici, Schrader stila una lista di sessanta film divisa in tre segmenti di venti: oro, argento e bronzo. Al primo posto figura La règle du jeu di Jean Renoir, al secondo posto Tokyo monogatari di Yasujiro Ozu, al terzo posto City Lights di Charles Chaplin. Tra i primi venti, la sezione “oro”, figurano sette film prodotti negli Stati Uniti, ma tre di essi sono firmati da registi immigrati, cioè nati in Europa. Tutti gli altri, a parte Ozu, sono film europei, tre dei quali italiani. Si possono condividere o meno tali scelte, ma esse definiscono in ogni caso un approccio “alto” al cinema in un'epoca in cui prevale il trash; un approccio in definitiva poco americano, sebbene i film da lui realizzati siano profondamente ancorati nella cultura e nell'immaginario degli Stati Uniti.

Per Schrader, il cinema è la forma d'arte regina del Ventesimo secolo, quella che domina sulle altre ma che con esso finisce (da qui, appunto, l'opportunità di stabilire un canone). Come si trasformerà, come si sta già trasformando, nel corso di questo Ventunesimo secolo, non è dato sapere. Una sola cosa è certa, il cinema del futuro, se ancora avrà questo nome, sarà qualcosa di completamente diverso da ciò che abbiamo conosciuto finora e la sua trasformazione sarà interamente determinata dall'evoluzione della tecnologia.

In un articolo del 2009 uscito sul Guardian, Schrader lamentava la proliferazione dei plot nei vecchi e nuovi media. Secondo un calcolo ipotetico un normale consumatore dell'età di 30 anni, oggi, ha visto qualcosa come 35.000 ore di storie audiovisive, di numerosi generi su diversi media; il suo bisnonno, alla stessa età, appena 2500. “We are swimming in storylines”, letteralmente nuotiamo nelle trame, cosa che comporta una sorta di “esaurimento della narrativa”. Lo stesso si può dire, aggiungerei, dell'invadenza delle immagini, dei miliardi di immagini fisse o in movimento, più o meno artefatte o manipolate, da cui siamo bombardati. Un'abbondanza che alla resa dei conti si traduce in una forma di cecità.

Così, sembra dirci Schrader, è da questo esaurimento e da questa cecità che occorre forse partire per recuperare nuovamente la possibilità di una visione. In un cinema futuro che non sappiamo ancora nominare.

martedì 1 marzo 2016

Cinema e psicoanalisi: "Alla fine della notte"


Nell'ambito della rassegna "Cinema e psicoanalisi", a cura della Società Psicoanalitica Italiana e della Cineteca Nazionale, proiezione del film Alla fine della notte di Salvatore Piscicelli.
Segue incontro con Domenico Chianese e il regista.

Giovedì 17 marzo 2016  ore 20.00
Palazzo delle Esposizioni
Sala Cinema
Scalinata di via Milano 9a
Ingresso libero fino ad esaurimento posti










Qui di seguito la scheda del film:

Alla fine della notte (2003)

Regia: Salvatore Piscicelli; soggetto e sceneggiatura: Salvatore Piscicelli; fotografia: Saverio Guarna; scenografia: Rossella Guarna; costumi: Nicoletta Taranta; suono in presa diretta: Fulgenzio Ceccon; musica: Eugenio Colombo; montaggio: Salvatore Piscicelli. 35mm colore. Durata: 95'.
Interpreti e personaggi: Ennio Fantastichini (Bruno), Elena Sofia Ricci (Viola), Stefania Orsola Garello (Fiamma), Ricky Tognazzi (Filippo), Ida Di Benedetto (Celeste), Toni Bertorello (Carlo), Roberto Herlitzka (analista), Anna Ammirati (Gloria).
Produzione: Enzo Gallo per Centrale d’Essai.

Salvatore Piscicelli, il miglior cineasta della nuova Napoli, continua il suo itinerario sofferto e appartato, tanto lucido e rigoroso quanto impermeabile ai diktat dei «fratelli del clan». Giovane, più che giovanile, nell'animo e quindi nel rapporto con la scrittura delle proprie emozioni, Piscicelli non indica la strada neppure ai più strenui dei suoi adepti: come dimostra ampiamente Alla fine della notte, un film che sembra un'opera prima nello stesso momento in cui decide di tirare le fila di un'intera vita artistica.
Il cinema non serve per rimirarsi in uno specchio stilistico; diventa, piuttosto, la chiave per dare un senso alle visioni che tormentano la purezza originaria di una vocazione e di un talento. Così l'eccellente Ennio Fantastichini (al suo fianco ci sono Roberto Herlitzka, Ida Di Benedetto, Toni Bertorelli, Elena Sofia Ricci), attore-regista di mezz'età in crisi, intraprende un viaggio iniziatico che lo riporta a Napoli senza tuttavia risolvere alcun quiz esistenziale.
Da una parte ci sono gli incontri umani, con l'ingombrante corredo di ricordi, traumi, flash subliminali e rimpianti: amici che ne hanno condiviso le passioni, donne che l'hanno tradito o l'hanno amato, una zia leopardiana sui generis, la moglie da cui sta per divorziare che gli annuncia di essere incinta, uno psicoanalista che insegna a convivere con la depressione, un filosofo omosessuale, il padre indegno che gli funestò l'infanzia provocando il suicidio della sorellina. Dall'altra, il pellegrinaggio si sfalda nel vortice sin troppo prezioso dei dialoghi, che poi si posano - come una polvere pietosa e terapeutica - sui canyon desertici e inariditi del tempo perduto.
È ­chiaro che la linea di direzione geografica dal nord al sud offre una chiave di lettura peculiare, ma il tono si mantiene sempre dissonante, eccentrico, destrutturato come in una composizione schonberghiana: Piscicelli non vuole aderire del tutto alla metafora, né sovrapporsi all'autonoma logica della narrazione che -come succede ai veri autori- deve restare tale. La sua coraggiosa «impudicizia», nel senso basico del termine, risalta tutta nel confronto conclusivo, un pezzo di bravura che sembra trasportarci nell'acme fiammeggiante di un melodramma all'antica.”

Valerio Caprara (“Il Mattino”, 2 luglio 2003)

domenica 31 gennaio 2016

Ricordando Jacques Rivette


"Le cinéaste le plus libre qui soit", così lo ha definito Bulle Ogier, una delle sue attrici preferite, in una dichiarazione per Liberation. E Pascal Bonitzer, suo abituale co-sceneggiatore, ha replicato su Le Monde: "Pour ce balzacien, les films étaient constitués comme des complots contre la façon dominante de faire des films." Entrambi i giudizi sono da condividere in pieno.

Per ricordare questo grande cineasta, oggi purtroppo sconosciuto ai più, ripubblico qui la parte centrale di un articolo che scrissi in occasione dell'uscita di uno dei suoi film più belli.


Céline et Julie vont en bateau
(da "Cinema Sessanta", n.99, 1974)

L'inizio dunque ci ricorda Alice. Céline lascia cadere qualche oggetto davanti a Julie e la trascina in un mondo di avventure. Così, fin dalle prime inquadrature, attraverso questa citazione carrolliana, lo spettatore è avvertito: che si tratta di un viaggio al di là dello specchio e dentro il linguaggio, e anche che questo viaggio ha a che fare con la dimensione infantile, per quello che di inquietante comporta questo aggettivo. Assistiamo dunque al dispiegarsi di queste avventure , di questo racconto di avventure destituito di motivazioni, il cui motore, sulle prime, è semplicemenete un incontro casuale in uno “square” parigino. Riconosciamo ben presto in ciò la configurazione moderna del lavoro sul racconto (di cui Rivette è, del resto, un pontefice riconosciuto) e ci accorgiamo che anche la citazione carrolliana vale, “d'entrée”, come citazione critica; se è vero, come sostiene Gilles Deleuze (in Logique du sens), che Carroll è colui che ha scoperto la superficie, colui che inaugura, nella nostra modernità, la critica della profondità e che istituisce una pratica del racconto risolta nell'esplorazione delle contiguità della messa in serie. Questa indicazione critica è verificata più oltre dalla struttura propria del film. Le ultime inquadrature ci ripresentano, ad esempio, le circostanze iniziali del racconto, ma a personaggi invertiti; e noi siamo autorizzati a pensare la forma del film come una sorta di  striscia di Moebius. E' la carrolliana borsa di Fortunatus, dove la superficie esterna è in continuità con la superficie interna: “essa racchiude il mondo intero, e fa che ciò che è dentro sia fuori, e ciò che è fuori sia dentro” (Deleuze). Critica della profondità, che è critica dell'opera come depositaria di un senso nascosto da far emergere. Critica dell'ermeneutica. Coerentemente, Rivette mette qui in questione la fascinazione del labirinto (vedi Adriano Aprà, Geografia del labirinto), risolvendolo nel dispiegamento in superficie.

Céline et Julie vont en bateau ingloba, entro la sua struttura “superficiale”, un enorme meccanismo ripetitivo. Due serie di avvenimenti, per lo meno, vi si trovano presi: quelli che hanno luogo dentro e quelli che hanno luogo fuori della “casa”. Se la prima parte del film è all'insegna, come si è detto, di un incontro casuale, la seconda parte si svolge rigorosamente nell'alternanza delle due serie di avvenimenti. Il passaggio dall'una all'altra serie è assicurato da un oggetto allucinogeno. I bonbon o l'intruglio magico. Oggetti derisori e parodici che nel loro “grado zero” manifestano comunque la supremazia del significante nella manovra della catena narrativa. Ma si avrebbe torto a considerare questo movimento come una illustrazione del “defilé” simbolico. Esso in realtà funziona più semplicemente come un gioco, la cui posta è occultata ai soggetti che vi partecipano. Una sorta insomma di analisi spontaneistica e selvaggia, rischiata “al buio”. Lanciando i dadi (succhiando i bonbon), Céline e Julie sono prese nel ritorno del loro rimosso di attrici.

Dal punto di vista della struttura del film, le sequenze della “casa” (che fanno riferimento a un racconto di Henry James), come la citazione carrolliana dell'inizio, hanno un valore metalinguistico. Ci informano che il problema è quello della rappresentazione cinematografica e che il film è giocato da attrici. Più specificamente, la scena della “casa” è una scena divisa. Se il rimosso ritorna con insistenza, è per essere frazionato, rotto, fatto esplodere: e proprio nella sua ossessiva ripetitività. Ciò che governa il suo ritorno è del resto una insistenza di intensità superiore: la transitiva positività del desiderio che dissolve i fantasmi e reinveste nel corpo, nel linguaggio ciò che è sublimato nella rappresentazione. Distruggendo la “casa”, Céline e Julie non solo si emancipano dal loro “passato”, ma rompono la barriera che separa l'al di qua e l'al di là dello specchio; mettendo quindi in crisi la loro stessa identità di soggetti pieni, depositari di un'eredità.

Possiamo interpretare il movimento ripetitivo del film anche come un processo di regressione. Regressione temporale, per via allucinogena, a modelli di rappresentazione (modelli di “jeu”) passati; regressione formale a modi di espressione cosiddetti infantili. Il paradosso (apparente) è che la seconda offre i mezzi per mettere in crisi la prima. Ciò che emerge dunque è la forza del desiderio, linfa vitale che scompagina i modi calcolati e predisposti della rappresentazione  (di cui del resto è all'origine). E' la struttura stessa del film – così come prospettata sommariamente più sopra – ad esserne investita.

E del resto, come scrive ancora Deleuze, “niente di più fragile della superficie”. E' una forza senza fondo che, emergendo, la buca e la fa precipitare. E' l'ordine primario che la vince sull'ordine secondario (formale) in cui si è costituito il film. Forza dunque del desiderio, delle pulsioni, della materia (e della storia). Come intendere altrimenti il senso di quel riso folle e insensato, di cui ci fanno partecipi Céline e Julie, di quella incredibile proliferazione di linguaggio paragrammatico, di quella gestualità insistente e decentrata, insomma di quella “performance” globale e invadente di cui si fanno agenti le due ragazze, occupando tutti gli interstizi e i vuoti della struttura e facendola alla lunga scoppiare? La superficie è bucata, la struttura scoppiata; e beninteso questo è un effetto extra-testuale. Poiché la forza, nel testo, travaglia la superficie e la struttura e vi insinua la differenza, lo spostamento delle linee, il movimento. Ciò che ne viene sconvolto è l'euritmia, la disposizione geometrica. Non si dà emergenza dello slancio senza vincoli e senza limiti, emergenza del desiderio assolutamente transitivo. La forza non può rendersi manifesta che attraverso la struttura; ma appunto, manifestandosi, la fa precipitare. E' questo lo spazio – contraddittorio – di ogni pratica significante, che il film individua con esattezza.

Tale spazio, lo si vede bene, ingloba la dialettica progetto-alea, predisposizione-improvvisazione (che, per lo meno a partire da L'amour fou, occupa un ruolo importante nel lavoro di Rivette); dialettica che trova qui, ci sembra, il suo superamento. La nozione di alea, o anche di “improvvisazione”, è fondamentale, com'è noto, nel cinema moderno (vedi Noël Burch, Praxis du cinema). Essa segnala, da parte dell'autore, la presa in considerazione, a differenti livelli, della refrattarietà del materiale del cinema. E' un'esigenza questa che nasce, come ha mostrato Burch, dall'interno stesso della specificità cinematografica, perché il cinema, a differenza ad esempio della musica,  ha a che fare con la complessità dell'esistente visibile. Ora è proprio in questa prospettiva che il lavoro sull'alea mostra chiaramente i suoi limiti. Esso sembra far capo a un astuzia dell'autore per riuscire a inglobare quanto una pratica cinematografica di grado zero era costretta ad espellere. Ciò che significa, malgrado tutto, un rilancio della funzione demiurgica dell'autore, che si riappropria del materiale così catturato al momento del montaggio. In Céline et Julie vont en bateau la funzione del montaggio (inteso in questo senso) è ancora importante,  ma esso regola per così dire uno solo dei livelli del film, quello della strutturazione formale che mai come in questo film si organizza, come si è visto, intorno a una figura “arbitraria”. Questo livello entra il lotta, potremmo dire, con gli altri livelli del film; meglio: si dà soltanto per consentire all'altro che lavora il film di manifestarsi nel suo potere dirompente. In questo modo l'autore si spossessa come soggetto pieno  dell'enunciazione e si apparta. Egli è colui che privandosi della parola consente alla scrittura di addivenire. Nel fatto che di questa scrittura si facciano carico, principalmente, due nomi e due corpi femminili, lo spettatore non vi leggerà un caso.

domenica 10 gennaio 2016

"Carol": il film, il romanzo

Dirò subito che Carol, tratto da un romanzo di Patricia Highsmith, sceneggiato da Phyllis Nagy e diretto da Todd Haynes, è un buon film. Il plot è intrigante, il cast scelto bene, le due interpreti principali, Cate Blanchett e Rooney Mara, rispettivamente nei ruoli di Carol e di Therese, sono molto brave, lo stile registico è sobriamente classico, la confezione impeccabile, perfetta in tutti i dettagli, allusiva a un certo cinema anni 50, epoca in cui la storia è ambientata (Haynes non è nuovo a questo genere di operazioni, ricordiamo Far From Heaven, 2002, omaggio a Douglas Sirk). In più c'è un certo tono rivendicativo, indiretto ma efficace, dei sacrosanti diritti delle persone omosessuali, ancora in parte o del tutto conculcati qui o altrove. Insomma tutto ben fatto e ben presentato, un buon film in una stagione come quella attuale non così prodiga, almeno a mio parere, di opere degne di essere viste... Eppure, uscendo dalla sala, avvertivo una punta di delusione, forse più di una punta.

Il fatto è che nella mia testa, durante e dopo la visione, continuavo a confrontare il film e il romanzo e i conti non mi tornavano.

The Price of Salt (questo il titolo originale del romanzo, il titolo Carol compare per la prima volta nella riedizione inglese del 1990), pubblicato nel 1952, occupa un posto singolare nella vasta e fortunata produzione di Patricia Highsmith. Opera seconda dopo il folgorante esordio di Strangers on a Train, portato sulla schermo da Hitchcock, è l'unico romanzo non-mystery/crime, per così dire, della scrittrice texana, l'unico in cui è centrale il tema dell'omosessualità femminile (Patricia era lesbica, com'è noto), l'unico con una forte componente autobiografica: il personaggio di Therese è chiaramente una proiezione della stessa Patricia (su questo aspetto si veda la biografia di Joan Schenkar o anche questo pezzo del New Yorker). Fu rifiutato dall'editore del primo libro (probabilmente perché non conforme al genere che l'aveva resa nota, dopo il successo del film di Hitchcock) e uscì sotto lo pseudonimo di Claire Morgan. Nell'edizione paperback dell'anno dopo, presentato come romanzo lesbian pulp, vendette un milione di copie.

Il romanzo è la storia di un'educazione sessuale e sentimentale raccontata per intero dal punto di vista di Therese, sebbene il libro sia scritto in terza persona. Questa è la prima, significativa differenza col film, dove, nell'oggettivazione narrativa, il peso dei due personaggi viene riequilibrato. Le vicende personali di Carol, il problema del divorzio e i rapporti con la figlia, acquistano un'evidenza che nel romanzo è indiretta, filtrata dai pensieri e dalle emozioni di Therese. E' possibile che la presenza nel cast di una star come Cate Blanchett abbia influito su questa impostazione.

Ma c'è, tra film e libro, una differenza ancora più sostanziale e riguarda il ruolo che i due personaggi svolgono nella relazione d'amore. Nel romanzo, la diciannovenne Therese, che ha trascorso l'adolescenza in un istituto di suore praticamente abbandonata dalla madre vedova, è un'aspirante scenografa che vive da sola a New York. Ha un boyfriend che vorrebbe sposarla ma che lei non ama e col quale è andata a letto un paio di volte ricavandone un'esperienza sgradevole. Quando, nel reparto giocattoli di un grande magazzino dove lavora temporaneamente, incontra Carol, una giovane e bella signora, sposata con figlia e sul punto di divorziare, è il colpo di fulmine, è la scoperta di un desiderio travolgente, che la rende felice e la sorprende. E sarà lei ad avere, dall'inizio alla fine, il ruolo più propulsivo nella relazione d'amore.

Therese appartiene di diritto a quella che sarà la lunga serie di personaggi più o meno amorali che popolano i romanzi della Highsmith. L'urgenza del desiderio, una volta riconosciuta, non ammette ostacoli. La passione è vissuta senza sensi di colpa, nessuno scrupolo, nessuna concessione alle convenienze sociali. Quando Carol sarà costretta ad abbandonarla perché il marito le impedisce di vedere la figlia, Therese reagirà male, non può ammettere che l'amante abbia potuto preferire la figlia a lei, e allora non vorrà più rivederla. Torna a New York decisa a riprendersi la sua vita. E' il punto culminante di un processo di conquista dell'identità e della maturità sessuale e sentimentale.

Nel film, il ruolo più propulsivo nella relazione è attribuito a Carol, che ha già al suo attivo una relazione lesbica con la sua amica Abby, ma soprattutto viene completamente oscurato il coté amoralmente sovversivo del personaggio di Therese. Da questo punto di vista i cambiamenti apportati dalla sceneggiatura risultano significativi, anche se il plot non si discosta molto da quello del romanzo.

Ad esempio. Nel film, all'inizio, Carol dimentica i guanti sul banco del grande magazzino e Therese li fa spedire al suo indirizzo: un gesto di cortesia. Nel romanzo Carol non dimentica i guanti, è Therese che, il pomeriggio dello stesso giorno in cui l'ha conosciuta, spedisce a Carol una cartolina di auguri: un gesto di approccio, di provocazione.

Ancora. Nel film, Therese non ha avuto rapporti sessuali col suo boyfriend né con altri o altre, e quando si presenta l'occasione del primo approccio fisico, è Carol che prende l'iniziativa, si slaccia la vestaglia e la bacia. Segue una scena d'amore filmata in modo più o meno canonico. Il giorno dopo scoprono che il detective spedito dal marito ha registrato la loro notte d'amore (quasi una nemesi) e poi, in macchina, c'è un dialogo, dal sapore vagamente moralistico, in cui Therese si rimprovera di aver accettato le avances di Carol, di essere egoista, e Carol le dice: Ho preso quello che tu mi hai offerto spontaneamente, non è colpa tua. Quella sera sarà ancora Carol a invitare Therese a dormire con lei. Al risveglio, la ragazza trova in camera Abby che l'accompagnerà in macchina a New York. Carol è già partita.

Tutt'altro svolgimento troviamo nel romanzo. Innanzitutto è Therese a prendere l'iniziativa. Le dice: Carol, ti amo, posso dormire con te? Poi vanno a letto ma si addormentano subito perché sono stanche ed è solo all'alba, nel torpore del risveglio, nell'incerta luce che rischiara la stanza, che fanno l'amore. Nelle ore che seguono Therese non smette di guardare la sua amante, di abbracciarla, di toccarla, vuole sapere se è andata a letto con Abby, se con Abby era lo stesso che con lei, parlano dell'amore fisico con gli uomini... Seguono giorni e notti di vagabondaggi e di amore, le due amanti hanno il tempo di assaporare una dimensione di concreta felicità, prima che l'irruzione del detective metta fine, temporaneamente, all'idillio.

Ancora, il finale (un happy end che tanto piacque alle lettrici lesbiche che inondarono di lettere l'autrice, come ricorda lei stessa in una nota del 1989). Qui c'è un'elisione altrettanto significativa. Nel film, dopo aver rifiutato l'offerta di Carol di andare a vivere con lei nel suo nuovo appartamento, Therese va a una festa di amici dove intravede il suo ex-boyfriend che sta con un'altra, è pensierosa e un po' spaesata, una ragazza le fa un timidissimo approccio, poi si decide, esce e va a riprendersi la sua Carol.

Nel libro lo schema è lo stesso ma Therese va a una festa di teatranti molto più glamour, dove a un certo momento compare sulla porta l'attrice inglese che interpreterà la commedia per la quale lei farà l'assistente scenografa. E' una bionda con vividi occhi azzurri. Si guardano, e Therese avverte "uno shock vagamente simile a quello che aveva provato nel vedere Carol per la prima volta", "una sorta di interna vampata" che le fa comprendere che quella donna è come Carol, ed è bella. L'attrice la raggiunge, la invita a un party più intimo che si terrà nella sua stanza. Un conflitto emotivo si scatena nell'animo di Therese, un "groviglio" con molti fili che per un momento non riesce a districare. C'è qui un doppio riconoscimento, quello della propria conquistata identità sessuale e quello dell'amore, che la spinge infine ad andarsene e a scegliere Carol. Ma quella vampata apre a un futuro di nuove scelte e di nuove libertà. Ancora una volta dove il libro accende, il film spegne.

La spia di quest'approccio per così dire riduzionista ce la offre lo stile fotografico del film (la via principale per accedere al fondo di un'opera è sempre quella della forma). Qui niente splendore del technicolor come in Far From Heaven, niente stile composito come in I'm Not There (i due film di Haynes che a tutt'oggi preferisco). La scelta di girarlo in pellicola Super16 produce un'estetica vagamente rétro in cui tutto viene elegantemente ammorbidito, sfocato, smussato. Il fuoco del desiderio, dell'amore, della passione c'è ma si intravede appena, soffocato alla fine da tanta morbidezza.